La pelle dell’iPad

24 Settembre 2012

Uno dei percorsi o modi di cui dà conto Stefano Micelli in un libro di qualche anno fa, mentre raduna e riordina le tracce di un patrimonio troppo spesso taciuto, o mal compreso, nell’auspicio che venga davvero un “futuro artigiano”, è quello che segna un apparente paradosso: esisterebbe, alla radice di oggetti come l’iPad o come i portatili della solita mela – indubbi prodotti di una filiera globale – una singolare disposizione artigiana. Questo perché a monte della produzione, nella progettazione del prodotto, si lascia rinvenire con chiarezza un’artigianale passione per il materiale, una curiosa disponibilità a trattarlo spingendo la lavorazione ai limiti del fattibile, attraverso un lavorio di prove ed errori teso a sondarne virtualità e ricchezze. Proprio così insegnavano da noi i maestri vetrai e i gioiellieri, i fabbri, gli ebanisti d’arte e i non meno virtuosi costruttori degli stampi per la produzione industriale, come in principio fu Giovanni Sacchi da Sesto San Giovanni, poi noto come il modellista per eccellenza al fianco dei più affermati designer italiani.

 

Questa passione per le qualità del materiale – un alluminio da lattine, ma sabbiato, levigato, accarezzato al punto da diventare granuloso o satin e sopportare forature micrometriche e fresature fini fini – questa cura circonfonde l’oggetto anche più standardizzato e seriale di un riflesso auratico di ritorno, dove la vicinanza del tocco (touch) sostiene un piano di assolutezza trascendente, facendone un’entità paradossalmente intangibile, indefinitamente lontana dalla mano di chi lo fa e di chi lo usa.

 

 

C’è un design il cui oggetto-progetto non denuncia la propria origine fabbricata, anzi custodisce gelosamente il mistero della sua costruzione: mimetizza nell’unità perfetta della forma l’assemblaggio delle parti per dare di sé l’immagine di una produzione acheropita. La compattezza della forma riduce il tablet alla congiunzione inseparabile di guscio e specchio: il lato opaco e il suo lustro rovescio, inseparabilmente accoppiati, danno luogo a un corpo unico, santificato dalla sua chiusura e impenetrabile come il monolite dell’Odissea di Kubrick.

E difatti, questi sono oggetti che il design contemporaneo porge alla venerazione incontestabile e al desiderio infinito, e che destina al racconto cristallino delle pubblicità televisive dove tutto scorre fluido e sereno di là del vetro. Di queste cose, persino i riparatori di ifixit hanno poco da raccontare; né meraviglia che gli incantati utenti storcano il naso increduli ai reportage di “Internazionale” sui sacrifici umani che si consumano nelle inhumani corporis fabricae del lontano Oriente, dove si nasconde l’attrito ineliminabile tra lavoro umano e l’utopia del produrre. La cosa stessa tende a negarlo quel residuo attrito, in virtù della sua materia polita, lavorata, odorosa di packaging politically correct.

 

Assoluta, chiusa in sé, la forma dell’oggetto parallelepipedo e schiacciato non segue la funzione ma la anticipa, la ingloba in modo preventivo, stabilendo le regole per le funzioni a venire. Solo minime differenze di dettaglio distinguono ipod ipad e iphone coevi, veri o tarocchi: più contano le diversità di formato, cui corrispondono identici modi d’uso, perfettamente trasferibili dall’uno all’altro prodotto con piccoli adattamenti alle varianti di misura. Tablet, o tabulae ottiche, o sottilissimi frame, questi oggetti formattano il mondo con la loro rettangola assolutezza, agiscono come soglie o cornici per un flusso di immagini che circola ininterrottamente dentro e fuori di loro. Quella che era la “tavoletta” dei primi computi, l’antico supporto del pensiero che si faceva calcolo nella scrittura-lettura, ora tende a presentarsi come la “rétina” esposta – così battezza la casa madre l’idea dell’ultimissimo display – di un occhio assoluto, fittissima matrice di punti che ingoia e restituisce in alta definizione immagini riflesse dietro i riflessi del vetro.

 

 

Anche più delle remote tabulae d’argilla, questi utensili ci sono indispensabili per sopravvivere nel nostro mondo fatto d’immagini: ne abbiamo bisogno per catturarne le apparenze e sovrapporre all’incertezza del visibile gli strati di una predigerita messe di dati che in tempo reale chiarificano, informano, didascalizzano le cose secondo mappe indici coordinate del “sito”. Da turisti ci sentiremo più sicuri, avendo lasciato con disinvoltura la vecchia macchina per fotografare – troppo meccanica scatola magica, ingombrante “camera” più o meno oscura – per portarci dietro ed ergere all’occasione, contro i panorami del mondo, questi oggettini ridotti a pura inquadratura. Basta guardarci attraverso, per stabilire una presa sempre più diretta e fedele. Sempre più inavvertita.

 

La pelle del tablet ne fa una soglia sensibile, dove si saldano due spazi sempre più confusi: perciò l’oggetto è una magica porticina che si attiva a comando e che garantisce appiglio e scampo nel mondo reale-virtuale. Grazie alla magia dell’interfaccia sottile, la manipolazione di questi oggetti altrimenti chiusi e opachi riposa sull’intesa software, che si avvale della dislocazione e dell’uso di elementi fittizi, che vengon su a fior di display. Immagini riconoscibili di pagine e icone sottovetro si comportano mimando comportamenti che erano del mondo fisico e delle fisiche cose: echi di gesti da tempo acquisiti e associati alla pratica della lettura si saldano a una irrealtà nuova e gestibile – nel senso insieme del controllo e del gesto –, e così capita di sfogliare un libro senza spessore, voltare una carta che ha solo un lato, con tutta la stupefazione che viene dal gestire apparentemente diretto quegli oggetti intangibili: tessere di solitario, fogli, figure che scorrono e riprendono l’orientamento voluto, al tocco del polso, allo sfiorare dell’indice. Fattosi mobilissimo e curioso, è il dito di Tommaso che sul tablet domina il mondo e l’oggetto: mai sazio, è lui che sottolinea, verifica, guarda, acquisisce toccando. Eppure l’invito di Duchamp – “si prega di toccare” – suonerebbe qui troppo violento: perché l’ipad esige un tocco abile e cauto, educato e leggero. Lo si terrà per i bordi come le vecchie lastre di Daguerre; se ne solleciteranno le funzioni attraverso digitazioni sapienti e delicate sulla pelle sensibile, che reagirà giustamente solo dopo paziente adattamento da parte dell’utente, quando avrete abbandonate le cautele eccessive di chi lo accosta sopraffatto dal timore reverenziale, o la troppa energia del battere che è soltanto il ricordo delle macchinacce da calcolo o da scrittura.

 

 

Basta uno sfiorare leggero e specifico, che ha regole proprie, e tende al gesto immateriale: allora all’utente dell’iPad si apre la possibilità della contemplazione e dell’uso di una cosa tecnica complessa ma gentile, che non richiede altra “manutenzione” che non sia il cauto tenerla in mano. Si apre il piccolo grande rito del possesso, della venerazione quotidiana dell’oggetto incorrotto ma pur sempre corruttibile, sempre esposto all’insidia dell’irrevocabile sgraffio o frattura, nonostante le cure e le maniacali puliture. Quella è la sola contestazione che sembra opporsi all’assolutezza della forma. Si annuncia e si compie nei termini di un’alterazione anche minima della perfezione anodina – e di solito non segue la via ribelle di chi nel rompere, distruggere, scassinare la tabula cerca il piacere della profanazione deliberata. Arriva comunque, ma per accidente, per l’azione importuna e inevitabile del caso e delle cose.

 

La materia senza impurità, immacolata, chiusa al tempo che passa, tanto più chiama il logorio delle più piccole insidie quotidiane. Allora proliferano sacche, custodie tenere, pellicole preservative dell’immacolata purezza – a scacciare l’ammacco dell’urto, lo sfregarsi dell’unghia o della chiave. Sono queste seconde e terze pelli a inguainare la tabula dentro una sacca senza tempo, a proteggerla come immagine sacra dall’aggressione del mondo esterno e dal trascorrere profano dell’ora. Loro, gli oggetti, lasciano fare, prigionieri del mito di una giovinezza eterna, che è lo stesso che prende noi chini a rispecchiarci sui loro lustri display. Come noi, questi oggetti sono incapaci di invecchiare, e di farlo bene. Sono cose immature, senza maturità, cose così dall’inizio alla fine, sospese all’attesa del momento in cui una generazione a seguire ne decreterà l’obsolescenza sul piano del desiderio – come di amori volubili, da sostituire a comando – e ce ne sbarazzerà traducendoli out, dalla parte dell’escluso o del rifiuto, mentre ancora restano aggrappati alla loro quasi incorrotta lucentezza.

 

Non è solo l’iPad: sono tanti gli oggetti che progettiamo e produciamo sedotti dall’ideale di una materia purificata, resa perfetta dal lavoro pulito e asettico, per corrispondere ai desideri e alle funzioni disincarnate di un’utenza che si vorrebbe consapevole di sé, sicura del proprio patrimonio di competenze e di denari, tutta rappresa nel suo dito-occhio mobilissimo e inquieto, che si eleva e vibra al modo delle antenne di garbati non terrestri pigmentati di verde.

Ciò che osta, che turba ancora il bel sogno di eterno è il residuo corporeo, l’ineliminabile impaccio della carne. Almeno finché il calore di quel dito servirà a trasmettere al gallio dello schermo il pensiero del fruitore. Fino a che non si trovi il modo di passare la soglia del display senza depositarvi i sughi del corpo, la pelle dell’iPod denuncerà inequivoche impronte di dita che non avresti creduto così burrose, il vetro dell’iPhone porterà l’impronta dell’orecchio alla fine della chiamata, segno repellente, a renderne oscenamente esclusivo l’uso. Intanto la si pulirà invano quella superficie tirata a specchio. Narciso sì, l’ha già trapassata, separandosi dal vecchio corpo salvato in immagine. Oltre, è solo il riflesso dei suoi desideri. Qui, da questo lato che è il mondo, un’indistinta massa di vecchie cellule vive o morte.

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