Scegli. Slogan e immagini della sinistra

17 Settembre 2022

Come già le campagne della destra, anche quella proposta dalla lista PD-Italia Democratica e Progressista ha attirato l’attenzione dei media. 

Mi pare che il motivo profondo dell’interesse verso questo e altri slogan della politica c’entri poco con il linguaggio pubblicitario e invece tanto con un diffuso – e inevaso – bisogno di chiarezza. Al termine di una legislatura sull’ottovolante, con alleanze imprevedibili e contraddette, si confida nella brevità del manifesto, in un linguaggio che esige sintesi e magari si può rivelarsi capace di costringere la politica italiana a mandare avanti una sola frase, un valore chiave, una parola precisa, qualcosa di meno sfuggente del solito. Non è studio di comunicazione quello che anima i media. Solo un momento – fugace – nel quale si spera che diventi più leggibile uno scenario morale molto confuso.

Ma allora quale nuova chiarezza deriva dalla campagna che vede protagonista Enrico Letta? Il suo enigmatico sorriso ha del leonardesco: non è facile decodificarne il senso esplicito. Qualcosa che sta tra il sardonico, con il suo sottinteso derisorio, e la complicità di uno sguardo di intesa. L’intenzione è forse esprimere una forma di rilassato controllo sulla complessità della situazione, come a dire io so dove si va a parare. Però di questa espressione raffinata e misteriosa è difficile trovare precedenti nelle campagne elettorali, perché non si tratta né di un sorriso ottimista né di una serietà grave che si mostra consapevole del proprio tempo. Questo volto bloccato in un infinitesimo punto di equilibrio – può darsi anche casuale, ma poi accettato – nell’attimo di una precisa inclinazione della testa, di una piega trattenuta della bocca, di uno sguardo orizzontale quasi in ombra, risulta un’irripetibile espressione in surplace, che ci guarda mentre attende di risolversi.

Come si concilia però questo enigma con il contenuto della campagna, che invece evoca pericoli epocali? Visto che si tratta di decidere tra Putin e l’Occidente, perché accennare un sorriso invece di impersonare l’allarme? Stiamo giocando? Osservare questa immagine procura un certo spiazzamento, un senso di inafferrabilità, ed è spontaneo cercare in quell’espressione delle tracce di paura che compensino la contraddizione visiva o persino fantasticare che il volto possa tradursi, giusto un momento dopo, in definitiva cupezza davanti a un risultato elettorale infausto. Ma il sorriso resta. L’idea è fronteggiare la catastrofe democratica con la faccia di chi non ne è sorpreso? Ostentare disinvoltura davanti a un rischio di civiltà? Il tasto pause che sospende questa campagna è nelle mani degli elettori, ai quali è rivolto un invito: scegli.

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E qui entriamo nel contenuto esplicito. La campagna è un classico side by side, che in questo caso confronta il prodotto (il PD è con l’Europa, con i diritti) a un’alternativa proposta come meno valida e accettabile (la destra è con Putin, con le discriminazioni). Il più noto tra gli esempi italiani è O così o Pomì, anche se la geniale costruzione di Pino Pilla diceva in realtà un’altra cosa: la nostra passata di pomodoro è l’equivalente del pomodoro, fresca e genuina, solo è confezionata. Due forme della stessa materia. Dove però la campagna PD può ricordare quella della passata Parmalat è nell’ineluttabilità, nell’assenza di vie d’uscita, nella definizione di un mondo in cui diciamo così esiste solo il pomodoro. 

E dunque, divisa in due l’affissione, la scelta. Ovvero, uno dei concetti più ricorrenti della nostra pubblicità recente. Di seguito alcuni claim, dei quali ometto le marche per restituire il senso dell’uniformità: “Io sono le mie scelte”, “Scegli oggi”, “Scegli tu” (2 volte), “Scegli di scegliere”, “Scegli di capire”, “La scelta è tua”, “A te la scelta”, “La scelta naturale”, “Una scelta semplice”, “Sostenibile per scelta”, “E se ogni scelta parlasse di te?”, “Scegli + nome di marca” (3 volte), “La bontà è una scelta”, “Il valore della scelta”, “La tua scelta bio”, “Possiamo scegliere”, “La vita è una questione di scelte”, “Consumi o scegli?”, “Il regalo giusto è nelle tue scelte”, “Scegli il bio”, “Scegli da che parte stare”, “Un caffè così non si prende, si sceglie”, “Weekend o settimana bianca? Scegli”, “Scegli cosa ascoltare”, “Scegli la sicurezza”, “Scegli la natura, scegli il cartone”, “La scelta è tua ma le conseguenze riguardano tutti noi” e infine – già che sei lì – “Scegli questo spazio”.

Potrebbe chiedersi il passante, com’è che improvvisamente mi si presentano tutte queste possibilità? Non sceglievo, prima? Non valutavo già cosa fosse meglio per me? Anche perché la vasta quantità di opzioni è nel bagaglio argomentativo dell’occidente da parecchio. Le quattro libertà proclamate da Roosevelt nel 1941, per esempio, che Norman Rockwell illustrò da par suo: libertà di espressione, libertà religiosa, libertà dal bisogno e infine, nell’evocazione delle Nazioni Unite contro la minaccia bellica, libertà dalla paura. Ma se allora non c’è chi possa concederci ciò che è già nostro, perché ora “la scelta” è ovunque? Nel pubblicitese nostrano è il modo – linguisticamente povero – per tentare di adeguarsi a un pubblico cambiato, non più ricettore passivo di call to action imperative che dicono fai questo fai quello. Tu sei importante, non ti sottovalutiamo più, sei tu a decidere.

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Nella campagna PD però questa lusinga compie un salto di qualità: ci attribuisce la responsabilità. La vedi quella marea nera nel manifesto? Sei tu che la vuoi. Hai deciso tu. Dovesse stravincere la destra, cioè, sarà perché il paese l’ha voluto e non noi con le nostre, di scelte. Perciò non è tanto l’estinzione delle sfumature a risultare angusta, nel messaggio della campagna – ogni disaccordo sulla guerra in Ucraina è stare “con Putin”? – ma il suo impianto strategico, la simulazione di una libertà che libertà non dà. Una campagna che ci invita a scegliere pensando che scelta non abbiamo. Nascerà da lì il sorriso di Letta?

Quel che suona buffo per una passata di pomodoro diventa un sottile supplizio a poche settimane dal voto. Le larghe alleanze non sono state propiziate. Le affissioni PD evocano una logica frontista senza che il fronte sia stato edificato e se politicamente il giudizio è libero, il messaggio di comunicazione invece risulta non sostenuto da una credibile reason why: fosse davvero un problema così grave, la marca proporrebbe un rimedio all’altezza, un detersivo con nuova formula o per essere chiari una mobilitazione vasta, aperta ai più, il che non è accaduto. Incongruo. Così l’elettorato fa il contrario di scegliere: recepisce. Prende atto. E la campagna appare più un nuovo eufemismo, in versione elettorale, del There Is No Alternative, il vero claim dei claim politici di questi anni.

Le parole nette non si trovano neanche stavolta, i simboli escono di scena, gli slogan si impoveriscono e ci fermiamo qui solo per non confonderci con l’antiparlamentarismo diffuso. Ma forse per questo altre formazioni adottano campagne poco rilevanti – M5S dice dalla parte giusta, proclama di difficile collocazione, mentre nel logo di Unione Popolare ritorna un arcobaleno già incontrato – preferendo la produzione di altre azioni social o dal vivo. Allora il video nel quale Giuseppe Conte commenta le parole di Berlusconi guardando lo smartphone è uno dei pochi pezzi inventivi della campagna elettorale, e la visita di Melenchon in Italia che a sostegno della lista guidata da De Magistris arringa la folla in piedi su una sedia è meglio di molti brutti manifesti. Certo il ricorso a forme di comunicazione più occasionali indica una fragilità, oltre che nei partiti, anche nei comunicatori, che faticano a trovare parole forti, coraggiose, innovative. Ma non è una buona notizia per nessuno la difficoltà di dire. Perché è difficoltà a concepire, ad assumere impegni, a guardare in faccia la storia. A dare un senso al sorridere.

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