Scurati, populismo e fascismo oggi
Lo storico Giovanni De Luna ha richiamato l’attenzione sul fatto che ciò che oggi chiamiamo populismo sia un fenomeno diverso dal movimento che originò quel nome nella Russia zarista della seconda metà dell’Ottocento. Un movimento – scrive De Luna – “che indicava al popolo – e in particolare alle masse contadine – l’azione rivoluzionaria come via da percorrere per emanciparsi dalla miseria e dalla violenza del regime zarista”, per poi concludere: “I vari movimenti che oggi sono definiti populisti si caratterizzano per programmi e valori molto lontani da un qualsiasi progetto rivoluzionario” [Giovanni De Luna Che cosa resta del Novecento, Utet, p.154].
Il populismo è certamente un fenomeno complesso che descrive tanto la fine di un percorso del Novecento, come ha scritto Giovanni Orsina, quanto una fenomenologia distinta, tra destra e sinistra, pur mostrando delle consonanze, come suggerisce De Luna. A sinistra «populismo» sembra mantenere il campo binario inteso come conflitto tra due attori assunti come verticali non scambiabili, un tempo classe operaia e borghesia, ora “popolo” e “élite politiche”. Nella destra quel termine individua, invece, un triangolo: da un lato il popolo; sul secondo lato le élite; sul terzo lato «il nemico» (a seconda dei temi: gli immigrati; l’Unione Europea; l’Euro. Ultimamente si potrebbe aggiungere, con la crescita dell’area rosso-bruna dell’estrema destra, L’America, intesa come «antiEuropa»).
E aggiunge: “…è la lotta contro tale nemico a segnare gli slogan e le parole d’ordine del movimento populista, così come gli attacchi alle «cerchie» accusate di proteggerlo e di favorirlo. Tra le ragioni che contribuiscono a spiegare i suoi successi elettorali si possono indicare anche la tendenza a proporre soluzioni semplici e drastiche per problemi complessi” (G. De Luna, Cit. p. 155-156].
È una lettura interessante a cui si aggiunge ora una riflessione saliente proposta da Antonio Scurati nel suo libro Fascismo e Populismo. Mussolini oggi, (Bompiani).
Scurati insiste, fin dalle prime pagine del suo libro, sul fatto che a differenza della Germania, in Italia i conti col fascismo non sono stati fatti. Fare i conti con il proprio passato totalitario, ovvero «superare il proprio passato», espressione che esiste in tedesco, ma non in italiano [p. 25] non vuol dire – precisa Scurati – scusarsi, ma misurarsi con quel passato e decidere, posti al bivio della scelta, di imboccare una strada con l’intento di cambiare il proprio destino. Meglio: correggerlo. Per farlo, parafrasando il colloquio drammatico tra Ivan e Alëša Karamazov [I fratelli Karamazov, parte II, Libro V, cap. 6: La rivolta], non si tratta di liberarsi della propria storia, bensì di prenderla in carico [p. 17].
Non è questa la strada intrapresa dalla destra italiana e dagli eredi italiani a destra di quella storia. Non solo perché a lungo in quella parte politica è prevalsa la nostalgia, come ha scritto di recente Cristina Baldassini, ma perché al bivio della storia, chi in questo momento si trova al governo anziché affrontare alla radice la questione del suo passato, ha fatto spallucce giocando il ruolo di presentarsi «redenti» senza «pagare pegno». Quel pegno consiste nel confrontarsi con quella parte del fascismo che esercita ancora fascino.
Questa parte del ragionamento di Scurati è tutt’altro che banale. Anzi è strutturale se vogliamo capire il nodo politico, culturale, antropologico e, in breve, mentale della destra che si sente in continuità con il fascismo storico. Sostiene Scurati con buona ragione, a mio avviso, che ci sono due volti del fascismo e dell’esperienza mussoliniana nella storia italiana. Il primo consiste nell’anima totalitaria e violenta di quell’esperienza. Con quel volto si è dichiarato formalmente di recidere i legami. Vuol dire avere dichiarato la propria lontananza dalla partecipazione convinta allo sterminio, almeno quello concentrazionario (mentre sulla violenza e le pratiche di sterminio nei territori delle colonie italiane, in Libia tra 1925 e 1931, in Etiopia tra 1936 e 1938 non si sono dette parole).Ma c’è un secondo volto di Mussolini, che Scurati denomina “populista”, con cui non solo non si vuol fare i conti, ma di cui si coltiva il culto [p. 32]. Questo secondo volto, sostiene Scurati, è un ingrediente essenziale dell’identità politica nel tempo presente. Non solo in Italia, aggiunge.
Un profilo culturale e politico di cui Scurati descrive sette tratti distinti che è bene tenere a mente. Li riassumo sinteticamente.
Il primo è costituito da una comunicazione fatta di frasi brevi – soggetto predicato complemento – in cui la tendenza è presentare la realtà secondo una logica secca bianco/nero. L’effetto è un appiattimento e l’eliminazione del terreno del dubbio. Un terreno che è proprio dell’esercizio democratico. Ogni forma di pensiero totalitario vive della copia secca amico/nemico [p. 56].
Il secondo è l’autopresentarsi come «io sono il popolo» che presume un profilo in cui l’antipolitica anziché essere un percorso di rifondazione politica democratica, diventa la chiamata a un polo in cui non sono previste idee a confronto. Anzi la sua trasformazione in religione politica [p. 63].
Il terzo si concretizza nella costruzione della propria immagine come di quella forza che realizza il pensiero e il sentimento delle masse e che perciò chiede alle masse l’affidamento del proprio destino. Un contratto in cui ci si consegna «chiavi in mano» al leader politico [p.66].
Il quarto è nella creazione di un sentimento diffuso di paura in nome del quale si legittimerebbe la richiesta di affidamento. Lo sfruttamento di questo sentimento era già stato indagato come fonte di totalitarismo più o meno novanta anni fa con argomenti molto solidi da Carlo Levi nel suo Paura della libertà [p. 71].
Il quinto, complementare al quarto, è nella creazione di un capro espiatorio verso cui riversare sia le paure che la rabbia [p. 75].
Il sesto è nella semplificazione della realtà conseguente anche al modello comunicativo e retorico del primo tratto (la frase senza dubbi né incertezze) [pp. 76-77].
Il settimo, e ultimo, nel presentarsi come supporto di cura a un cittadino smarrito che chiede protezione e a cui si garantisce di prendersi cura di lui. Qualcosa che assomiglia molto al modello comportamentale del piazzista di polizze assicurative [p. 78].
Tutto questo, afferma Scurati, rappresenta un rischio per la democrazia e per il suo futuro. La democrazia, precisa Scurati, è come la vite: un ramo fragile, che chiede una cura attenta, delicata, quotidiana, soprattutto e non terapie fondate sul bombardamento [p. 93].
Da ciò derivano alcuni interrogatovi tanto ineludibili quanto preoccupati: questa democrazia, presunta forte ma in realtà fragile, ha capacità di resistere? Come prendersene cura senza stravolgerla? Come favorire la partecipazione consapevole, e non la «delega in bianco» al «capo di turno»? Come evitare innesti e riforme che ne modifichino la natura anche in nome della sua presunta conservazione o del suo millantato rafforzamento?