Melania Mazzucco architettrice di libri / Non pensare a una balena
Non pensare a una balena. Una balena arenata su una spiaggia di Roma quattro secoli fa. Perché una volta che ci avrai pensato, non ti uscirà più dalla testa. Rimarrà incastrata tra l’emisfero sinistro e quello destro del tuo cervello. Ci pensa Melania Mazzucco a farcela vedere, questa balena, nel primo capitolo del suo nuovo romanzo intitolato L'architettrice (Einaudi). Poi la balena sprofonda nel pelago delle oltre cinquecento pagine del volume, per riemergere alla superficie della pagina finale. Rimanendo però incagliata nella memoria della protagonista del libro, Plautilla, e insieme nella mente di chi sta leggendo il romanzo che racconta la sua vita.
La balena è una delle più imponenti architetture costruite da madre natura. Dentro la cui bocca gli esseri umani hanno spesso sognato di entrare, come in una casa: da Giona a Pinocchio. È fatta di carne, come noi, senza essere carnivora. Può quindi inghiottirci, senza farci male. Questo enorme edificio vivente, quando si spiaggia muore. Puzza e si decompone. Però rimane intatto nell’immaginazione, come una figura illustrata: prima di essere qualcosa di concreto, infatti, è un disegno. Una rappresentazione. Non pensare alla balena morta, ma a quella dipinta: questo potrebbe essere il motto dell’arte in generale e della letteratura in particolare, che ha il potere di fabbricare immensi edifici fatti di parole. Capaci di galleggiare sul nulla.
Non si può dire che il titolo di questo romanzo sia ameno. Inizia con un termine nobile, che rimanda al grado superlativo dell’archè. Ma subito dopo esce dai ranghi, facendo cozzare la triplice lettera “t” con lo stridore imposto all’orecchio dal suffisso dei nomi femminili di mestiere: istitutrice, nutrice, stiratrice. Non è ameno, ma azzeccato, proprio perché bifronte. A mezzo tra l’altezza e la caduta, la nobiltà e il ridicolo. La caduta dei mestieri, quando passano in mano alle donne; il ridicolo delle femmine, quando si travestono da artisti o eroi. Soprattutto, il titolo è azzeccato perché ci ricorda con quale scrittrice abbiamo a che fare: ci rammenta che Melania Mazzucco è la grande architettrice di libri della letteratura italiana contemporanea. Una delle poche in grado di costruire solidi e vasti palazzi di carta sotto i nostri occhi. Accettando la sfida della balena, quella di una stupefacente quantità, che riesca a fluttuare leggera.
Le donne sono abituate a stare dentro le case. Non a costruirle. Qualcuno lo ha sempre fatto per loro, innalzando le quattro mura del privato in cui sono state lungamente confinate. Per non esporle ai rischi dell’avventura, ma anche alla gloria dello spazio pubblico. Tra le varie arti negate alla creatività femminile, quella dell’architettura è la più proibita di tutte. Non solo per il suo spiccato carattere pratico e imprenditoriale, ma anche per quello simbolico: si è mai vista una serva o una principessa che costruisca il suo stesso castello o la sua prigione? Il governo della forma della città, la gestione del confine tra interno ed esterno, insomma il dominio dello spazio è uno dei poteri fondamentali che il maschile si è sempre tenuto ben stretto. In tal senso, un’architettrice è una chimera, una bizzarria estrema, se non una mostruosità.
Per questo Mazzucco, scrivendo L’architettrice, arriva a toccare un punto estremo del triangolo che ha retto finora una parte consistente della sua narrativa: da una parte le donne che hanno praticato l’arte, pur essendone escluse. Dall’altra l’ombra che questa pratica oscura del passato getta sulla propria arte di scrittrice. Infine il rapporto con il padre: il padre come primo architetto, il solo che può decidere di dare spazio al loro talento. Oppure rinchiuderle in un convento. Le madri le generano per via di natura, poi ci vuole però un padre che sia tanto pazzo da ri-generarle dentro lo spazio dell’arte.
La capacità di integrare il punto di vista maschile dentro questa dinamica conflittuale e tragica della storia, è uno dei punti di forza del libro che Mazzucco ha dedicato all’architettrice Plautilla Bricci. Come lo era nel romanzo che più di dieci anni fa aveva dedicato a Tintoretto e alla figlia pittrice Marietta, La lunga attesa dell’angelo: in entrambi i casi i padri non spadroneggiano e basta. Ma soffrono accanto a noi. Soffrono della contraddizione del talento delle figlie, in cui si rispecchiano senza averne il diritto. Ma mentre la figlia di Tintoretto eredita la stessa arte del padre, Plautilla eredita un dente di balena. E rispetto al padre, geniale dilettante di scrittura, musica e pittura, sceglie alla fine un’altra arte. Liberandosi della sua filiazione.
Si tratta di un salto verso l’ignoto, che segna forse la fine di un percorso per Melania Mazzucco. L’addio al vero padre, citato nell’ultima riga del libro e rincorso probabilmente nei vari travestimenti che la scrittura ha saputo dargli. Di qui l’impressione che questo libro consacri, in una sorta di mise en abyme liberatoria, la capacità costruttiva, strutturale della figlia. Nel momento in cui finisce la ricerca del padre. La quale non può che finire con la perdita in fondo all’abisso dell’ennesimo ritratto che la figlia artista ha tentato di farne. Il nome del padre vero entra nel libro in virtù di quella mescolanza tra realtà e finzione, archivio e immaginazione che è sempre stata una cifra dei libri di Mazzucco. Dopo aver attraversato tutto il libro, non ci stupiamo di leggere il nome di Roberto Mazzucco, per il semplice motivo che anche il nome di Plautilla, protagonista del romanzo, è vero. Se quest’ultimo fosse stato inventato, quello autentico del padre non avrebbe potuto sigillare questa storia. Sarebbe rimasto impronunciabile.
Per almeno tre ragioni. La prima riguarda la Storia, con la esse maiuscola, la seconda la memoria e la terza la presa di parola del soggetto. Melania Mazzucco è una scrittrice che si è costruita nel corpo a corpo con la storia. Studiando, documentandosi, maneggiando quello che materialmente rimane di chi non c’è più. Questa sua inclinazione l’ha messa in contatto con i fantasmi della storia. Fantasmi che un tempo sono stati reali. In quanto tali, non ci sono così estranei: non sono altro da noi, ma vivono nella nostra stessa dimensione storica. Quella dove è realmente esistita una famiglia Schwarzenbach (che Mazzucco ha raccontato nel libro Lei così amata), una famiglia Tintoretto, una famiglia Bricci e anche una famiglia Mazzucco (presente nel libro Vita). La realtà di questa esistenza è garantita dalla memoria. Intesa come un edificio reso momentaneamente abitabile dalla scrittura. Il romanzo è un insieme di stanze in cui i documenti lontani, illeggibili, mezzi cancellati della storia trovano finalmente casa. Una casa comune, in cui tutti possono entrare. Grazie a una voce che li accompagna, un soggetto che prende la parola per dare un qualche ordine alla memoria dell’esistenza. Questa voce, nel romanzo L’architettrice, è la voce stessa di Plautilla, che narra le vicende della propria vita in prima persona.
Non pensare alla balena morta, ma a quella dipinta. Ricordati che tutto è nello stesso tempo realtà e rappresentazione. Questo ci dice la voce di Plautilla dalle pagine del romanzo di Melania Mazzucco. Entrambe vissute nel ventre di una città-balena, caotica, barocca e circense. Tanto vitale, quanto già putrefatta: la Roma tumultuosa del Seicento o dei tempi nostri. Entrambe vissute nel nome dell’arte. Un nome improprio per il loro genere femminile. Quattro secoli fa molto più di adesso: ma anche adesso, si può pensare di prendere la parola dimenticando per quanto tempo sia stato un gesto inammissibile? La scelta della prima persona, affinché Plautilla racconti da se medesima la propria storia, mi sembra una risposta chiara da parte dell’architettrice di libri: no, non possiamo farlo. Saremo per sempre ventriloque, portandoci dentro la voce di chi non ha potuto parlare prima di noi. Dipingere. Costruire. Come la madre di Melania Mazzucco, a cui il libro è dedicato, che lasciò l’università di architettura “quando scoprì che più rari dell’hibonite erano gli architetti donna”.
Non pensare a una balena è impossibile. Perché una volta che qualcuno ne avrà pronunciato il nome, non ti lascerà più. Impedendoti di ignorare l’enormità dell’esclusione e della cancellazione di cui siamo figlie.