Le mani di Zoff e il tricolore
C’è un’immagine che traduce in emblema la vittoria italiana ai Mondiali di Spagna, nel luglio del 1982, ed è quella che ritrae su un francobollo le mani del capitano della nazionale, il portiere Dino Zoff, mentre innalzano, tutta d’oro scintillante, la Coppa del Mondo. Il modello è la fotografia che all’indomani di quell’11 luglio apre fatalmente i quotidiani: la firma è di un pittore grande e discusso, senatore comunista nientemeno, Renato Guttuso, il quale si compiace di ignorare il tricolore e lascia viceversa trapelare solamente l’azzurro e il giallo oro. Eppure, per la prima volta, il tricolore sta occupando e persino travestendo le piazze italiane in delirio: la bandiera che pendeva afflosciata dagli uffici pubblici, appannaggio semmai dei neofascisti e della cosiddetta maggioranza silenziosa (gli ultimi sbandieramenti erano stati nel ’54 per Trieste italiana) diviene di senso comune e si presenta addirittura in forma di tatuaggio, come per quei giovani tifosi, nello Stadio “Sarrià” di Barcellona, ripresi mentre esultano, dopo la tripletta di Paolo Rossi al Brasile, seminudi e pitturati di bianco/rosso/verde.
Gli anni ottanta, con l’immediata rimozione dei settanta (presto diffamati e ritratti in grigio piombo) cominciano col tricolore e nel segno di una appartenenza tribale, il tifo calcistico, che impone di stringersi a coorte. L’atmosfera è cambiata, al conflitto di classe che divide (tra noi e loro, chi sta sotto e chi sopra, operai e padroni) subentra il simbolo che unisce nei termini della fusione identitaria: già quattro anni dopo, raccogliendo le bellissime cronache di Spagna ’82 (ah! Il Mundial, 1986), il socialista Mario Soldati sceglie per la copertina un ritratto a matita sul cui sfondo garrisce la bandiera: persino ovvio rammentare che tale simbolo di ritrovata concordia ordinum è antipode al rosso cosmopolita di chi a scuola cantava solo pochi mesi prima “Nostra Patria è il mondo intero ecc.”.
La cosiddetta italianità è entrata dunque nel senso comune quale genio etnico di un made in Italy che, fra espansione del debito pubblico e ricorrenti svalutazioni della lira, si arrampica in alto insieme con la Borsa per istallarsi fra le economie dell’opulenza: Craxi taglia la “scala mobile” e un referendum gli dà ragione, l’unità sindacale si incrina, le sinistre paventano lo schianto del Muro di Berlino e intanto preparano la propria mutazione che, retrospettivamente, assume i tratti di una eutanasia. La tv, ancora pubblica ma presto commerciale e ubiquitaria, è la levatrice del neonato o rinato patriottismo: dieci anni ancora e l’incipit più disastroso della storia recente sarà appunto “L’Italia è il Paese che amo” nel momento in cui “Forza Italia”, vero e proprio appello ai cittadini-tifosi, diviene movimento politico maggioritario. In tv, Spagna ’82 ha avuto modo di proporsi nei termini di un’epopea, cioè di una caduta infine redenta dal trionfo. (Un altro scrittore, Vittorio Sermonti, l’ha raccontata l’anno dopo in Dov’è la vittoria? come un caso, preso in vitro, di gattopardismo o di opportunismo all’italiana).
La sequenza dei fatti è risaputa: qualificazione stentata e tre pareggi nel girone eliminatorio con squadre non irresistibili (Polonia, Perù e Camerun, peraltro sospettato, quest’ultimo, di aver voluto accomodare il risultato); interrogazioni in Parlamento dall’intero arco costituzionale circa il gioco abulico e noioso degli azzurri guidati da un vecchio galantuomo, Enzo Bearzot, ma giudicato indegno di allenare cotanti campioni; pesanti illazioni dei giornali sullo stato di forma e la vita intima di taluni calciatori con successivo, sdegnato, silenzio-stampa da parte dei medesimi. Poi, come dal bilico più periglioso, un autentico slancio: di seguito sono travolte a Barcellona squadre ritenute imbattibili (l’Argentina e, soprattutto, il Brasile), viene disfatta ancora la Polonia così come, nella finale di Madrid, è battuta la Germania Ovest con un solenne 3 a 1 (gol di Rossi, Tardelli e Altobelli) quasi si trattasse di infierire sull’estremo spettro del nostro dopoguerra
Paolo Rossi l’eponimo, eppure reduce da una condanna per alcune partite truccate, è il capocannoniere di un torneo che, insieme con le mani a tenaglia di Zoff, reca in frontespizio l’urlo disumano di Marco Tardelli, un Ur-Schrei scagliato dai precordi etnici, dopo il gol segnato nella finalissima. La parabola è suggellata da una doppia clausola di riconciliazione: l’esultanza del Presidente della Repubblica, il socialista ed ex partigiano Sandro Pertini, che straccia il protocollo mettendo sottosopra la tribuna d’onore dello Stadio Santiago Bernabeu; l’italianissima partita a scopa, sull’aereo del ritorno trionfale a Fiumicino, che oppone Pertini e Zoff a Causio e Bearzot, i veterani della comitiva. Il giorno dopo un giornale sportivo titola a tutta pagina Eroi! Dalla fine del regime fascista nessuno aveva osato tanto, vale a dire arrischiato un termine infetto di retorica bellicista e propriamente littoria. È la parola, invece, che la neo-Italia tricolore utilizza da vent’anni a man bassa avendo avvalorato la propria vocazione interclassista e patriottica con avventure militari (Serbia, Iraq, Afghanistan) che se da un lato fanno abuso del vocabolario con espressioni di raffinata reticenza (“esportazione della democrazia”, “intervento umanitario”, “operazioni di polizia internazionale”) dall’altro cancellano, con impudenza temeraria, l’art. 11 della Costituzione, lo stesso che dovrebbe vietare la guerra tout court. Fatto sta che il 150enario dell’Unità si è appena festeggiato (a parte gli ululati ferini della Lega Nord) nel segno della metafisica sportiva originatasi, a furor di popolo, proprio nel luglio del 1982. Simile concordia è la stessa che ha affidato il Paese a un uomo solo al comando (il più ricco, il più potente e impunito, il più osceno per etimologia) mentre garantiva un credito di massa alle politiche monetariste e neoliberiste di cui oggi constatiamo la spettacolare perfezione nell’avvenuta eclissi dello stato sociale.
Sembrerà impossibile ma patriottismo e Pensiero Unico sono facce di una sola medaglia, anzi stanno insieme come opposte e complementari, entrambe necessarie ad un progetto i cui effetti sono, appunto, rovinosi. Nel prossimo luglio ricorre il trentennale di Spagna ’82: data la dura contingenza e l’ipocrisia istituzionale, c’è da immaginare che il festeggiamento stavolta sarà sobrio e il tifo quaresimale. Festeggiare l’inizio di che cosa, poi? Nessuno saprebbe trovare una parola innocente o solo vagamente eufemistica. Nessuno (come invece usava fino a poco tempo fa, per cattiva coscienza e in odio al decennio precedente), sul serio più nessuno oserebbe definirli i migliori anni della nostra vita. Allora meglio ricordare le mani contadine di Zoff ed i colori ingenui, inoffensivi, di quel francobollo firmato Guttuso.