Il “bravo” ragazzo e i 49 milioni / Che cos'è la Lega di Salvini?

10 Ottobre 2018

«A livello internazionale la priorità è sgretolare questo euro e rifondare questa Europa. Sì, quindi, alle alleanze anche con gli unici che non sono europirla: i francesi della Le Pen, gli olandesi di Wilders, gli austriaci di Mölzer, i finlandesi… insomma, con quelli dell'Europa delle patrie». (Matteo Salvini, citato da Guido Caldiron, Dal verde al nero. La Lega di Salvini sceglie Marine Le Pen, in Europa, 12 dicembre 2013). Per capire cosa sia la Lega e il perché del suo successo, oggi, bisogna partire dal suo maggiore esponente, Matteo Salvini. Il quale non ha il carisma di chi l’ha preceduto, Umberto Bossi, ma in compenso può contare su una maggiore autorità. Come commentano Gianluca Passarelli e Dario Tuorto in La Lega di Salvini. Estrema destra di governo (il Mulino 2019, pp. 167, euro 15), Salvini non ha qualità specifiche né un prestigio definito bensì una conoscenza del partito, dentro il quale è cresciuto e con il quale è identificato, dai sostenitori così come dai detrattori, in maniera pressoché viscerale, a tratti quasi “carnale”. La carne, la sua carne visibile, tangibile, quasi manipolabile, è peraltro tutto nel suo caso, essendo stata letteralmente incorporata nella sua proposta politica: dalle foto di “lui” a torso nudo su un magazine popolare all’innumerevole successione di immagini con le proverbiali felpe o insieme alla compagna, al mare così come in affari domestici affaccendato. Su tutte troneggia però l’abituale ritratto, quello di una camicia bianca (segno di lindore e innocenza, ma non certo di ingenuità, tanto più se rivendicata come il risultato delle amorevoli cure della prodiga e solerte metà in affetti), portata alternativamente come parte delle divisa ministeriale, ma nel qual caso denunciata come subita, oppure appena possibile come segno di disimpegno, debitamente sbottonata nel colletto.

 


Salvini non ama le cravatte, le porta come quegli ospiti ai matrimoni che attendono che la cerimonia ufficiale si concluda per potersi liberare del nodo. Il significato è chiaro: poiché non tollero i vincoli io sono uno come voi, in quanto la libertà non è creatività (quindi anche responsabilità) ma essenzialmente assenza di vincoli formali. Se Bossi era risolto in una canottiera, il «capitano», che si candida con il suo giovanilismo ad essere un for-ever-young (assolutamente necessario per chi debba avere come alleati-competitori i pentastellati), coincide con la misura della lunghezza dei lembi della camicia che gli fuoriescono dai pantaloni. L’incipiente pinguedine completa il quadro: un adulto giovane (proiezione dell’adolescenzialismo di massa ma anche dell’essere in fondo un “bravo ragazzo”, figlio dei suoi genitori), che “parla come mangia” e che ai «parrucconi» di Bruxelles sa come cantargliele. Sarebbe piaciuto ad Alessandro Manzoni, potendolo collocare nella galleria di caratteri nazionalpopolari nei quali sicuramente Matteo Salvini si sarà pure in qualche modo riconosciuto, quando studiava al liceo (che peraltro porta il nome dell’insigne letterato e drammaturgo). La sua è quindi «popolarità» che, peraltro, come funzione e attributo, meglio si confà a un’epoca dove l’azione politica ha subito una serie di torsioni in successione, perdendo una parte decisiva della sua capacità di indirizzo sistemico. Tutto il programma salviniano, e quindi il suo stesso futuro, si gioca già da adesso su un sistema a cornici concentriche, che gli hanno permesso di superare la crisi di irrilevanza in cui il suo partito era caduto dopo il declino di «The Family» e del «cerchio magico»: macroregioni, nazione sovrana ed Europa identitaria.

 

Sono i tre passaggi di una piattaforma sulla quale non solo sta rigenerando il partito, dopo averlo normalizzato al suo interno, ma in tutta plausibilità cercherà di garantire la continuità del potere che va cercando di raccogliere, proiettandosi oltre i confini nazionali e confidando quindi che alla possibile disgregazione dell’Unione Europea si accompagni la nascita di una nuova Europa delle sovranità. Detto questo, Salvini produce e offre se stesso. Ritorniamo al punto di prima. Non è una sua esclusiva poiché il politico incorpora una doppia funzione, quella razionale e quella salvifica. Tuttavia, lui non ha molto altro da offrire che non sia la sua immagine. In tale ottica, è dal 2009, con poi una impennata a partire dal 2013, in coincidenza della sua elezione plebiscitaria a segretario federale della Lega Nord (quando strappò l’82% dei voti congressuali a fronte di un Umberto Bossi periclitante, tristemente crepuscolare), che porta avanti la sua vera e propria Kulturkampf, basata su due registri complementari di comunicazione: lo sdoganamento sistematico di un immaginario aggressivo e populistico, che sfonda completamente i tradizionali codici di relazione e scambio, ricorrendo soprattutto a una retorica dell’immediatezza; l’identificazione della sostanza della politica con il medesimo corpo del politico, mettendone in luce le imperfezioni non come limiti bensì come valore aggiunto.

 

Salvini è Homo Italicus e ne deve rappresentare i vizi e le virtù, gli uni e le altre inscritte in un universo immaginifico consolidato e condiviso da molte generazioni. Non è poi un caso se abbia a suo fianco la “bella donna”, per l’appunto quella “del capo”, che lo accompagna felicemente subalterna e compiaciuta dell’assumere un ruolo tradizionale. Ci sono autorevoli precedenti. Tralasciando Berlusconi, che del capitolo di storia che stiamo vivendo ha scritto alcune regole di ingaggio fondamentali, perdendo però il diritto a comporne la partitura, diventa inevitabile pensare a Mussolini. Inevitabile e in parte corretto, al netto però di improprie analogie storiche. Anche se da ciò deriva una sorta di mussolinismo di ritorno che è soprattutto un universo simbolico di gesti, atteggiamenti e parole piuttosto che una traiettoria politica definita. Entrambi i modi di offrirsi agli elettori si identificano d’altro canto nel paradigma della veracità: del corpo, della lingua, dell’immagine e, plausibilmente per gli interlocutori e gli astanti, delle sue affermazioni pubbliche. Il fatto che per adesso non abbia nulla da offrire d’altro, oltre a sé e alle sue parole, è per il momento non è un suo deficit ma, piuttosto, l’elemento di forza. Poi si vedrà. Il paradosso del populista, se è ancora questo il termine entro il quale perimetrare la sua identità politica, sta nel costiture una figura concava, che può contenere al medesimo tempo pensieri, idee e opinioni tra di loro anche antitetici. Comunque intercambiabili e corredati di un elevato grado di plasmabilità. Se Umberto Bossi era vincolato ad alcune parole d’ordine intraducibili in concreta azione politica ma capaci di reggere una narrazione mitologica come anche una mitopoiesi (a partire dal fantasma della secessione), giocando quindi sul “tesoretto” elettorale che queste gli restituivano, Matteo Salvini ha invece offerto, fino ad oggi, essenzialmente l’immagine di un decisore che lotta individualmente – nel racconto perpetuo di un micidiale corpo a corpo, in quanto eroe al medesimo tempo “eccezionale”, epico ma anche normale, al pari dell’uomo di strada – contro l’Idra di élite, poteri e politiche che esistono proprio per potersi manifestare contro l’individuo comune.

 


L’epica fantasiosa dell’eroe solitario, che si trascina, nella sua autenticità di intenzioni, un’intera collettività (la rappresentanza di sessanta milioni di italiani, il cui rimando numerico si contrappone ai quarantanove milioni di euro sottratti alle casse del Paese) risponde al vuoto che è diventato quel luogo di relazioni e scambi che continuiamo a chiamare con il nome di «politica». Le vere assonanze, quindi, più che con il passato nazionale, le si trova nella traiettoria del Front National della famiglia Le Pen. La Lega condivide con esso la sua origine di formazione politica su base “carismatica”, che si istituzionalizza come subcultura duratura dopo la realizzazione dell’archetipo della morte politica del leader fondatore nonché padre padrone. Matteo Salvini e Marine Le Pen sono i garanti dell’elaborazione del lutto collettivo: il vecchio conducător è “defunto”, la sua creatura invece vive, e assai bene. Ne deriva che le articolazioni intermedie del partito sono completamente schiacciate sulle esigenze e le volontà del nuovo “capo”. Segnatamente, alcuni elementi di similitudine si sono registrati con la traiettoria, per più aspetti fallimentare, di Renzi dentro il Pd. Ma lì la rottamazione è stata del partito e di tutte le linee politiche, non di una leadership anacronistica.

 

All’interno del partito personale, al medesimo tempo un one-man-party e un single-issue-party, chi si pone in contrasto con il trend dominante può solo esprimere dissidenza, non opposizione. L’idea stessa che possano coesistere al medesimo tempo posizioni diverse sugli stessi temi è vissuta come un attentato all’unitarietà dell’organismo politico. Una dinamica che rassicura, offrendo ai militanti l’idea di essere parte di un organismo vivente, basato su una identità olistica. Con Salvini, una volta esautorato ciò che restava del gruppo bossiano, i competitori interni sono stati annullati o annichiliti; nella migliore delle ipotesi, ridimensionati o comunque ricondotti ai loro ruoli più tradizionali. Così per Umberto Maroni, velocemente sostituito da un ben più affidabile Attilio Fontana; per Luca Zaia, espressione della tentazione egemonica veneta, che deve da sempre confrontarsi con la forza della componente lombarda; di Flavio Tosi, costretto a misurarsi con il seguito locale e lo scarso appeal nazionale. Salvini ha incentivato la diffusione e il definitivo consolidamento di un modello di partito verticale, nei fatti meno ancorato all’attivismo della base e all’azione amministrativa della classe dirigente locale che erano invece ben presenti nell’esperienza di Bossi. Il rimando alla comunità di destino, rivolto ai militanti così come agli stessi elettori, si è trasferito dalla dimensione immaginifica, a tratti fiabesca, della «Padania», a quella di un’italianità che esiste in quanto vittima di qualcuno.

 

Le lotte di potere interne alla Lega non hanno infatti influenzato oltre misura la sua costruzione identitaria. Rilevano Passarelli e Tuorto che «già da alcuni anni il partito ha assunto i tratti di una formazione di estrema destra, con tratti razzisti, xenofobi, politicamente e socialmente violenti». I temi che cavalca, al momento riconducibili all’immigrazione come minaccia, all’Unione europea come organismo che espropria i beni e le identità personali e collettive, ad una confusa concezione dell’economia sospesa tra la lotta al pauperismo e un interclassismo corporativo, alla chiusura culturale come radice identitaria e, infine, al rifiuto della democrazia pluralista, si ispirano all’ossessivo rimando al senso comune come evidenza in se stessa autosufficiente. Il Gramsci in formato Baci Perugina, quello citato ovunque, a puro sproposito, ovvero del tutto decontestualizzato, per avvalorare anche l’esatto opposto di ciò che andava pensando, è meglio lasciarlo a quanti fanno strame della complessità del suo pensiero, così come di quello di un Pasolini o dell’immagine politica di un Pertini. Detto questo, per sincerarci che certi richiami non siano di pura circostanza, vale la pena di rinviare proprio al pensatore sardo per farci aiutare nello svolgimento di un ragionamento articolato. Dice egli nel Quaderno 24 che «il senso comune [..] è la “filosofia dei non filosofi” cioè la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio». La citazione è non solo puntuale ma d’obbligo poiché tutta la costruzione comunicativa della Lega di Matteo Salvini – e noi siamo in presenza essenzialmente di operazioni mediatiche, di autorappresentazioni, di costruzioni immaginifiche più che di una linea politica dai contorni identificabili sulle questioni fondamentali del nostro presente – è l’ulteriore volgarizzazione (e quindi beatificazione) del senso comune.

 

 

Non è un caso, quindi, che affermazioni eclatanti come quelle del Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana («non possiamo accettare tutti gli immigrati che arrivano: dobbiamo decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare ad esistere o devono essere cancellate», 15 gennaio 2018) si inseriscano agevolmente dentro un tessuto di pensieri da tempo ben strutturati. Ciò facendo, asseconda quella che con Salvini non è stata una palingenesi e neanche una rifondazione ma un’accelerazione di processi che erano già in corso negli anni precedenti alla sua personale ascesa. Se è vero che la Lega si è spostata nettamente a destra è non meno vero che l’asse politico nei paesi a sviluppo avanzato ha sempre più spesso assunto quell’inclinazione, al netto dei problemi che ognuno d’essi deve concretamente affrontare. Come tale, la formazione politica del «capitano» Salvini occupa uno spazio politico che non ha creato da se stessa ma che si è prodotto nel corso del tempo. La sua risposta alle angosce da cambiamento segue l’indirizzo prescrittivo delle formazioni del radicalismo di destra, facendo ricorso alla razionalizzazione delle differenze (percepite, prima ancora che interpretate, come elemento di disordine emotivo e poi cognitivo) in minacce da cristallizzare in categorie morali.

 

La proposta di senso comune della Lega «di lotta e di governo», che guarda alla «fortezza Europa», Festung Europa, come alla diga da opporre alle orde barbariche, è quella di garantire a tutti, indistintamente, una nuova ondata di «moralità», quell’agire sociale per il quale ognuno deve essere ricondotto al «suo posto». Un campo di battaglia (che come tale già si è preannunciato in questi mesi, con l’esibizione di rosari e Vangeli) è quello sui diritti civili, dove l’aggressione alle soggettività rimanda alla spinta alla riorganizzazione della maggioranza dei cittadini all’interno di categorie nelle quali è richiesta una forte conformità alle regole dettate dal politico. Su questo piano Salvini e le destre europee, altrimenti private di una parte delle leve redistribuitive che erano invece parte integrante del vecchio modo di operare per costruire consenso, cercheranno di costruire un’egemonia nelle rappresentazioni correnti. Definendo non solo agende e priorità, come in parte stanno già facendo, ma concorrendo a modellare nuove identità. Senza un tale risultato verranno sconfitti. Se invece dovessero riuscire nei loro intenti, è allora possibile che possano garantirsi una duratura coalizione sociale, nata dalle crisi di trasformazione di questi ultimi lustri ma al momento ancora informe, alla ricerca di “protezione”, di padrinaggio e rappresentanza. Per poi procedere allo smantellamento definitivo dell’ordinamento costituzionale vigente. Settanta e più anni dalla fine del nazifascismo non sono passati inutilmente. Siamo in un oltre, dove molta violenza chiede di essere esibita e anche canalizzata. Un po’ come ai tempi della Repubblica di Weimar. 

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