L'antieuropeismo di Beppe Grillo e Marine Le Pen

30 Maggio 2014

Lucien Febvre, storico che a lungo ha riflettuto sull’idea di Europa, in un saggio dedicato espressamente a questo tema (Europa. Storia di una civiltà, Feltrinelli) scrive che “L’Europa è sorta nel momento in cui l’impero romano è venuto meno”. La sua nascita, precisa, è un processo lungo che occupa tutta la seconda metà del primo millennio. Un peso determinante, più che l’impero carolingio, l’ha l’espansione della Chiesa verso Est, fino alle soglie della Russia. Conta sia l’atlante storico della diffusione del cristianesimo, sia come si muovono i suoi uomini, sia, infine, dove si trovano i centri che li formano.

 

La fisionomia cambia nel ‘500. La cristianità non esprime più tutta l’Europa. La riforma obbliga a trovare un nuovo fondamento. Ora sono i laici a insidiare il dominio del cristianesimo. Da quel momento “spazio europeo”, anche se ancora non si chiama Europa, un nome che si afferma dal ‘700, significa espansione verso Est, politica di potenza verso l’Asia, insediamento nel Mediterraneo, ora percepito come il proprio “lago salato”.

Nel XIX secolo l’insorgenza della nazione come attore principale provoca la crisi dell’immagine dell’Europa. La nazione non è fatta da individui, osserva Febvre, è fatta da gruppi che avvertono la dimensione europea come proprio nemico.

 

È un segnale che parla al nostro oggi e che non è una novità.

Scriveva Heinrich Mann all’inizio degli anni ‘20 che l’Europa vive nella mente dei pensatori che si trasmettono questa eredità di generazione in generazione, soprattutto nelle epoche in cui gli europei sembrano aver dimenticato il nome Europa. Febvre gli fa eco quando osserva che l’Europa è un rimedio disperato e che di essa “non si è mai parlato tanto quanto dopo il trattato di Versailles, dal 1920 a oggi”. (Una suggestione che riprende Donald Sassoon nel suo recente Quo vadis Europa? Castelvecchi).

 

Dunque Europa è termine che designa la crisi, o è vissuto come possibile risposta alla crisi. Questo primo dato è interessante, perché la crisi dell’Europa appare oggi spesso come la delusione che segue il risveglio da un sogno. Una parte del volto antieuropeista di domenica scorsa è figlio di questa condizione.

Tuttavia anche così questo dato non è ancora sufficiente a spiegare la realtà che si è aperta con il voto del 25 maggio.

 

Per chiarirlo mi riferirò a due scenari diversi dove pure l’antieuropeismo, se non maggioranza, ha espresso comunque un forte connotato politico: da una parte di che cosa sia espressione la vittoria del Front National (d’ora in poi FN) in Francia; dall’altra che cosa rappresenti la dimensione politico-culturale del Movimento 5 Stelle (d’ora in poi M5S) di Beppe Grillo.

 

Confrontarli è utile almeno per due motivi: 1. Perché a dispetto di quelle potrebbero apparire come radicali differenze, tra le due realtà politiche corrono invece alcuni elementi di profonda comunanza; 2. Nonostante il primo, il FN, appaia come vincitore e M5S appaia come lo sconfitto, essi hanno alcuni aspetti strutturali nel loro antieuropeismo che ci obbligano a valutarli insieme. In ogni caso non credo che la vittoria del primo e la sconfitta numerica del secondo dicano che l’antieuropa vince in Francia e perde in Italia. Il loro risultato è misurabile rispetto alla crisi dei loro concorrenti nei rispettivi contesti nazionali, ma resta il comune antieuropeismo che necessita di essere analizzato e reciprocamente distinto.

 

Molti hanno sottolineato il valore politico del voto al Front National di Marine Le Pen e l’hanno letto come un indicatore del più generale voto di protesta che ha attraversato trasversalmente tutta l’Europa.

 

È un errore a mio avviso. Quello a Marine Le Pen non è un voto di protesta, è un voto di opinione. Conferma una tendenza già in atto in Francia da molti anni e ha il suo tratto essenziale nella somma di due dati: da una parte la crisi della destra moderata, comunque della destra erede di De Gaulle (orfana di figure nazionali di rilievo dopo l’uscita di scena di Chirac e la breve parabola di Nicolas Sarkozy). Ma non è solo un voto “in fuga” da un partito – l’UMP – che oggi non ha una fisionomia chiara. È anche l’espressione di una crisi del progetto Europa cui pure, non dimentichiamolo, la Francia gollista aveva decisamente puntato e che tradizionalmente aveva rappresentato.

 

Quel progetto ha avuto una crisi molto tempo fa e il campanello d’allarme, a volerlo cogliere, risale a nove anni fa, quando il 29 maggio 2005 la Francia va alle urne per approvare o meno la Costituzione europea. È bene ricordare che in quelle stesse settimane quel testo è sottoposto a vittorie di misura non solo in Francia, ma anche in Olanda e in Belgio.

 

Jacques Chirac, allora Presidente, si presentò come colui che aveva permesso all’Europa di essere una realtà politica. È un dato vero nei numeri, ma poco significativo. È vero se ci limitiamo a un’analisi del conflitto tra europeisti “caldi”, europeisti “scettici” e “antieuropeisti” (in gran parte collocati o nell’estrema destra lepenista o nella sinistra radicale) e se riduciamo tutto – cosa di per sé né banale, né trascurabile – a un’analisi degli schieramenti in base alle logiche di interesse.

 

Ma un’analisi di questo tipo non tiene conto della profondità della crisi che la Francia attraversa da allora. Nella storia francese moderna l’ora della crisi è stata segnata dalla delusione o dal senso della malinconia rispetto al proprio destino.

 

È accaduto rispetto alla vittoria ottenuta al prezzo di molto sangue nel 1918 e poi non saputa rivendicare di fronte al montare della potenza tedesca sotto i panni dell’hitlerismo.

 

Ed è accaduto di nuovo nei giorni tristi della crisi della IV repubblica, a metà degli anni ‘50, nel momento della dissoluzione del proprio impero coloniale mentre le strade di Parigi si riempivano delle folle della piccola borghesia arrabbiata che rivendicavano una dignità imperiale della Francia definitivamente perduta.

 

In quelle folle che si riversavano nelle strade si concentravano vari aspetti della Francia arrabbiata: quella che ritroviamo oggi nel Front National; una parte delle sinistre antieuropeiste che rivendicano un’identità comunitaria; lo stato d’animo di una porzione non marginale di altre sinistre che con molta riluttanza abdicano da una configurazione pubblica segnata dalla laicità delle istituzioni per imboccare una strada molto più incerta, comunque meno definita nel rapporto tra confessionalismo e sfera pubblica. In breve la percezione della crisi della Francia come idea. Come storia di un’idea.

 

Questi dati non sono diversi dalla delusione e dalle convinzioni che attraversano l’opinione pubblica in Italia e che ha trovato in due attori politici la rappresentanza di questo stato d’animo: Lega Nord e M5S.

 

Per molti aspetti si potrebbe dire che la parabola di Lega Nord verso l’area di attrazione di FN è forse il tratto più evidente della Lega nella stagione Matteo Salvini. È un tratto, tuttavia, che non è il risultato di una improvvisa conversione. Quel tratto culturale, prima ancora che politico era presente già all’inizio nella constituency di Lega Nord (forse più nel tratto di origine di “Liga Veneta” che non in quello proprio di “Lega Lombarda”) e in parte nelle aree piemontese. Un aspetto che attraversa oggi anche alcune aree del movimento “No TAV” dove l’elemento della violazione della “mia terra” prevale sulla cultura di un diverso modello di sviluppo, aperto, inclusivo, cooperativo. La dimensione culturale in breve è quella della propensione etnocentrica con un forte connotato “xenofobo” che legge la TAV come contaminazione, come “invasione della mia terra” dove convergono segmenti dell’immaginario del territorialismo etnico e del comunitarismo; in cui si incrociano, nello slogan “piccolo è bello”, immaginari del localismo di destra e della critica all’industrialismo, soprattutto diffidenza nei confronti del sapere scientifico che pesca nel vocabolario dell’anti utilitarismo proprio di segmenti politici di sinistra. Un territorio dove convergono molte suggestioni che costituiscono il mix di malinconia, nostalgia, fascino dell’utopia, ma anche un tratto di organicismo sociale. Un blocco culturale, prima ancora che sociale, dove si sovrappongono molti linguaggi sia di destra che di sinistra.

 

E tuttavia se questi aspetti sono presenti nel linguaggio che attraversa e innerva M5S, non si deve dimenticare il fatto che ci sono alcune battaglie pubbliche, non solo quelle per l’acqua o per il territorio, ma soprattutto quella a difesa dei piccoli risparmiatori, dove quel movimento ha avuto un ruolo rilevante e lo ha avuto come rispetto dovuto a una massa di cittadini che altrimenti sarebbero stati truffati o ignorati (il caso Parmalat è ancora un caso su cui Beppe Grillo ha costruito una parte rilevante della sua figura carismatica, non ultimo anche per totale distacco e delusione della classe politica). Un aspetto che accresce il sentimento antieuropeo, perché l’Europa si presenta oggi come burocrazia, tecnocrazia, incapacità di essere in sintonia con le parti deboli della società.

 

Ma questo aspetto va anche con un altro, che riguarda la fisionomia di M5S: una dimensione cesarista e fortemente personalizzata della leadership cui fa da rafforzativo l’inesistenza di una struttura certificata controllata e soprattutto “pubblica” della discussione interna (questo forse l’aspetto che differenzia nella sostanza M5S da FN).

Una pratica che rafforza la dinamica del futuro di M5S.

 

Il problema infatti, prima ancora della dimensione della sconfitta – o forse più realisticamente della “non vittoria” – è in che forma e in che modi si esprimeranno i sentimenti che hanno definito la “piazza di Grillo”. Una piazza che è stata non violenta fino ad oggi, perché convinta di avere il vento della storia dalla sua. Sul domani non giurerei, a meno di non decidere di strutturarsi pubblicamente e come un partito moderno. Ma questa “conversione”, una vera e propria autoriforma, non si intravede, né mi sembra che ci sia un movimento interno che la richiede.

 

L’idea di andare alla ricerca, più che dei propri errori, di un capro espiatorio su cui rovesciare le proprie delusioni (come emerso in questi giorni) non depone a favore. In ogni caso dice che un tratto da cui M5S deve emanciparsi, è la spiegazione complottista della storia. Una filosofia politica che nella realtà moderna non ha mai prodotto visioni democratiche della politica.

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