Conversazione con Claudio Longhi / Teatro partecipato, attore, regia, scrittura

2 Febbraio 2017

Dal 2012 Emilia Romagna Teatro Fondazione produce a Modena progetti teatrali speciali definiti di “teatro partecipato”. Tali progetti si caratterizzano per l’impegno a tempo pieno di un nucleo stabile di attori professionisti in una serie di appuntamenti che nel corso di molti mesi, spaziando da cene-spettacolo a laboratori nelle scuole, da reading di grandi romanzi a partite di calcio, attraversano spazi culturali, ricreativi e commerciali della città, e coinvolgono la più varia umanità in una riflessione su uno specifico tema socio-politico di volta in volta posto al centro del lavoro. Spingendo sul pedale ludico da un lato e su un rigore intellettuale impregnato di materialismo storico dall’altro, coadiuvati dal dispiegamento di una sofisticata rete di partnership e una raffinata strategia di comunicazione, tali operazioni mirano esplicitamente a convocare i cittadini intorno al teatro, perché tutti vi riconoscano nuovamente lo spazio in cui la comunità si riunisce per interrogarsi sul presente. I materiali, le riflessioni, gli studi accumulati precipitano infine in uno spettacolo in scena in teatro nella stagione ufficiale, con una affluenza entusiastica di pubblico che testimonia il fermento che le diverse attività riescono a innescare sul territorio modenese ed emiliano-romagnolo (senza dimenticare appendici e capitoli più o meno riusciti tra il Teatro di Roma e il Teatro Nazionale della Toscana).

 

 

A ideare e dirigere tali operazioni, che disegnano di fatto un preciso profilo ideale del teatro pubblico secondo ERT, è Claudio Longhi: regista, intellettuale e titolare della cattedra di regia all’Università di Bologna. Ora, si dà il caso che quello che fino a qualche mese fa era solo un fortunato tandem tra ERT e Longhi si sia evoluto in una sovrapposizione di fatto, con la recente (e vien da dire storica) successione di quest’ultimo a Pietro Valenti nella direzione di quello che è stato appena riconosciuto dal Mibact come secondo teatro nazionale italiano. Sereno sostenitore delle categorie di “pensiero debole” e “regia debole”, il neodirettore considera la funzione registica con flessuosità, quasi come uno strumento liquido da modulare di volta in volta in relazione all’obiettivo dell’operazione culturale pubblica perseguita. Al di là della specificità dei singoli progetti, con i quali la sua relazione dovrà oggi essere necessariamente ridefinita, come spiega nel corso dell’intervista, è interessante approfondire le dinamiche fonde di questo teatro partecipato, anche perché in esse, più che in qualsiasi manifesto, si possono mettere a fuoco i caratteri di una vocazione che da ora Longhi, come direttore di un teatro pubblico, avrà – potenzialmente – tutti gli strumenti per esprimere al massimo.

 

In questa conversazione risponde quindi ad alcune domande a proposito del nuovo progetto Un bel dì saremo. L’azienda è di tutti e serve a tutti. Dopo Il Ratto d’Europa e Carissimi Padri (qui la nostra recensione), che hanno affrontato rispettivamente i temi della nascita del concetto di Europa e degli anni di euforia prebellica della Belle Époque – il gruppo ha avviato proprio la scorsa settimana una nuova indagine sulla storia del novecento. Una terza quête che, partendo dalle vicende dell’area industriale di viale Sigonio, storica sede dell’AEM, poi divenuta AMCM, ex centrale elettrica modenese, interrogherà la città nei prossimi due anni, ponendo questioni sulla elettrificazione, sul concetto di investimento pubblico e di modernizzazione, e sulla nostra fiducia nel progresso.

 

 

Riprendiamo un discorso cominciato lo scorso anno con una intervista pubblicata su queste pagine. Dopo quattro anni, pur senza cadere in un pericoloso utilitarismo culturale, si può forse cominciare a chiedersi quali effetti abbiano prodotto i vostri progetti di teatro partecipato. Quale raccolto avete verificato fin qui?

 

In questi ultimi mesi mi ha colpito molto vedere come progressivamente si stia creando un sistema comunitario fatto di tante cellule che provengono da luoghi diversi e che vanno a costituire un unico organismo. Trovare cioè dei fiorentini e dei romani che vengono a Modena per partecipare alle attività modenesi o viceversa dei modenesi che vanno a Firenze o a Roma: segno che i progetti sono radicati sì dentro delle città specifiche, ma anche in un luogo-comunità che si muove tra una città e l’altra. Mi viene in mente una espressione che utilizza Benjamin quando, parlando dell’esperienza, la definisce “cenere lieve del vissuto”. Ecco, credo che il più concreto raccolto dei nostri progetti sia descrivibile nei termini della cenere lieve del vissuto della comunità transgeografica che si è costituita.

 

Alcuni spettatori hanno quindi preso a seguire gli attori in giro per l’Italia, come si fa con una squadra di calcio o una band musicale.

 

Uno dei problemi da cui era partita la mia riflessione alcuni anni fa, insieme agli attori che avevano sposato questa avventura, era constatare come – eccezion fatta per gli attori che godono di una popolarità televisiva o cinematografica, o per alcune figure carismatiche – l’attore teatrale manca dal nostro immaginario collettivo. Perciò fa già parte di un risultato importante il fatto che gli attori abbiano conquistato una loro riconoscibilità, un loro radicamento nel territorio e un rapporto stretto con un pubblico non composto da addetti ai lavori. Un’altra cosa che ho avuto modo di verificare è che in questo fare comunità l’energia aggregante proviene sicuramente dal fascino dell’attore, ma anche dalle riflessioni sui temi proposti. Questi progetti sono un modo per interpretare l’enorme bisogno di socievolezza che abbiamo oggi, però non c’è solo l’elemento del diirsi e dello stare insieme: esiste anche una dimensione di riflessione che va proprio a sostanziare quella necessità di socievolezza.

 

Lei è anche direttore della Scuola di teatro Iolanda Gazzerro di ERT. Quella della figura dell’attore è una questione che le pertiene necessariamente. Quali qualità caratterizzano gli attori dei suoi progetti, e che tipo di percorso di formazione attoriale è auspicabile oggi?


Gli attori del nostro gruppo di lavoro non hanno sostenuto un provino di selezione che richiedeva determinate attitudini e una consapevole scelta. Non c’è stato nessun processo decisionale o percorso mirato, quanto invece una lunga fase di incubazione, che per me risale ad anni ben più remoti di quelli in cui sono nati i progetti partecipati, cioè al 2002, al momento del mio incontro con Lino Guanciale. Non è un caso che il gruppo attuale sia quel che resta di una nebulosa di persone che hanno gravitato intorno al mio lavoro di allora. Proprio parallelamente al lento e in parte inconsapevole formarsi di questo gruppo, che man mano sviluppava capacità e prendeva coscienza di ciò che stava facendo, è nata una riflessione su cosa vuol dire essere attori. Io credo che fare questo mestiere oggi richieda una serie di competenze che eccedono quelle squisitamente tecniche di una certa attorialità pura che comporta il saper usare il corpo, la voce, il diaframma, saper gestire le attitudini comunicative. Queste sono componenti imprescindibili dell’alfabeto di un attore ma non ne esauriscono assolutamente il sapere. Penso faccia fisiologicamente parte di una buona formazione una enorme curiosità socio-culturale in senso lato che si riflette in una grande attenzione su quello che sta succedendo nel mondo. Se c’è stato un tempo, che corrisponde a una certa formulazione classica del nostro teatro di regia, in cui l’attore si poteva esimere da responsabilità che erano stare delegate al regista – con l’eccezione della genìa degli attori-autori o attori-artisti, come li definirebbe Meldolesi – di fatto sempre più oggi si sta ritornando al modello dell’attore creatore, attore artista, dell’attore intellettuale o dell’attore – come avrebbe detto Castri – operatore culturale.

 

 

Questa concezione che progressivamente ha preso corpo, per un verso tiene di componenti tecniche, per l’altro qdi componenti culturali e intellettuali, per un altro ancora si rifà a una modalità e idea di teatro che se dovessi nominare o evocare mi porterebbe a ricorrere alla categoria di “teatro ruvido” di Peter Brook: un teatro che è totalmente immerso nella realtà, che è calato dentro la distrazione di ciò che ti accade intorno e che trova la sua concentrazione nella modalità di reagire a quella distrazione. Quando lessi le pagine di Brook per me furono una rivelazione. Tra l’altro fecero nella mia testa uno strano cortocircuito con una recensione di Edoardo Fadini di uno spettacolo di Marisa Fabbri dell’epoca del Gruppo Lavoro di Teatro, una formazione cui la Fabbri si dedicò negli anni settanta, proprio mentre stava facendo le grandi interpretazioni tragiche dell’Orestea di Ronconi, delle Baccanti di Prato, dell’Elettra di Trionfo. Quella formazione operava stabilmente all’interno delle Feste dell’Unità, e nella recensione pubblicata su «Rinascita» Fadini parlava del sapere tecnico di attori costretti a recitare tra gli echi della rosticceria mentre i bambini strillavano e i microfoni annunciavano comizi nei tendoni accanto. Le pagine di Brook reagivano dentro di me con quelle descrizioni e con una riflessione di Marthaler, il quale dice che nel momento in cui deve raccontare una città non riesce a chiudersi dentro un teatro, ma ha bisogno di camminare attraverso la città stessa. Penso sia parte costitutiva del bagaglio di un certo modo di essere attori oggi proprio la capacità di trovare una concentrazione, che non è la concentrazione monastica del chiudersi in uno spazio sacro di ricerca su se stesso, ma il saper attraversare il caos della città senza disperdersi.

 

Tale concezione si scontra con una certa idea claustrale dell’attore-artista che coltiva il bagliore dell’ombra contro la festosità trasparente della vita pubblica.

 

Per me il progressivo approdo a questa modalità è stato un vero shock culturale perché il mondo teatrale da cui arrivo è molto più vicino a quella concezione che evochi. L’idea ronconiana di percorso di prove era assolutamente monastico-claustrale. Non è un caso che se io penso al teatro di Luca, prima ancora di Santacristina, mi viene in mente l’eremitaggio umbro delle prove di Karamazov. Per me il Pasticciaccio è il roseto della casa isolata di Ronconi.

 

Perché comunque il rischio di trasformare i cosiddetti progetti “artistici” in rumore incombe su noi tutti…

 

Questa è una delle ossessioni costanti che ci muove tutte le volte che lavoriamo a ogni singolo appuntamento: come facciamo a non diventare il villaggio Valtur, a non trasformarci in animatori? Prima parlavo dell’attraversare la città stando attenti a non disperdersi, citando una formulazione di Marthaler. Marthaler è un regista che produce un livello di nitore tecnico al limite dell’esperienza mistica, soprattutto se pensiamo a certi esiti cantati. È capace di un gioco di contaminazione tra il popolare e l’aristocratico più sofisticato di una intelligenza e una lucidità pazzesca. Ma non si tratta solo di pulizia tecnica. Nel corso di una intervista di qualche anno fa ragionavo con Lorenzo Donati del problema dell’orizzontalità e della verticalità. Era una riflessione che nasceva in margine a un pensiero di Savinio, secondo il quale il teatro, per essere tale, deve essere verticale, mentre i nostri tempi sono inteatrali, perché c’è una orizzontalità diffusa che sottrae il teatro al suo specifico. Credo siano verissime queste cose, infatti il crinale su cui stiamo lavorando è appunto la ricerca di un equilibrio tra le due dimensioni. Da questo punto di vista mi rendo conto che già il passaggio dal Ratto d’Europa a Carissimi Padri ha portato a uno scarto. Dentro il Ratto c’era un tasso di orizzontalità molto più marcato, nel secondo progetto il tentativo di riverticalizzare i rapporti era già molto più forte. La sfida continua quindi è l’equilibrio tra attraversamento e concentrazione, l’apertura verso l’esterno e la non dilapidazione, l’attenzione verso l’altro e la concentrazione per l’affinamento del pensiero.

 

 

 

È appena cominciato Un bel dì saremo, inaugurato la scorsa settimana con una lettura, un atelier collettivo, una cena spettacolo e uno spettacolo itinerante su filobus. Il progetto questa volta si svilupperà su una durata di oltre due anni e accompagnerà la riqualificazione dell’area industriale dell’ex centrale elettrica. Come mai?

 

Questo progetto è nato sotto un preciso impulso di Pietro Valenti che ci ha invitato a ragionare sull’ex AMCM, esattamente come era accaduto per Carissimi Padri, sebbene dalla sua suggestione di lavorare sulla Grande Guerra avessimo poi prodotto uno scarto ragionando sulla Belle Époque.
La scelta era quasi inevitabile, perché progetti che nascono da una interrogazione sulla posizione del teatro all’interno di una città portano fisiologicamente a riflettere sulla città stessa. Un bel dì saremo ambisce infatti a individuare un luogo preciso, recuperare la memoria che a esso è legata e partire da quella per impostare una riflessione su come la città sia cambiata nel corso del novecento, usando Modena come cartina tornasole dei fenomeni molto più complessi che sono inscritti dentro quelle trasformazioni. Il luogo che viene recuperato e riorientato è l’antica centrale elettrica, che non nasce per l’illuminazione della città, ma per l’elettrificazione dei trasporti: questo vuol dire che quella centrale ci parla anche di modernizzazione. Il tema quindi è quello della industrializzazione e di come essa si interseca con la modernizzazione, perché è vero che a un certo punto queste due parole sono diventate quasi sinonimi, ma di fatto strutturalmente non lo sono. E poi quello è il luogo in cui viene prodotta energia elettrica, che è un servizio pubblico, e che cosa significa servizio pubblico? Come ha portato a cambiare l’idea di Stato, e più in generale di ente pubblico, il modello del welfare che è nato proprio a cavallo di quegli anni? Che cosa significa in termini di elaborazione del concetto di “bene comune”? Perché quella centrale è poi diventata lo spazio legato non solo all’elettrificazione ma ai beni comuni della città, è diventata la sede di HERA, lo spazio delle società partecipate. Che cosa ha significato l’investimento di denaro pubblico all’interno dei processi di industrializzazione? Come è cambiata l’idea di città attraverso questi fenomeni? Che parte ha avuto il modello modenese e emiliano-romagnolo nella messa a punto di processi di questo genere, a livello italiano? Insomma, Un bel dì saremo è il progetto più segnato dal punto di vista dell’appartenenza geografica, ma al tempo stesso vuole essere una occasione per aprire una riflessione decisamente più ampia.

 

Un bel dì saremo: il titolo suggerisce anche accenno alla tensione utopica progressista. Il tema dell’Utopia, tra l’altro, è stato sviscerato in ogni modo, quest’anno, per via delle celebrazioni dei cinquecento anni dalla pubblicazione del libro di Thomas More.

 

Certo, perché la modernizzazione ha strettamente a che fare con il generarsi di un orizzonte utopico. Al tempo stesso c’è un gioco ironico. Un bel dì saremo fa il verso al pucciniano Un bel dì vedremo, che tira fuori anche – con tutta la passione sfrenata che nutro per Puccini – quella paccottiglia melodrammatica che c’è dentro l’immaginario quasi para cinematografico del compositore. È come se noi, per via di quella polvere che vi si è già poggiata sopra, guardassimo l’utopia con una sorta di straniante senno di poi che parla indiscutibilmente della foga utopica del nostro presente. Un presente che ha un grande slancio ma si nutre al tempo stesso del novecentesco fallimento dell’utopia di cui noi siamo figli.

 

Quali libri avete letto o state leggendo?
 

Questa volta stiamo frequentando testi storici o tecnico-economici, come La città elettrica. Esperienze di elettrificazione urbana in Italia e in Europa fra Ottocento e Novecento di Giuntini e Paoloni (Laterza 2004), e letture particolarmente istruttive sulla realtà specifica del sistema economico modenese, per esempio Credito e cooperazione: la singolare storia della Banca Popolare dell’Emilia Romagna di Conte, Piluso e Toniolo (Il Mulino 2009).

 

 

 

Come si ridefinisce la sua funzione registica nei confronti di questo progetto e di quelli che verranno adesso che è anche direttore di ERT?

 

Al di là del vincolo ministeriale che non mi consentirebbe di firmare la regia degli appuntamenti in programma, la diversa posizione che mi trovo a occupare oggi mi porta necessariamente a prendere le distanze dal lavoro del gruppo, non emotivamente o intellettualmente, ma concretamente: posso dedicare molto meno tempo e attenzione al progetto di quanto non ne abbia dedicato in passato. Questo meno tempo si è traslato in un diverso modo di abitarlo e di stabilire la relazione con gli attori, che è sempre più fatta di stimoli consegnati per consentire loro di sviluppare un percorso registico autonomo. La regia di tutti gli appuntamenti del percorso è infatti affidata al gruppo di lavoro.

Fino allo scorso anno c’era una funzione maieutica, adesso mi sento un po’ l’amico che ti dà un consiglio e che ti fa notare che alcune cose che stai guardando possono essere osservate anche da altri punti di vista. D’altronde questa evoluzione è quasi fisiologica. All’origine delle mie riflessioni c’è stata infatti proprio la percezione di un indebolimento della funzione registica. E quando parlo di indebolimento ne parlo nel modo in cui intendono la categoria di “debole” Vattimo e Rovatti: un approccio più flessibile, più pronto ad abitare le circostanze, più flessuoso.

 

Ma questo approccio si può ancora chiamare regia?

 

È un problema che ho provato ad attraversare teoricamente: ho appena finito di curare un volume di Culture Teatrali che si intitola “La regia in Italia oggi. Per Luca Ronconi”. Una delle questioni che pongo è appunto il destino di quella strana parola da cui hanno origine tanti equivoci. Sono d’accordo con Mirella Schino quando dice che “regia” è una parola nata come rivoluzionaria ma diventata reazionaria quasi immediatamente, perché incistata in quel mondo fascista che, in fondo, è generatore del nostro teatro del secondo dopoguerra. Per cui essa è al tempo stesso vessillo di una generazione di giovani, da Squarzina a Pandolfi, che caricano la parola di un’enfasi rivoluzionaria, e sinonimo di strumento di regime, di assuefazione e livellamento. E poi c’è un’altra questione enorme. Quando parlano rispettivamente di mise en scène e di stage direction, i francesi e gli inglesi di fatto parlano unicamente di “messa in scena”, in italiano invece c’è una bella differenza: possiamo tranquillamente dire “le messe in scena della Duse…” e non avvertire imbarazzo, ma se diciamo “le regie della Duse” fa uno strano effetto. Noi carichiamo la parola regia di un significato metafisico. In quel numero di Culture Teatrali, recuperando alcune riflessioni di Marco De Marinis, noto come adesso si stia assistendo a una sorta di revisionismo o di reinvenzione lessicale per cui nascono costellazioni di espressioni o formulazioni che ci portano a rinominare quel concetto: concertazione, direzione, architettura della visione. Quanto a me, mi accorgo che nel mio privatissimo vocabolario di artigianato teatrale continuo a usare questa parola, anche se mi rendo conto che dentro, di una certa idea di regia, c'è rimasto pochissimo.

 

ph. Paolo Borghi

 

Dopo la prima esperienza di drammaturgo per Carissimi Padri, lo scrittore Paolo di Paolo scriverà un testo anche per il nuovo lavoro. Perché proprio lui? È una questione di “visione comune”, o proprio di una specifica qualità della scrittura?

 

L’incontro con Paolo è stato del tutto casuale. Mi sono imbattuto con lui durante la declinazione romana del Ratto d’Europa. Nell'ambito de Il giro d’Europa in ottanta giorni, un percorso all’interno delle biblioteche romane, lo invitammo a parlare di Lisbona in ragione del rapporto che ha avuto con Antonio Tabucchi e chiacchierando con lui durante l’incontro del nuovo lavoro, venne fuori che aveva curato una antologia di testi di letteratura italiana sulla Grande Guerra mischiando testi d’epoca ad altri successivi, da Ungaretti a Vassalli insomma. E nacque l’ipotesi, visto che cercavamo un drammaturgo, di proporlo proprio a lui. La genesi di Istruzioni per non morire in pace è stata una bellissima esperienza per l’enorme disponibilità di Paolo che considerava veramente la sua scrittura come materiale dato per l’allestimento lasciandoci incredibilmente liberi di intervenire, cambiare, tagliare, senza l’ossessione di difendere la virgola. Allo stesso tempo molti dialoghi con lui sono stati illuminanti per capire determinati fenomeni, perché guardare le cose attraverso gli occhi di un altro fa crescere.
Sicuramente c’è in Paolo una qualità di scrittura che mi piace, ma soprattutto riconosco in lui la volontà di essere uno scrittore intellettuale e di rivendicare uno sguardo politico sulla realtà. Penso anche all’approdo all’ultimo saggio che ha scritto per Einaudi, Tempo senza scelte, che esce dalla dimensione della narrativa in senso stretto e si apre a quella della riflessione critica, o anche al dibattito che aveva avviato alcuni mesi fa proprio sulla funzione dell’intellettuale. Sento che pur in una diversa appartenenza generazionale e in un diverso ambito di competenze (che hanno dei momenti di tangenza perché comunque la mia partenza è da italianista e una attenzione nei confronti della scrittura romanzesca per me è sempre stata molto forte) c’è una tensione comune tra il suo percorso e il nostro percorso.

 

 

Un bel dì saremo è realizzato dal gruppo di lavoro formato da Claudio Longhi con gli attori Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO