Il mental coach di Matteo Berrettini / Stefano Massari: o vinci o impari
Stefano Massari è il mental coach di molti atleti, il più noto dei quali è Matteo Berrettini. E Matteo Berrettini è il primo tennista italiano ad aver raggiunto la finale di Wimbledon. Ma cos’è un mental coach? L’espressione può sembrare vicina all’orrendo universo del “motivazionale”, quel complesso di manuali, pratiche e seminari sviluppatosi dentro una sottocultura manageriale capace di tradurre ogni forma di vita in potenziale profitto.
Sport come milizia, come mobilitazione sociale. Un’antica visione, sostenuta dalle culture militari, condivisa dagli autoritarismi e poi traslocata – con nuovi obiettivi – nella modernità produttiva. Durante la seconda guerra mondiale fu il generale McArthur a parlare così delle attività sportive: sul terreno delle nostre contese amichevoli viene gettato il seme che, in altri tempi e in altri luoghi, genererà il frutto della vittoria.
Niente a che vedere con Massari né con il suo “O Vinci o Impari” (Solferino). Qui lo sport riguarda il costante solitario dialogo con il proprio corpo, come raccontano i campioni nel libro. Matteo Berrettini: quando giochi sei straordinariamente vicino solo a te stesso. Simone Ruffini, nuotatore: Canto a bocca chiusa, dentro di me, il mio corpo fa da cassa armonica e vado avanti a cantare finché non decido che basta così. Giovanna Schettino, canottiera: Sento che la rabbia produce energia. (…) Tutto quello che faccio è remare ed esserci.
Nel rumore mediatico cresciuto intorno allo sport queste mute conversazioni dell’atleta con il suo fisico sono difficili da percepire. Tutto avviene dentro, in un flusso inarrestabile che reagisce a ogni dettaglio ambientale, scrivendo nella memoria una sorta di diario sensibile. Così la tennista Flavia Pennetta racconta un suo ricovero, malata di tifo: ovunque si spande nell’aria un odore di disinfettante, così forte da diventare acido, un odore di pulito eccessivo, aggressivo e pieno di paura che rende l’anima pesante. L’odore dell’ospedale (…) Quella che provo non è la fatica del corpo, una fatica buona che accompagna le giornate di allenamento e che fa sentire utili a sé stessi e a posto con la coscienza.
Tre anni fa ho invitato Massari in IULM perché raccontasse il suo lavoro agli studenti. Dal momento che è stato anche uno dei più bravi copywriter italiani, mi interessava capire quale uso delle parole stesse facendo adesso, nella sua nuova professione. In aula abbiamo visto alcune immagini del quarto di finale di Berrettini agli US Open 2019 nel quale aveva battuto Gael Monfils. Poi Massari ha spiegato che l’obiettivo è far compiere azioni “pensando meno”, per agire con più immediatezza e fiducia. Allora abbiamo osservato che, nella storia del copywriting, la ricerca del gesto puro è stata al centro di una vicenda persino epocale.
Così abbiamo parlato del Just do it di Nike, ideato nel 1988 da Dan Wieden, che nasce proprio rivolgendo un invito ad agire senza ripensamenti. Un claim che però era suonato a suo tempo anche come un superamento culturale degli anni settanta, inteso come stagione di impegno ricca di analisi, dibattiti e approfondimenti "parlati". Soprattutto perché il suo autore, che non a caso Naomi Klein in No Logo definì un “sedicente artista capellone” tormentato “dall’assillante paura di svendersi”, era un reduce della cultura alternativa. Wieden aveva trovato le parole per un cambiamento storico: lo sport abbandonava per sempre l’olimpo dei campioni e le adunate ginniche, trasformandosi in terreno di auto-realizzazione, invadendo le strade, diventando footing, fitness, impegno del singolo, gioco e persino avventura esistenziale (con tutti i rischi del “motivazionale-aziendale”, si capisce). Dalle ceneri di una stagione utopica era nata allora una nuova idea di atletismo. E la liberazione del gesto al quale stava lavorando Massari, quella connessione per noi inedita tra corpo e mente lasciava intravedere possibilità inattese.
L’incontro con gli studenti trascorse in un’atmosfera sospesa. La sorpresa era di trovarsi davanti a una materia nuova, ancora poco scritta, che apriva il varco per un’esperienza umana là dove non sembrava concepibile, al centro di quello sport che la spettacolarizzazione martella ogni giorno con la sua enfasi, con la sua narrativa tutta esterna, solo socializzata. Ma Cristopher Lasch aveva visto giusto: per quanto gli sport rispecchino effettivamente i valori sociali, non sono assimilabili in toto a quei valori (…) i giochi appresi in gioventù instillano sentimenti di devozione al gioco in quanto tale, piuttosto che ai programmi ai quali l’ideologia vorrebbe piegarli.
Scoprimmo quel giorno che il “gioco in quanto tale” è il luogo ancora intatto dello sport. Piero Motterlini, sciatore, sempre dal libro di Massari: Quando scio non penso a niente. Sono tutto lì. Anche se non so esattamente dove. La mente si svuota. È altrove. Nessun rumore. Nessun dolore. Niente. Con le parole che sceglie, con le domande che pone, il mental coach mette l’atleta di fronte a un’unica vera responsabilità: quella nei confronti delle proprie possibilità. Da lì in poi, non esiste verdetto sportivo più importante di un onesto resoconto sul proprio impegno personale. Ciò che conta è sapere di aver fatto tutto il possibile. Simone Ruffini, nuotatore: Perché dovevo prima di tutto capire che ero nelle mie, di mani. E nei miei piedi. E nelle mie gambe e nelle mie braccia.
La mente è il territorio del coach perché è lì – nel groviglio di cultura ed esperienza – che le stratificazioni intorno allo sport si sono assommate. E starà al corpo, alle sue prestazioni, raccontare le nuove, precise, concrete consapevolezze. Quasi che nel laboratorio muto di questo approccio allo sport, mentre le sue imprese avvengono in mondovisione, si stesse segretamente elaborando qualche nuova capacità umana di capire il mondo intorno a sé e mettervi mano. Lo sport sta incubando un metodo più vasto del suo gioco, ci sta suggerendo qualcosa? Intanto il sottotitolo del libro è “come lo sport aiuta a diventare persone migliori”.