Giulio Bollati editor e editore
Alle volte le parole con cui si consuma un addio sono importanti, non solo per chi le pronuncia o le scrive, non solo per chi le riceve, ma anche per quelli che provano a ricostruire il senso di una scena. Così è nell’ultima lettera, datata 4 novembre 1980, che chiude Giulio Bollati Lettere e scritti editoriali, volume che Tommaso Munari ha composto con molta cura. Raccolta molto preziosa per capire e studiare l’ambiente dell’editoria italiana nella seconda metà del Novecento (su cui in anni recenti ha scritto, con molta cura e sagacia, Irene Piazzoni: si veda il suo Il Novecento dei libri, Carocci). E, più concretamente, per tornare a riflettere sulla storia di Giulio Einaudi Editore, di cui abbiamo già alcuni tasselli importanti (da una parte il libro di Luisa Mangoni, Pensare i libri, Bollati Boringhieri; dall’altro quello di Giulia Boringhieri, Per un umanesimo scientifico, Einaudi).
La lettera del 4 novembre 1980 conclude una lunga storia che aveva legato Giulio Bollati a Giulio Einaudi editore (dall’autunno 1949 fino, appunto, al 1980; come sappiamo ci sarà un secondo momento tra inizio 1985 e inizio 1987, in cui Bollati tornerà, in una casa editrice commissariata, per poi allontanarsene definitivamente per andare a definire e delineare la fisionomia editoriale di Bollati Boringhieri).
In quella lettera il tema è che cosa sia una casa editrice, cosa voglia dire un gruppo redazionale che ne esprime il lavoro nonché la constatazione che quel profilo non risiede più, a giudizio di Bollati, in via Biancamano 2. In breve: come e che cosa implichi progettare e pensare libri, non come autore, o come studioso, bensì come produttore, come macchina industrialmente organizzata e che, tuttavia, non tralascia, o non dimentica di realizzare con cura un prodotto, tema, questo, che ricorre spesso nelle lettere che compongono questo volume. Si tratta dell’aspetto della produzione e delle competenze specifiche di Bollati sin dai primi anni della sua presenza in Einaudi: il tema è l’immagine e (artistica, fotografica, pittorica) è un ambito che lo coinvolge a vari livelli: nella costruzione di una collana di arti figurative che dovrebbe essere diretta da Giulio Carlo Argan [pp. 74-75]; nello scambio con Federico Zeri nel 1976 intorno al saggio che Argan deve scrivere per il VI volume della Storia d’Italia Einaudi. Più assiduamente: la scelta delle immagini di copertina, ma più spesso l’accompagnamento iconografico alle edizioni maggiori (dalla collana “I Millenni”, ai volumi della “Biblioteca di cultura storica”). Competenza il cui ultimo prodotto è in un volume di inizio 1989 (dunque ben due anni dopo la sua uscita definitiva): L’albero della rivoluzione. In quel volume, che contiene anche due suoi contributi (uno dedicato a Vittorio Alfieri, l’altro a Alessandro Manzoni, oggi sono leggibili nel suo L’invenzione dell’Italia moderna), l’idea redazionale è quella di comporre un patrimonio culturale facendo coincidere la sua rappresentazione con la definizione del contenuto e della forma di una “memoria”. Intendendo con questo termine non tanto ciò che si ricorda, ma ciò che si ricostruisce nel tempo in un dialogo costante tra presente e passato.
Un tema, quello dell’immagine, che contemporaneamente sbocca nella riflessione intorno alla fotografia e sullo scatto fotografico che consente di dare forma e visione a un concetto. Per esempio: niente è più pregnante del concetto di continuità dello Stato tra fascismo e Italia repubblicana – un tema che ha segnato sempre la discussione in storiografia come nel dibattito politico – della scelta di immagine con cui Bollati chiude l’Annale della Storia Einaudi dedicato all’immagine fotografica, che cura con Carlo Bertelli. La caduta del fascismo, infatti, è semplicemente rappresentata dalla rimozione del fascio littorio dal muro di garage di Piazzale Roma a Venezia. Una rimozione “tecnica” – meglio «burocratica» – che lascia intatta la struttura. La continuità dello Stato, per dirla con Claudio Pavone.
Un dato che sottolinea come la fotografia abbia un contenuto documentale, ma poi non sia in sé la verità, ma una spia indiziaria che va indagata e che coinvolge e mette a tema le intenzioni di chi scatta, ovvero di chi sta dietro l’obiettivo. Negli anni ’70 questo tema è al centro delle riflessioni di Susan Sontag e, per altri aspetti, di Roland Barthes. La prima, soprattutto, è una figura intellettuale che Giulio Bollati, sulle sollecitazioni indotte dalla raccolta degli scritti di Benjamin sull’opera d’arte (un libro che esce in prima edizione nel 1966 e che poi ha avuto una diffusione straordinaria), riproporrà più volte in quella che è la collana einaudiana di Bollati per eccellenza, ovvero “Nuovo Politecnico”. Collana che nasce nel 1965, con un forte carattere progettuale e che, proprio per questo, ha la funzione di porre domande, nuovi percorsi di ricerca. In breve, anticipare temi, dunque innovare.
Lo stesso vale per il profilo riflessivo con cui Bollati stende le note che illustrano il senso della linea editoriale, e che affida alla voce di Giulio Einaudi nel viaggio che quest’ultimo compie a Londra nel 1963 [pp. 91-102] e poi nel 1964 negli Stati Uniti [pp. 107-119]. Fondamentale, in questo secondo testo, il passo in cui scrive che l’editore deve “pensare al proprio lavoro come un vero e proprio esercizio pubblico” ovvero “non deve concepire l’insieme dei lettori semplicemente come un mercato, ma sempre come una società civile” [p. 118].
Un profilo che ritorna nelle note con cui accompagna la lettura della collana “Saggi” nel catalogo editoriale del 1956 [pp. 55-57], o nella scheda di lettura per sostenere la traduzione verso l’italiano del saggio di Jacques Vergès De la stratégie judiciaire – uscirà col titolo Strategia del processo politico nei «Saggi» – che propone per la collana “Nuovo Politecnico” (collana che è in gran parte il luogo di riversamento dell’innovazione culturale e dell’aggiornamento disciplinare), o, ancora, quando nel febbraio 1974 scrive a Elsa Morante a proposito de La storia [pp. 193-195] in uscita nel giugno dello stesso anno, sottolineando come Useppe, il bambino, sia il vero protagonista. Un grandissimo piccolo «Idiota» lo definisce. Una figura, come aveva osservato Benjamin a proposito del romanzo di Dostoevskij, in poche pagine tanto dense quanto essenziali, dove è l’infanzia ferita la voce protagonista di quella storia.
Ma soprattutto un profilo che si delinea fin dai primi anni ’50 e che poi ritroviamo nella lunga azione editoriale di Bollati che si snoda intorno a due tipi di documenti: la fotografia, come abbiamo detto, e la questione dei periodici.
Entrambi questi «linguaggi» sono intesi come quegli strumenti e quei luoghi che formano l’identità collettiva o che contribuiscono, nel tempo, a definirla. In entrambi i casi si tratta di formare competenze che sappiano leggere documenti «in serie». In altre parole è la serie, o la continuità nel tempo, a definire ciò che rimane o ciò che nel tempo si costruisce perché rimanga. Che cos’è la pubblicazione della raccolta degli scritti più significativi di Cesare Lombroso che fa pubblicare nella sua Bollati Boringhieri, se non appunto uno studio sull’uso politico della fotografia ovvero la fotografia come costruzione del bravo cittadino, controllato, da educare, comunque da sorvegliare e formare?
Per riepilogare: la riflessione sulla fotografia è un modo di porre il problema del codice culturale di un tempo storico. Giulio Bollati condivide questa passione con una certa generazione di intellettuali e figure che hanno a cuore il rapporto tra verità/falso/artefatto e costruzione ideologica. Anche per questo quel laboratorio non è solo un laboratorio «redazionale», ma soprattutto «culturale». Meglio: storiografico.
Intorno alla fotografia e più ampiamente all’immagine Giulio Bollati ha prodotto e ha indotto a produrre una riflessione compiuta, meno che sui periodici. Ma questa seconda fonte non è meno significativa dell’altra. È un tema e una questione su cui torna più volte nelle lettere che compongono questa antologia e soprattutto quelle al suo maestro Delio Cantimori. In particolare in quella del novembre 1964 [pp. 129-130] in cui delinea la sua attività di ricerca a cui prova a dare forma e che poi si consegnerà tra anni ’60 e anni ’70 nei saggi che nel 1983 vanno a comporre L’Italiano.
La riflessione intorno al periodico come fonte si nutre, invece, di un percorso diverso. Non riguarda la parola, ma riguarda la formazione di un lessico che va recuperato nella sua serialità.. A differenza della riflessione sulla fotografia, la consapevolezza che quella sia una fonte storiografica ha una storia culturale e storiografica distinta. Non nasce come indagine sul linguaggio dominante, ma intorno alla ricostruzione del linguaggio scomparso. Bollati lo osserva su quello della classe dominante, ma la suggestione si innesta nella cultura italiana a partire da una domanda di storia intorno alla necessità di scavare sulla identità culturale degli sconfitti.
Insieme è un’indagine su come si costruisce il linguaggio dominante, come rimangono parole, espressioni, metafore cui contribuiscono in maniera determinante i periodici: sia quelli a grande tiratura, sia quelli che si propongono come luoghi per gli e degli intellettuali ma che contribuiscono in maniera determinate a formare l’immaginario pubblico.
Perché i periodici sono importanti? Perché sono lo strumento, proprio per la sua costanza nel tempo, ovvero per la sua durata, che più contribuisce alla costruzione dell’egemonia.
È intorno a quella domanda che si costruiscono due percorsi negli anni ’50 (uno in Einaudi e uno all’interno del gruppo di lavoro della Biblioteca Feltrinelli che poi si trasferisce nel percorso della casa editrice) che coglie nei periodici i luoghi della costruzione e della definizione di un lessico politico e culturale non più solo, né prevalentemente, delle culture del mondo del lavoro, ma, soprattutto, della costruzione del salotto intellettuale tra XVIII e XX secolo (nel progetto Feltrinelli), oppure nella costruzione del linguaggio degli intellettuali in Italia tra fine Ottocento e Prima guerra mondiale che è il campo di lavoro su cui si concentra il progetto in Einaudi. Sul profilo intellettuale tra XVIII e XX secolo Bollati tornerà a insistere riaprendo quel laboratorio in Bollati Boringhieri.
Rimanendo fermi alla questione dei periodici come fonte per la ricostruzione dell’enciclopedia culturale, il tema sul tavolo di Einaudi editore giunge all’inizio del 1951 proprio su proposta di Bollati, che individua alcune delle pubblicazioni periodiche su cui concentrare l’attenzione: “La Voce”, “L’Unità”, “La Ronda”. Il progetto nel 1956 è affidato nella sua direzione a Delia Castelnuovo Frigessi e si concretizza in cinque volumi che escono tra il 1959 e il 1964. È la serie “Cultura italiana del '900 attraverso le riviste”.
Il tema in quel caso è ancora confrontarsi con la crisi che immette al fascismo e la scelta di concentrarsi sui primi venti anni del’900 implica fare i conti con una trasformazione che accompagna quella crisi, ma soprattutto con le parole che propongono quegli intellettuali.
Sarebbe interessante e significativo che quel laboratorio fosse riaperto individuando i luoghi culturali che nella storia dell’Italia repubblicana hanno contribuito a fornire il lessico collettivo con cui ci esprimiamo e immaginiamo il nostro tempo attuale quando parliamo di politica, società, individuo, successo, sconfitta, rancore, sapere, tradizione. In breve, identità. Non astrattamente. Ma in un tempo, in un luogo e in riferimento a una storia. Nel nostro caso: italianità nel XXI secolo. Ovvero nel tempo attuale. Ora.
Anche questa è un’eredità che dobbiamo ai tormenti e alle domande di Giulio Bollati. Il suo modo di pensare libri.
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