Chi ha paura di Virginia Woolf / Latella: le onde della simulazione

14 Gennaio 2022

È una storia di figli oppressi da padri uomini di potere e di figli che quei padri sognano di ammazzare e che, per biologia o per reazione, sono sterili. Chi ha paura di Virginia Woolf, il famoso testo di Edward Albee del 1962, considerato caposaldo di un teatro realista, appena tinto di sfumature che richiamano il teatro dell’assurdo, rivive in una versione con la regia di Antonio Latella. La nuova traduzione di Monica Capuani svecchia l’italiano ormai datato approntato da Ettore Capriolo per la collezione di teatro di Einaudi nel 1970. 

Latella, all’inizio, sembra prendere con le pinze il testo, che riconosce di non aver troppo amato in passato e di avere ‘scoperto’ solo grazie a questa nuova veste linguistica. Ma subito la scena ci fa capire che il realismo è solo una facciata nello scontro tra due borghesi di mezza età, marito e moglie, George e Martha, reso più cruento nel cuore di una notte dall’arrivo di una coppia più giovane, Nick e Honey, inviata nella loro casa dal padre di Martha, rettore e padre padrone dell’università dove George e Nick insegnano.

 

In un angolo c’è la classica poltrona, una lampada e poco altro: le pareti sono tendaggi verdi plissettati, molto teatrali. Si vede la soffitta del palcoscenico, con luci e impianti. Al centro della scena troviamo un pianoforte verticale, rifugio e punto di fuga, dove Martha apre la scena, ubriaca secondo il copione. In primo piano sono sistemati alcuni gatti di ceramica. L’accesso alle altre stanze, la cucina e il piano di sopra della casa, è scarnificato in due ante di armadio, magazzini di segreti, nascondigli, luoghi di apparizioni. 

 

 

La sottrazione di una scenografia totalmente realistica ci porta immediatamente in una dimensione teatrale, teatralissima. Così come l’inizio cantato da Martha, interpretata da una portentosa Sonia Bergamasco (George è Vinicio Marchioni, Nick Ludovico Fededegni, Honey Paola Giannini, in una produzione Teatro Stabile dell’Umbria, con le scene di Annelisa Zaccheria, i costumi di Graziella Pepe, le musiche e il suono di Franco Visioli, le luci di Simone de Angelis, la drammaturgia di Linda Dalisi): una Martha con parrucca nera, che cita Bette Davis in un film della Warner. 

Nelle note di sala Monica Capuani ricorda la passione di Albee per Pirandello, e questa veramente sembra una recita continuamente a soggetto, un gioco delle parti, una favola del figlio cambiato, con personaggi in cerca di una trama per le loro esistenze. Ma le citazioni non finiscono qui, a partire dal titolo, che riprende e parodizza una canzoncina Disney, quella dei tre porcellini (Who’s Afraid of the Big Bad Wolf). Albee, però, non cambia solo il Wolf nella scrittrice Woolf: secondo Latella rivolge anche uno sguardo alla poetica della scrittrice inglese, al suo modernismo, al suo anticonformismo, alla sua insofferenza per la famiglia tradizionale e per i ruoli della società patriarcale. In quell’America che scopriva le avanguardie europee, l’incomunicabilità, la moltiplicazione degli io e delle strutture narrative, questa pièce si misura con la scrittura circolare della Woolf, in un dramma in tre atti, intitolati rispettivamente Giochi e divertimento, La notte di Valpurga, e L’esorcismo

 

Il gioco di società, in questo caso in vari set, che si ripetono con variazioni di una trama strutturalmente omologa e con personaggi maschere mutanti, è crudele, svela i fallimenti dei protagonisti. Quelli di George in primo luogo, che ha sposato la figlia del rettore e che sembrava destinato a prendere il posto del vecchio, ma che non ha saputo essere all’altezza e che sembra rifiutato da Martha per questa e altre debolezze. Quindi diventa uno svelamento dei segreti della coppia più giovane, che nella notte dei diavoli, degli spettri e delle streghe diventa a sua volta vittima sacrificale, specchio della guerra tra i due più maturi, complice della carneficina psicologica. 

 

 

A poco a poco si rivelano verità taciute, o almeno paiono svelarsi, in un gioco al massacro persistente, punteggiato da spari di una pistola scacciacani che all’inizio, scambiata per vera, getta nel panico: ma anche questo è gioco teatrale, čechoviano diremmo. Gli scontri si allargano, senza risparmiare nessuno, trasformando di volta in volta i personaggi in attori, registi, pubblico. Qualche segno ancora viene spostato nella regia di Latella: per esempio, non si tratta come da convenzione di una notte alcolica, alcolicissima, che inizia alle due già dopo un party in casa del rettore padre e che continua fino alle luci dell’alba, alla desolata, grigia rivelazione finale. Certo, continuamente da una delle ante vengono estratti bicchieri e bottiglie, ma sono vuoti: l’ubriacatura è solo citata, teatrale. Come lo scontro, gli scontri tra i personaggi. E sappiamo che il vero teatro può far male, come la vita, può sconvolgere, far affiorare spettri, rivelare misteri nascosti e insopportabili. 

 

A questo gioco giocano gli attori, bravissimi tutti: si crogiolano e si avviluppano nella conversazione, la rompono continuamente con la violenza di rancori, di posizioni inconciliabili, di paure, di meschine avidità sepolte, di fallimenti, di certezze. Per esempio quando George, che fa lo storico, guarda il mondo di possibili clonazioni del biologo Nick con orrore per il riproducibile, per lo scientificamente manipolabile, per il seriale, accampando l’imprevedibilità dell’accadimento storico. 

Continuamente la forma cerca una stabilità, e in ogni momento l’apparenza viene disfatta, facendo scoprire qualche intimo dolore occultato, qualche scheletro nascosto in uno di quegli armadi o sepolto dentro i cuori; oppure una madre e un padre ammazzati, forse nella realtà, forse solo in un romanzo fallimentare; o anche un’eredità costruita sulla malversazione nel nome della religione… 

 

I personaggi si sfilano dal centro della scena e si mettono in posizione marginale, come spesso fa George, come osservatori o provocatori o come pugili che rifiutano di continuare a combattere; o viceversa la occupano pienamente, la scena, simulando di possedere la vita, le cose, le sicurezze, come fa Martha, come fa Nick, mentre la moglie Honey si lascia naufragare in un’ubriachezza esibita, come era stata esibita la falsa gravidanza, per farsi sposare. Onde, circolarità, rovesciamenti: ecco Virginia Woolf, ed ecco il Big Bad Wolf, che divora i personaggi da dentro.

 

 

Latella ha dedicato vari spettacoli al Sogno Americano e al suo naufragare, al suo trasformarsi in menzogna, in incubo americano. Da Francamente me ne infischio, riscrittura nientemeno che di Via col vento, a Un tram che si chiama Desiderio trasformato in violenta seduta psichiatrica, fino a La valle dell’Eden, con una casa che sempre più rinchiude e alla fine crolla. E vari ne ha dedicati al crogiuolo di misteri, odi, scontri che è la famiglia, a partire da varie riscritture sceniche di Amleto fino a Santa Estasi, studio sulla tragedia greca, sul mito degli Atridi e sulle scellerataggini compiute nel nido familiare. Qui i filoni si incontrano, si fondono: la tragedia speculare è essere figli oppressi da un padre padrone e non essere a propria volta capaci di essere padri e madri. In modo molto contemporaneo paternità e maternità diventano impossibili (o inconsciamente rifiutate) e sono trasformate in paura del rapporto con padri e figli, in fallimento, in desiderio frustrato, in fantasticheria. 

 

 

“Ogni volta che entra la morte, bisogna inventare, mentire, ricostruire. La morte la puoi vincere solo con l’invenzione” scriveva Virginia Woolf e Albee riprende la frase come guida del suo testo. Non si riesce a essere padri e madri, qui, e allora George e Martha si inventano un figlio e intorno a lui si scannano: e finché quella fantasia è viva si sviluppa la trama, con tutti i suoi trabocchetti, i suoi scontri. Quando la finzione viene svelata arriva un’alba dilavata, squallida epifania di una vita che si esaurisce nella incolore rassegnazione.

Latella fa gridare i personaggi, li fa contorcere, con il suono di Visioli ne fa echeggiare, rimbombare le voci, quella di Martha soprattutto: George cerca di mantenersi più freddo, anche se il processo di sfaldamento della personalità si rivela nel rilassarsi progressivo della compostezza del vestito. Qualche verità si cerca nascosta nella teatrale simulazione, in troppe finzioni architettate per non dirsi, per non accettare la verità. 

 

Questo è il ritmo di uno spettacolo che vive di perfidie calcolate ma anche di false piste e di esplosioni, secondo il solito del regista, con passaggi impetuosi tra gli scontri del secondo atto e le rivelazioni e il congedo dai fantasmi del terzo, con ondate di luce che fanno risaltare parti del fondo teatrale verde; con lo smontaggio del pianoforte in una scena di furia di Martha, che cercherà di smuovere e punire il consorte provando a sedure Nick.

Ma la verità è un’altra: l’odio, le menzogne, le aggressioni nascondono un grande amore, che si accende in certe scene di trattenuta, intensa tenerezza, come una disperazione per quel dover sempre girare intorno alla coppia e non avere altro figlio che un’invenzione, gravati dallo spettro del grande padre, il lupo cattivo da fuggire con la fantasticheria.

 

 

Marchioni sembra il regista dei giochi, compassato, disilluso, cinico, ironico, distante, apparentemente, ferito nel profondo. Rassegnato, in uno smottamento che inutilmente cerca di arrestare. Bergamasco è onde woolfiane, intensità pura, disperazione, finzione, ricerca di un canto nelle profondità più roche della voce, scomposta, sgraziata per l’ira, la delusione, ma dando calore, un calore che può bruciare. I due giovani Fededegni e Giannini, incistati nei loro caratteri, nelle loro maschere, reggono perfettamente il gioco: lui si lascia conquistare da Martha e si esibisce in una travolgente sonata di Beethoven, fallendo poi la prova del sesso; lei, esibendo l’ubriachezza, si lancia in una danza in cerca di aria. I due si offrono come teneri complici e vittime di una discesa negli abissi della disperazione. E come replica futura del fallimento di George e Martha.

 

Alla prima assoluta al Teatro Nuovo Giancarlo Menotti di Spoleto, andata in scena dopo un rinvio di otto mesi a causa della pandemia (leggi qui l’intervista alla drammaturga Linda Dalisi a firma di Rossella Menna dell’aprile 2021), gli applausi sono infiniti, entusiastici.

Si replica in giro per l’Italia, dal 18 al 23 al Carignano di Torino, il 25 e il 26 all’Ariosto di Reggio Emilia, dal 28 al 30 al Galli di Rimini, dall’1 al 13 febbraio al Bellini di Napoli, dal 15 al 20 febbraio al Morlacchi di Perugia, dal 24 al 27 febbraio all’Arena del Sole di Bologna e ancora, in marzo, dall’8 al 13 all’Ivo Chiesa di Genova, dal 15 al 27 allo Strehler di Milano, il 29 e il 30 al Lac di Lugano.

 

 

Le fotografie sono di Brunella Giolivo.

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