Intortare

17 Aprile 2015

Se nel nostro paese c'è una parola malata, quella è "comunicazione". Lavorare in comunicazione, studiare comunicazione, fare comunicazione: tutte espressioni che spesso evocano attività indistinte, competenze imprecisate, capacità magiche.

 

L'inafferrabilità di questa parola consente ogni distorsione del suo senso. In particolare, quando è entrata a far parte del lessico politico e giornalistico, la comunicazione si è tradotta nella miglior dote dei leader. Non c'è dubbio, infatti, che il requisito indispensabile di questi anni sia stato considerato proprio comunicatore, merito attribuito prima a Berlusconi, poi a Grillo, oggi a Renzi e Salvini.

 

Questo però vorrebbe dire che per comunicare basta affacciarsi nei mass media. Ciò che contraddistingue i comunicatori è invece qualcosa di più preciso. Bernbach fu molto chiaro: il loro compito è consegnare il messaggio. I comunicatori si occupano della delivery di un significato. Se gli artisti non devono dare alcuna destinazione alle proprie creazioni – cosa vuol dire di preciso quel quadro? – i comunicatori invece hanno a cuore la ricezione esatta di ciò che vogliono esprimere. Quello che creano è insomma un evento concreto.

 

William Bernbach

 

Prima di entrare nel linguaggio inglese tra il XIV e il XV secolo, ricordiamolo, comunicare deriva dal latino, vuol dire mettere in comune. E, come ricorda Durham Peters analizzando le radici della parola, «il latino munus ha a che fare con doni o servizi offerti pubblicamente (...) Il suo significato non era per nulla mentalistico: communicatio generalmente implicava beni tangibili».

 

Qualcosa di palpabile deve passare dall'uno all'altro. Un oggetto allora, un concetto oggi. Il problema è che la delivery non è affatto scontata. Nemmeno affermare la pura verità dà garanzie. I fatti non bastano, ammoniva Bernbach, perché «la verità non è verità finché la gente non ti crede; e non possono crederti se non sanno cosa dici; e non sanno cosa dici se non ti ascoltano; e non ti ascolteranno se non sarai interessante; e non sarai interessante se non dici le cose in modo fresco, originale, fantasioso». Ovvero, il comunicatore deve ricorrere a qualcosa di più che alla chiarezza.

 

Bernbach amava citare Winston Churchill, il quale nel 1940, ancora in piena guerra, ringraziò così la Royal Air Force: «Mai così tanti hanno dovuto così tanto a così pochi». Sarebbe stato lo stesso, aggiungeva, se lo statista si fosse limitato a dire «Dobbiamo molto alla RAF»? Certamente no. Essere bravo a comunicare, dunque, vuol dire sintetizzare il proprio pensiero in formule memorabili. È certamente il caso di Obama. Ma anche di Benigni, quando divulgando Dante dice: «Settecento anni vi sembrano tanti? No, sono dieci persone di settant'anni».

 

Winston Churchill

 

Il comunicatore fa da tramite con un mondo solido, fatto di verità sostanziose. Lì ha estratto la sua gemma. Ma se tutto questo è comunicare, come definire una qualunque intervista al leader politico italiano? Assistendovi, le impressioni che ne ricaviamo sono sempre complessive, generiche, riguardano l'atteggiamento, il modo di porgersi, l'umorismo, la furbata tattica. Non ci soffermiamo neanche più sul suo costante eludere la sostanza delle questioni (come annotato di recente da Giunta a proposito di Renzi). Di tutto si può parlare ma non di comunicatori. Questi non vogliono comunicarci niente. Serve una definizione diversa, più aderente. In effetti, il leader italiano potrebbe essere un intortatore.

 

Non è un insulto, non è dialetto. Arriva dal participio passato di torcere, nel senso di "far girare" allo scopo di stordire, dice il Vocabolario Treccani. Intorto, dal latino "intorquere", torcere in dentro (Dizionario Etimologico di De Mauro-Mancini), che descrive molto meglio del "comunicare" il flusso di parole da cui si è avvolti, attorcigliati, tra spirali di frasi come da edera, fino all'inviluppare, al rendere oscuro, all'intorta oratio, come recita il dizionario Latino di Castiglioni-Mariotti.

 

Stavolta però siamo agli antipodi dal linguaggio iniziatico democristiano o dal latinorum manzoniano. Nel nuovo mondo tecnico dell'intorto, il flusso verbale è composto di suoni graditi, auspici antipolitici, accensioni entusiastiche, esibizioni di buon senso. Sembra di capire tutto, ma non si stringe in mano niente. Nell'accezione italiana insomma il significato originale di comunicazione si è rigirato nel suo contrario, non è più condivisione di significati ma un raffinato gesto di esclusione. E bravo a comunicare vuol dire in verità bravo ad ammansire le folle, bravo a governare l'uditorio. Un'abilità che la nostra lingua è in grado di definire con una specifica parola. Che non è comunicatore.

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