Un'intervista inedita / Scalia. Cultura come conversazione ininterrotta

19 Novembre 2016

Amava definirsi, con uno dei suoi mille jeu de mots, un “logofilo” piuttosto che un filologo o un filosofo, perché pensare e dire erano per lui, e da sempre, una cosa sola. Gianni Scalia, mancato a Bologna lo scorso 6 novembre all’età di 88 anni, era un ingegno socratico, generoso fino alla prodigalità, l’ideale compagno di via di coloro che aveva eletto, e una volta per tutte, suoi fraterni interlocutori. Precoce studioso della tradizione illuminista, di De Sanctis e Gramsci, socialista di sinistra il cui marxismo era venato di mille inquietudini, nella rivista “Officina”, già a metà degli anni ’50, aveva avviato il sodalizio con il poeta Roberto Roversi e con Pier Paolo Pasolini cui avrebbe dedicato prima un libro di straordinaria compattezza, La manìa della verità (1978), e poi una costante amorevole attenzione. I due decenni dell’antagonismo, fra i ’60 e i 70, sono quelli in cui si precisa lo stile (denso, irto, mai placato) di Scalia e l' originalità di uno sguardo, che per il tramite della letteratura, interroga lo stato di cose presenti o i destini generali, come li chiamava Franco Fortini, suo sodale/antagonista elettivo: innumerevoli le sue collaborazioni a quotidiani e periodici, rare ma memorabili le raccolte nei volumi a stampa, da Critica, letteratura, ideologia (1968), a De Anarchia (1978) e Signor Capitale e Signora Letteratura (1980). Gli anni ’80, alla maniera di una svolta, si inaugurano con la fondazione della rivista “In forma di parole” che avrebbe diretto fino al 2014, nel segno dell' attenzione alla poesia e della corrispettiva disamina dell' età della tecnica, teste Martin Heidegger ma anche Edmond Jabès (come ha ricordato Antonio Prete nel suo denso necrologio uscito su “il manifesto” dello scorso 8 novembre). 

 

Proprio i decenni di militanza letteraria e politica e poi di riflessione sul pensiero/poesia davano alla conversazione di Scalia una ricchezza particolare, si potrebbe dire la irrorassero di apologhi, di pagine esemplari, di ritratti stenografati a memoria e, ancora una volta, di invenzioni socratiche: infatti Scalia citava volentieri la lettera di Platone dove si dice di “agrapha dogmata”, le verità non scritte che, se scritte, non sarebbero più tali. Con i suoi interlocutori, anche i più occasionali, si mostrava disponibile ma sospettava tuttavia i massimi sistemi e se ad esempio gli si chiedeva degli intellettuali, e cioè di chi sono e di che cosa fanno in questa società, lui alzava gli occhi con un lampo di ironia per rivolgerli al quadro appeso nel suo studio di via Castiglione, a Bologna, una riproduzione del celeberrimo Chisciotte di Pablo Picasso, pochi tratti di pennarello che sembrano accecare, in controluce, il personaggio primordiale della modernità. Muove giusto dal Chisciotte l’intervista che segue, finora inedita, rilasciata nella primavera del 2010 in occasione dell’uscita di un suo libretto di conversazioni, Accademico di nessuna accademia (Marietti), a cura di Valentino Fossati e Guido Monti.

 

 

Ph Ferdinando Scianna. 

                           

  ***

 

 

Don Chisciotte è un intellettuale?

 

Dostoevskij diceva che Don Chisciotte ci ricorda continuamente la tragedia della vita. È la figura antropologica dell’umanità, siamo tutti dei potenziali Don Chisciotte, solo che quelli di oggi non sono eroici ma fallimentari. Don Chisciotte non fallisce, perché muore quando muore insieme a lui quello che ha impersonato. 

 

Ma ne esistono ancora, di intellettuali, in senso proprio?

 

Gli intellettuali sono le persone intelligenti. Cosa vuol dire intelligenti? Vuol dire capaci di intus legere, “leggere dentro”, una cosa che però si fa segretamente, nel segreto della propria coscienza. Invece gli intellettuali oggi sono impersonati, se così posso dire, nel giornalismo e nella televisione, in ciò che si potrebbe chiamare, ma non si dovrebbe chiamare, “cultura mediatica”. I cosiddetti intellettuali ora sono lì. Per noi, gli intellettuali passavano attraverso la filiazione linguistica dell’Illuminismo fino a Gramsci, che ha scritto cose straordinarie ma li ha visti come una funzione sociale e, in definitiva, politica, proprio come intellettuali-politici all’interno di un Partito: così si perde la radice della parola che, infatti, è totalmente sfigurata. Non è possibile nemmeno discriminare tra ruolo e funzione degli intellettuali, come faceva Franco Fortini, perché nella società contemporanea ruolo e funzione sono indistinguibili, perché chi ha un ruolo ha una funzione e viceversa, il che vuol dire che a ciò che si fa è sempre attribuito un potere. Ma può esistere un “potere” dell’intelligenza? Un vecchio illuminista potrebbe parlare di un potere della Ragione, ma si dovrebbe sempre distinguere fra ragione e intelligenza: la ragione è un concetto astratto, l’intellettuale è una persona che mette in questione la propria soggettività. Così la penso io, che non faccio mai le cose da solo, compresi i libri che scrivo, perché l’intelligenza di cui stiamo parlando non è un dato a priori ma si dà attraverso la conversazione, anzi la cultura è conversazione, una conversazione ininterrotta. La televisione, la cibernetica in generale, l’hanno semplicemente abolita, sostituita.

 

Ma è possibile cambiare il mondo, come vuole un’antica aspirazione degli intellettuali?

 

No, non è possibile. Che cosa vuol dire cambiare il mondo? È una domanda senza senso, è un errore filosofico, una concezione totalmente ideologica, perché il mondo è per definizione ciò che è. Il mondo è essere, altra cosa è la volontà umana, cioè un ente come sono gli uomini o gli animali. Il mondo non è pensare l’essere perché l’essere, dice il mio ultimo maestro, Martin Heidegger, si mostra e si nasconde. Gli uomini non potranno mai dire che cos’è l’essere, mentre tutte le ideologie, che poi diventano delle pratiche o delle politiche, presumono di sapere che cos’è il mondo e persino di poterlo cambiare. Ma sarebbe come presumere di poter cambiare l’essere…

 

Nel percorso che l’ha condotta a questa considerazione ci sono delle letture decisive? 

 

Ho letto molti libri e continuo a leggerne anche se certe volte ho la sottile consapevolezza che non dovrei farlo perché tanti libri sono inessenziali, sono cioè dei semplici prodotti dell’industria culturale. Ma gli antichi dicevano tolle et lege, “apri e leggi”, quindi qualsiasi libro aperto può insegnare qualcosa. A questa domanda mi è comunque difficile rispondere perché dei libri che ho letto tendo a ricordare, non so se riesco a dirlo chiaramente, quelli che mi hanno fatto leggere altri libri. Non dico i libri “buoni”, che non so cosa siano, ma i “grandi” libri sono appunto quelli che ti fanno pensare ad altre cose rispetto a quelle che stai leggendo: perciò i grandi libri sono libri enigmatici, e penso alla Divina Commedia, a Shakespeare, ovviamente al Don Chisciotte. Da ragazzo non me ne rendevo ancora conto, ma già mi succedeva qualcosa del genere. Negli anni della guerra sono sfollato in Trentino, dalle parti di Cles, tutto il tempo era mio, leggevo i capolavori del romanzo francese (Flaubert, Stendhal soprattutto, Il Rosso e il Nero e La Certosa di Parma) ma anche gli italiani del primo Novecento, specialmente i poeti e i prosatori della “Voce”, una rivista di cui avrei curato, a decenni di distanza, un' antologia per Einaudi. E poi, naturalmente, leggevo i classici latini e greci per preparare la maturità da privatista al liceo “Tito Livio” di Padova: infatti mi è rimasta la passione per le Lettere di Platone, che ogni tanto mi accade di rileggere e meditare. Ma per spiegarmi cito un episodio di Montaigne, che aveva un grande amico, Etienne de la Boétie, uno spirito anarchico che aveva scritto un libro poi tradotto in italiano con Discorso sulla servitù volontaria ma in realtà intitolato Contre l’Un, “Contro l’Uno”, un titolo stupendo che poteva significare il potere, la fama, la ricchezza, il re, l’imperatore: a chi lo accusava di questa amicizia pericolosa, Montaigne rispondeva "Sì, amo molto Etienne de La Boétie, perché lui è lui e perché io sono io". L’amicizia, l’amore, non sono dunque l’unificazione ma il riconoscimento dell' alterità: questo credo abbia molto a che fare con la cultura come conversazione e con il paradosso dei grandi libri che fanno leggere altri libri. 

 

Nei tempi più recenti, la sua attenzione è attirata soprattutto dalla poesia, anzi da un pensare tramite la poesia dove si incontrano Martin Heidegger e un suo amico di sempre, Pier Paolo Pasolini…

 

L’amicizia, la simpatia umana di Pasolini, derivava dalla sua umiltà. Ricordo che una volta era venuto a Bologna per una riunione redazionale di “Officina” e per tutta la notte, mentre passeggiavamo sotto i portici, mi ha parlato di sé, della sua disperazione. Ma la sua non era una disperazione biografica o sessuale, la sua era proprio una disperazione ontologica, questo è il punto. Mi diceva di non “capire” Heidegger, tuttavia la sua era una disperazione dell’essere e non della vita di ogni giorno. La disperazione dell’essere è quella dell’essere nati, del continuare a vivere e portare il peso della nascita. La forza intellettuale, la forza dell’intelligenza di Pasolini, è questa disperazione di essere nato. È una disperazione che non ti fa suicidare ma, paradossalmente, ti fa vivere. O ti fa pensare le cose che lui ha pensato, e che ha scritto.

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