Shoah e Nakba. Storie e traumi

27 Gennaio 2024

Il «Giorno della memoria» 2024 si preannuncia come un’occasione altamente conflittuale.

La carica emozionale che accompagna le immagini della guerra a Gaza avrà un peso rilevante. Allo stesso tempo questa scadenza avviene in un clima che registra un innalzamento dell’antisemitismo.

Se quella giornata si risolverà nel passaggio da un attore vissuto come vittima eterna, a un altro assunto come vittima eterna, non faremo nessun passo in avanti: semplicemente passeremo da una metafora ideologica a un’altra metafora ideologica.

In politica le metafore ideologiche non segnano nessun processo di riflessione culturale. Sono solo maschere per non fare i conti né con i problemi connessi con il tema; né con la storia; né, infine, con il presente. Segnano solo un comportamento commemorativo e/o celebrativo. Hanno valore perché formano una tifoseria, ma non inaugurano nessun percorso di responsabilità, anzi fanno di tutto per evitarla. Niente di innovativo né di eccezionale. Semplicemente la conferma, come scrive Eszter Kováts, che viviamo in un tempo in cui lo spazio attribuito ad attori a cui riconoscere il diritto di parola è molto più rilevante che discutere nel merito di ciò che dicono

Anche per questo è significativo misurarsi con i temi e le questioni proposte nel libro Olocausto e Nakba. Narrazioni tra storia e trauma a cura di Bashir Bashir e Amos Goodberg (il primo del Van Leer Jerusalem Institute e il secondo docente presso la Hebrew University of Jesusalem). Qui di celebrativo c’è molto poco. C’è invece, e moltissimo, di una possibile agenda culturale per domani, al netto del concordare o meno con il contenuto dei saggi che compongono il libro.

Un libro, scrive Alessandro Barchi nella presentazione della traduzione italiana (il libro originariamente è uscito nel 2019 per la Columbia University Press) fondato sulla “distinzione continuamente ripetuta tra empatia e identità: se da una parte risulta impossibile identificarsi completamente nell’altro, dall’altra emergono la necessità e l’urgenza di educare le coscienze all’empatia verso l’altro, verso la tragedia altrui” [p. 10]

Due sono i dati da prendere in esame.

Il primo dato più evidente è perché i testi che compongono il libro sono il risultato di un incontro e di un confronto tra intellettuali (quindici in tutto) che sono in minoranza in ciascuno dei due gruppi umani di rispettiva appartenenza (ebrei israeliani e palestinesi).

Talvolta quell’incontro è anche la ricostruzione sotterranea di un dialogo e un passaggio “in eredità” di sensibilità artistiche (è il caso del confronto tra Grundig e Abed Abdì che ricostruisce Tal Ben-Zvi [pp. 279-316]).

In alcuni casi i temi affrontati consentono un ritorno su questioni e argomenticv consolidati. È il caso per esempio della fisionomia etnica dell’esperienza del Partito comunista palestinese e poi in Israele tra periodo della Terza Internazionale e poi dopo il 1948 su cui scrive, già nel 1978, Ilan Greilsammer (da sempre convinto che solo studiando le minoranze si può comprendere i punti di crisi e la problematicità di qualsiasi sistema politico) e che qui è ripreso da Mustafa Khaba [pp. 211-232]; oppure Amnon Raz-Krakotzkin [pp. 121-136] che da molti anni lavora sul tema della cultura del bi-nazionalismo e che qui riprende molte delle riflessioni proposte per esempio nel suo Exil et Souveraineté (2007) o più recentemente Mishnaic Consciousness,(2022).

Il secondo dato è che quell’incontro è possibile, culturalmente ed emozionalmente, perché a monte stanno due elementi che entrano in gioco ma su cui pure tutte le voci protagoniste convergono.

Confrontarsi con i saggi contenuti in questo libro implica prima di tutto misurarsi su questo secondo dato perché è quello che consente di comprendere l’offerta di contenuti dell’insieme dei saggi che lo compongono.

Questo secondo dato si sostiene su due criteri: da una parte sta una questione concettuale e di metodo storiografico; dall’altra una questione di visione.

Considero il primo aspetto

Nel 1977 lo storico Edoardo Grendi pubblica sulla rivista “Quaderni storici “ (n. 35) un saggio dal titolo Micro-analisi e storia sociale (in rete è leggibile qui una versione francese) che possiamo considerare l’origine concettuale dei molti saggi che compongono Olocausto e Nakba.

In quel saggio l’idea di Grendi (che con Carlo Ginzburg e Giovanni Levi stava per aprire il laboratorio della “Microstoria”) era quella di ridurre in scala gli eventi scomponendo le vicende storiche in una serie di “storie caso”; ciò avrebbe permesso un utilizzo delle fonti libero da ogni pregiudizio macro-storico. L’attenzione, pertanto, doveva essere rivolta alle multiformi realtà del mondo contadino, alla famiglia e più in generale a tutte le classi inferiori, non direttamente coinvolte nella gestione del potere statale. L’oggetto e l’obiettivo di Grendi stavano nel proporre il tema dell’analisi sulla piccola scala – dimensione del villaggio, del quartiere, biografia di uno sconosciuto – per affrontare e scavare, con rinnovata sensibilità, problemi di “grande scala”.

Questa dimensione di «giochi di scala» è fondamentale per comprendere il percorso concettuale che sta dietro la gran parte dei saggi che compongono questa antologia.

Consideriamo ora il secondo aspetto. Per molti lati lo si può far risalire a una nota che Edward Said scrive nel novembre 1997. In quel testo dal titolo Bases for Coexistence, Said scrive in un passaggio cardine della sua riflessione:

“...tra ciò che è accaduto agli ebrei durante la seconda guerra mondiale e la catastrofe del popolo palestinese va stabilito un nesso, ma tale nesso non può essere creato solo a parole, o come argomento per demolire o sminuire il vero contenuto dell’Olocausto quanto del 1948. Essi non sono identici tra loro, né l’uno né l’altro giustificano la violenza presente, e nessuno dei due va, infine, minimizzato. C’è abbastanza sofferenza per tutti”.

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Su questo tema, per esempio, esplicitamente riflette Nadim Khoury nel suo saggio [pp. 163-183].

L’antologia si regge su quel criterio «emozionale», da una parte, e su quello storiografico metodologico dall’altra.

Quattro sono le sezioni su cui si articola il volume.

Nella prima sono affrontati i nodi culturali, le risorse concettuali per favorire una nuova sintassi affinché Olocausto e Nakba possano essere pensati insieme in modo costruttivo e non conflittuale.

La seconda si concentra su come ciascun gruppo ha preso (e più spesso non ha preso) consapevolezza della tragedia e del trauma dell’altro.

La terza ha per tema il percorso di domande e di visioni che la narrativa (molto più della saggistica) è stata in grado di assumere per affrontare i significati e i simboli traumatici che si sono prodotti nella relazione tra Olocausto e Nakba.

La quarta, infine, è forse quella concettualmente e umanamente più intrigante di tutte. Il suo oggetto [pp. 375-446] è un solo testo – il romanzo Children of the Ghetto dell’autore libanese Elias Khoury pubblicato in arabo nel 2016. L’analisi di quel testo, nei due saggi di Refqa Abu-Remaileh, docente di arabo presso la Freie Universität di Berlino, e di Raef Zeik, dell’Università di Tel Aviv, affronta non solo una storia particolare, sia per il montaggio che per lo scavo interiore delle voci protagoniste, ma anche con che linguaggio, con quale capacità di scavo la narrativa palestinese si sia rapportata al tema dell’Olocausto, nonché ciò che rimane, dei silenzi o degli imbarazzi.

La storia che narra Khoury è quella del suo incontro a New York con un uomo palestinese di nome Adam Danoun. Improvvisamente Adam Danoun muore e Khoury entra in possesso dei suoi taccuini incompiuti che raccontano una storia di espulsione, di fuga e di sopravvivenza in esilio, e che vede il protagonista passare dall’elaborazione del passato alla sua rivisitazione e reinterpretazione, e infine al ripensamento e alla reinvenzione del passato. Un processo che coinvolge e rimanda a tutti i percorsi di esilio, ma che la storia del testo rende ancor più significativa perché i processi emozionali, il rapporto tra luogo perduto e nostalgia, il desiderio del ritorno ricalcano lingua, immaginario, espressioni metaforiche, sogni che parlano all’esperienza ebraica.

Questo tratto di scambio/sovrapposizione è particolarmente significativo nel testo di Yehuda Shenhav [pp. 419-446] che è il traduttore in ebraico dei romanzi di Elias Khoury e che in questo caso propone una riflessione molto profonda non tanto sul complesso della storia o sull’intreccio ma sulla dimensione dei silenzi che accompagnano la storia di quello sradicamento. Uno scavo che le domande del traduttore aiutano a effettuare, perché connesse non con ciò che non si vede ma con ciò che non si vuole vedere. L’effetto è che riempiamo di parole il nostro presente, magari anche su temi da cui siamo presi violentemente, ma alla fine tutto appare come una strategia, voluta o casuale, con cui evitiamo accuratamente di prendere le misure del reale. Quel percorso si interrompe, almeno temporaneamente, quando siamo costretti a misurarci con ciò che abbiamo sistematicamente evitato di affrontare. Allora l’unica reazione è il silenzio. È la condizione in cui trova a misurarsi Yehuda Shenhav e che nel suo saggio restituisce con grande finezza.

Dentro c’è una condizione di luoghi di confine, di Rimlands, come richiama Mark Levene [pp. 77-103] ovvero di quei territori marginali rispetto ai grandi aggregati che spesso diventano – nel corso della prima metà del’900 tra le guerre balcaniche di inizio secolo fino agli anni 40 – “il luogo primario di una sequenza ripetuta di genocidi o di pulizie etniche” [p.78].

Lo stesso vale per gran parte dei testi che compongono questo volume: dal saggio di Alon Confino [pp.187-209] che affronta la storia del rifiuto di una casa appena abbandonata da palestinesi in fuga da parte di una coppia di nuovi arrivati nel 1948, perché quella condizione immediatamente gli ricorda le proprie storie di fuga; alle riflessioni di Omer Bartov [pp. 251-275] che propone una raccolta di storie, quello che si potrebbe chiamare un archivio delle fughe e dei racconti di fuga. 

“Siamo diventati testimoni storici, non perché abbiamo visto le cose, ma piuttosto perché le abbiamo ascoltate. Siamo nati dopo questa guerra [la guerra del 1948, ndr] e quindi ne abbiamo portato il fardello”. 

Sono le parole dello scrittore palestinese Salman Natour che la storica Yochi Fischer, vice direttrice del Van Leer Jerusalem Institute (ente di ricerca e di discussione pubblica che sul tema della convivenza è impegnato da molto tempo), cita all’inizio del suo saggio [pp. 233-249]. Il tema è che una pratica riconciliativa è possibile solo se si scava nei sentimenti, che non sono i ricordi. Per ciò scrive:

“Le parole di Natour rivelano i segni della Nakba nel corpo della generazione dei testimoni storici, se scrivono di un dolore famigliare. Le medesime parole avrebbero potuto essere scritte dalla generazione degli ebrei, testimoni storici dei racconti della Shoah con i suoi profughi e il suo dolore. Anche questa generazione ne porta il peso. Una visita nei sogni di Salman Natour e nei miei sogni, in quanto figlia di un sopravvissuto alla Shoah, potrebbe rivelare immagini simili di paura, di case vuote, di morte, di esilio. Ciò che c’è di simile sono le memorie occasionali sotto forma di flashback di pericolo e di silenzio, non gli eventi stessi. Sussistono differenze fondamentali tra gli eventi, che non sono né simmetrici, né comparabili. C’è anche una grande asimmetria tra la responsabilità degli ebrei rispetto alla Nakba e l’assenza di responsabilità dei palestinesi per la Shoah. Tuttavia, ciò che conta non sono i parallelismi tra gli eventi, ma la loro eco nelle menti e nei corpi di israeliani e palestinesi, il dolore degli sfollati, l’annientamento delle comunità, l’esilio e i profughi” [p. 233; il corsivo è mio].

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