Gad Lerner: Israele in bilico

12 Giugno 2024

Gaza. Odio e amore per Israele di Gad Lerner è un libro necessario. Non sono d’accordo su tutto (nella parte finale indicherò dove ho perplessità), ma questo non ne ridimensiona la rilevanza. Non è prevalentemente un bilancio esistenziale o una confessione in pubblico (è anche questo, ma non è questo il tratto essenziale). È una messa a giorno di molti temi che riguardano la condizione della politica oggi. Anche molto lontano da Gaza e da Israele. Ci sono due pagine che riguardano un mio maestro, Zeev Sternhell, che Gad ricorda opportunamente e che molti hanno dimenticato. È molto importante averlo ricordato. Non era scontato. Così come molto importante aver sottolineato [p. 241] che la fase postbellica – quando sarà – necessiterà di processi di riconciliazione, giustizia riparativa e pratiche di cura che dovranno fare fronte ai traumi. La pace non sarà solo «silenzio delle armi», sarà soprattutto «cura delle persone».

Il primo dato riguarda alcune parole che circolano con insistenza. Per esempio la parola «genocidio».

Gad Lerner insiste sul fatto che a Gaza non sia in atto un genocidio, ma un crimine di massa. Forse a molti può apparire una questione puramente formale. Se è così allora significa che il linguaggio del qualunquismo ha vinto. Nel giudizio storico le parole hanno un significato. Non sono pura emozione, o testimonianza delle proprie ansie. Le parole servono per capire, non servono per urlare.

Marcello Flores, uno storico che gli stermini li ha studiati, ha precisato, opportunamente, più volte in queste settimane come per la Convenzione sul genocidio che è stata promulgata il 9 dicembre 1948 – un testo a cui tutti nominalmente si richiamano –, “genocidio è la distruzione parziale o completa di un gruppo etnico, religioso o nazionale. Nel caso in cui, però, c'è l'intenzione da parte di chi commette quella violenza di distruggere il gruppo in quanto tale” [le sue considerazioni si possono leggere più estesamente qui].

Dunque, è in atto questa pratica a Gaza? Se la risposta è affermativa, allora la domanda a cui occorre rispondere è questa: perché non è in atto nessun atto di sterminio a Nazareth, nei confronti della popolazione araba? Perché il genocidio non è una cosa che dipende da «dove lo si fa», ma è in relazione a «chi lo fa». Se a Nazareth non c’è nessun sterminio in corso, allora la categoria di genocidio non è appropriata.

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Torri di David e Ippico a Gerusalemme, Maison Bonfils, Rijksmuseum.

Secondo dato. C’è una domanda che ritorna spesso nelle pagine di Gad Lerner ed è questa: perché tra tutti i conflitti in corso quello che si svolge a Gaza occupa il centro della scena, fino a percepirlo come una cosa che riguarda «tutti noi»? Perché i molti conflitti in corso in Africa non ci riguardano? Perché il conflitto in Ucraina lo viviamo con noia, con fastidio, comunque, come una cosa non nostra e quello a Gaza ci appassiona fino a dissolvere consolidate amicizie, rompere consuetudini, o sollecitare la mobilitazione pubblica?

Gad Lerner si dà molte risposte che mi sembrano tutte molto fondate.

Nell’ordine:

perché abbiamo introiettato un rapporto con Israele come risarcimento e dunque abbiamo, nei confronti di ciò che quel paese fa e di come si comporta, delle categorie culturali che fondano la sua politica su un punto di sensibilità.

Oppure: perché abbiamo una presenza islamica considerevole e un flusso di processo migratorio che negli ultimi venti anni hanno modificato il nostro rapporto con le aree di quello che un tempo era il mondo delle colonie.

O anche: perché avvertiamo, almeno per una certa parte dell’opinione pubblica, che Israele è quello che un tempo era il Berlino Ovest per l’Occidente: la soglia più a Est della civiltà occidentale oltre la quale si trova il nemico.

In tutto questo al centro non ci sono le trasformazioni che hanno coinvolto da una/due generazioni (ovvero 20/40 anni) ciascun attore (sociale, politico, culturale, nazionale…) presente in quell’area, ma ci siamo noi. Qui.

Quella crisi, tuttavia, vive anche di trasformazioni che per molti aspetti hanno i tratti che prefigurano il nostro presente/futuro qui. Anche per questo ci riguarda e per questo un occhio a che cosa è accaduto negli ultimi 20/40 anni è essenziale per rimettere ordine nell’agenda politica e culturale di questo tempo, anche qui.

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Il primo aspetto riguarda la trasformazione culturale e politica di Israele, da realtà politica costruita con un vocabolario del laburismo e che oggi testimonia di una metamorfosi politica tale da rientrare nella categoria di etnodemocrazia.

Sostenere che quella israeliana è un’etnocrazia non infrange nessun tabù. È stato Sami Smooha circa 50 anni fa ad aprire in Israele la discussione su questo tema [Smooha 1978] e gran parte della discussione prodotta dai nuovi storici israeliani tra anni ’80 e primi anni del XXI secolo indipendentemente dagli esiti politici che ciascuno di loro ha avuto (Yael Zerubavel, Anita Shapira, Tom Segev, Ilan Pappe, Benny Morris…) discende da quella premessa, che nessuno di loro disconosce. Discussione che intreccia, opportunamente, teoria politica, cultura religiosa, teologia, antropologia, soprattutto, narrazione storica.

È importante sottolinearlo per due motivi, almeno: perché qualsiasi contesto politico va collocato in un tempo storico e perché quel processo non è univoco. Infatti, riguarda il mondo ebraico israeliano e quello palestinese; quello ebraico fuori di Israele, quello dei palestinesi fuori dalla Palestina. Ovvero tutte le diaspore che hanno relazioni con quello spazio. 

Quel processo ha il suo consolidamento a partire dal dopo 1967 e con l’inizio del processo insediativo nei territori occupati dopo la «Guerra dei 6 giorni» (5-10 giugno 1967) e ha un suo consolidamento nel processo che stabilisce le norme di cittadinanza nel 2018 che marcano una frattura rispetto al compromesso in atto nel momento della fondazione dello Stato. Gli arabi israeliani, dunque anche quelli presenti sul territorio di Israele prima del 5 giugno 1967 non sono attori che godono degli stessi diritti dei cittadini ebrei israeliani. La lingua araba che fino a quel momento è riconosciuta come seconda lingua dello Stato retrocede a lingua ammessa nello spazio pubblico. Sul piano formale e sostanziale la definizione dello Stato di Israele come Stato ebraico implica l’abbandono della definizione di «Stato di tutti i suoi cittadini».

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Porta di Damasco a Gerusalemme, Félix Bonfils, Rijksmuseum.

Processo che è favorito anche dal tipo di immigrazione che sostanzia la società attuale israeliana dove la componente espulsa dai paesi arabi è in crescita, dove la componente di provenienza russa post-sovietica ha un tratto nazionalista. Una realtà che dal punto di vista delle diverse «tribù interne» testimonia degli odi e dei torti patiti nel luogo di origine.

Si potrebbe anche osservare come quel processo di etnicizzazione e di discriminazione sia parallelo in molti paesi arabi nonché all’interno del mondo palestinese, a dimostrazione che il processo di costruzione del futuro Stato palestinese è facilmente prevedibile che dovrà misurarsi con lo stesso tipo problema, a cominciare dalla natura laica della politica e delle forme di rappresentanza politica interna, senza dimenticare che la sua minoranza interna cristiana non gode poi di molte libertà.

Quel processo, tuttavia, e qui sta un tema strutturale della riflessione di Lerner, ha avuto una trasformazione a partire dagli anni ’80.

Lerner si limita a analizzare la realtà israeliana, ed ebraico-diasporica, ma sarebbe molto importante, oltreché necessario che quello stesso percorso di ricostruzione critica e problematica si producesse anche in campo palestinese e nelle diaspore arabofone.

Quelle realtà sociali in quel territorio e contemporaneamente le diaspore che a quelle realtà fanno riferimento, hanno avuto una metamorfosi fondamentalista tanto nei percorsi di identità religiosa come nei processi di identità culturale. In breve, gli spazi e i percorsi di critica interna al gruppo si sono ristretti, il processo di mentalità totalitaria ha avuto un percorso di crescita, i margini di dissenso interno e di discussione si sono ridotti. 

Se è vero che tra XIX e XX secolo i margini di laicità, – qui mi limito a considerare l’esperienza del mondo ebraico –, hanno avuto processi di abbandono, ne hanno però vissuti anche altri di profonda innovazione, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Francia, in alcuni momenti anche in Italia, nella Palestina mandataria e poi in Israele ovviamente.

Il processo di laicizzazione voleva dire inaugurare un nuovo rapporto col testo, interrogarlo, uscire dall’interpretazione letterale e tradizionale, ibridare interpretazioni inglobando sollecitazioni dal linguaggio della filosofia, dell’antropologia, della sociologia, della semiotica, della critica letteraria, della teoria del linguaggio.

Implicavano la presenza di un filone di tradizione e di osservanza anche ortodossa, radicale, ma aperta al confronto con le molte forme della modernità. Il processo di radicalismo teologico degli ultimi quarant’anni, così come i processi di fondamentalismo propri nel mondo islamico, hanno attraversato e avuto forza anche nei diversi mondi ebraici, in Israele e nelle diaspore, e hanno limitato fino quasi a dissolvere questa possibilità.

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Street view a Gerusalemme alla Porta di Giaffa, Félix Bonfils, Rijksmuseum.

Questo aspetto è quello che non mi fa pensare – e qui sono più pessimista di Lerner – che in sé ci sia un mondo della diaspora che salverà Israele. Quella possibilità di nuovo percorso si può dare solo se segmenti inquieti tanto delle diaspore come dell’ortodossia e della riflessione pubblica in Israele (che ci sono e non tacciono) trovano luoghi comuni di confronto e dialogo. Se la lingua ebraica torna ad essere uno strumento di scambio e non solo una lingua sacra.

Invece se quel confronto tra Israele e diaspore non si nutre di inquietudini che parlano un linguaggio comune, nel senso tecnico della parola; se la possibilità di parlarsi in una lingua non è anche la costruzione di un vocabolario che si nutre delle sollecitazioni e inquietudini che generano concetti e parole chiave che obbligano a rivedere i significati, e dunque anche i molti luoghi comuni che un sapere codificato inevitabilmente produce nel tempo; allora quel confronto tra Israele e diaspore sarà solo una delle molte forme in cui si sancirà un reciproco allontanarsi e alla fine vincerà solo chi si sentirà padrone delle regole. Di solito, in quel caso, vince chi ha i codici d’accesso all’identità e chi detiene le chiavi della legge. In una parola: chi ha lo – e chi è – Stato. In quel caso le diaspore, volenti o nolenti, sono destinate ad essere contorno.

In copertina, Credenti in preghiera al Muro del Pianto a Gerusalemme, Maison Bonfils, Rijksmuseum.

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