Quale futuro per Israele?
La situazione nel conflitto Israele-Palestina dopo il 7 ottobre 2023 è cambiata in maniera irreversibile. Qui mi occupo di Israele.
La legittimazione che ha Netanyahu (e che a mio avviso ancora avrà se e quando sarà finita l’attuale azione militare), rinvia a una crisi, che non è nata il 7 ottobre 2023. L’obiettivo che mi propongo è indicare alcuni elementi che, a mio avviso, spiegano questa crisi. Prima di tutto l’evento, poi i numeri e infine i fatti.
L’evento
È stato detto che il 7 ottobre è avvenuto un pogrom. È vero, per certi aspetti; per altri è l’equivalente di un assassinio mirato indiscriminato. Rientrano nel primo termine gli stupri e le violenze sui corpi. Fanno parte del secondo termine l’intenzione di uccidere quante più persone possibile. Insieme c’è un terzo obiettivo, politico: possedere il corpo del nemico. Come? Imprigionando persone e trasformandole in ostaggi. Ostaggio è un nemico di cui si possiede il corpo. Ma, contemporaneamente, attraverso di lui, si possiede anche la reazione dell’avversario. Il 7 ottobre mattina alle 6.30 le brigate Izz al Din al Qassam attaccano. Il loro obiettivo strategico si fonda su una logica: Israele non potrà fare altro che rispondere all’attacco. Così avviene. Ma non è una scelta. Fa parte del meccanismo automatico.
I numeri
Da una parte 1400 morti, 250 rapiti e stupri consumati su donne.
Dall’altra migliaia di morti per attacchi militari in risposta a quei fatti del 7 ottobre mattina.
I fatti
Da una parte circa un milione di palestinesi che hanno abbandonato le loro case.
Dall’altra circa 400.000 israeliani che hanno abbandonato le loro case e che vivono alloggiati in case di fortuna.
I primi probabilmente non torneranno alle loro case attuali, i secondi forse ci torneranno. In ogni caso a oggi nessuno dei due gruppi in fuga dalle proprie case sa se e quando ritornerà a casa sua.
Qualcuno, a proposito del 7 ottobre 2023, ha scritto di non cercare di stare dalla parte giusta e ha aggiunto che la cosa più equanime, la posizione più intellettualmente onesta, è riconoscere che hanno torto tutti.
Ci sono molti elementi che condivido in quelle riflessioni, per esempio in quelle esposte da Stephen Eric Bronner, da Alberto Cavaglion e da Stefano Levi Della Torre su cui credo varrebbe la pena riflettere.
Ci sono sfide che attendono coloro che pensano di collocarsi a sinistra che mi sembrano non assunte. Una di queste sta nell’individuare scenari di futuro capaci di rispondere alle linee di «lunga durata» in atto da tempo. Quegli scenari non saranno confortanti. Anzi.
La realtà prima del 7 ottobre
Una crisi politica dentro Israele che dura da almeno 5 anni, che nell’ultimo anno è sboccata nelle manifestazioni del sabato sera contro la riforma giudiziaria proposta da un governo di estrema destra che è l’effetto di 5 elezioni che hanno approfondito la crisi, o il senso di smarrimento producendo un vuoto politico in cui l’alternativa è tra destra estrema e destra. La sinistra (qualsiasi sinistra) essenzialmente in Israele ha perso le sue opportunità di proposta politica da almeno venti anni e il pensiero laico con lei.
Un’opposizione politica non è solo protesta, ma deve essere soprattutto proposta. Andare in piazza dice che c’è un’opposizione, ma non dice né che ci sia una classe politica alternativa, né che ci sia una proposta alternativa. La forza di Netanyahu sta anche, non solo, in questo vuoto di cui può solo beneficiare.
Effetti della crisi in Israele
Questa crisi ha prodotto vari fenomeni che indicano una crisi ancora più profonda.
Ne propongo due che mi sembrano rilevanti: da una parte la trasformazione economica; dall’altra i flussi in uscita da Israele di cittadini israeliani.
L’economia di Israele da tempo è passata da una dimensione concentrata su beni materiali, a una fondata sullo sviluppo hi-tech.
Significa composizione della società e delle professioni diverse, ma soprattutto significa aumento esponenziale della forbice delle differenze sociali con un innalzamento del costo della vita per molti non sostenibile.
Oggi il livello di vita in Israele è molto alto e costa molto, e questo costituisce una delle caratteristiche di scelta e di pressione indiretta all’insediamento nei territori occupati dove, per esempio, comprare casa costa molto meno che non a Gerusalemme o a Tel Aviv o anche Beer sheva.
A questo si è aggiunta una contrazione dello Stato sociale che ridiscute e riscrive il patto civile e che per farlo deve rinnovare il concetto di cittadinanza, ripensare le forme della rappresentanza, ridefinire i rapporti tra poteri dello Stato. Significa che continuare a vivere in Israele, per una parte consistente di giovani generazioni, è porsi a un bivio.
Qui si apre il secondo fenomeno.
Da anni una parte non indifferente di giovani israeliani decide di andare via da Israele e cercare una possibilità altrove. Più o meno vivono oggi fuori da Israele circa mezzo milione di israeliani. Non è un dato numerico indifferente (proporzionalmente è come dire che in Italia andassero via 6.000.000 di persone).
I dati dicono che 300.000 israeliani (tra i 25 e i 45 anni), sono tornati in queste settimane. Appunto «sono tornati» non come nuovi residenti, ma in funzione di difesa. Per molti di loro la scelta dell’altrove, anche in questo ritorno, non è in discussione. Questo dato non è marginale, simbolicamente prima ancora che numericamente. Al di là della propaganda, una parte non marginale – certamente una minoranza, ma non una minoranza trascurabile – ritiene che il suo futuro non si giochi in Israele. Non mette in discussione la sua lealtà verso lo Stato, ma è convinta che il suo progetto di vita non si giochi più lì. Questo simbolicamente per Israele rappresenta una sconfitta pesante. Più pesante del colpo inferto da Hamas, perché indica la rimessa in discussione di un progetto, esistenziale e emozionale prima ancora che politico.
Il post-guerra in Israele
Quale che sarà l’esito della guerra a Gaza (la messa in silenzio di Hamas mi sembra un dato alquanto improbabile), resta sul piatto questa crisi profonda, indipendentemente dal processo politico o di riscrittura dell’identità politica post-guerra.
Non è detto che il dopo sarà l’apertura di una nuova fase, così come la crisi profonda di una classe politica che non c’è non indica che ci sarà dopo questa crisi un dopo Netanyahu. Niente in politica è automatico. Ma la scelta politica per Israele sarà confermare la propria esistenza e farlo segnando sempre più la separazione con il mondo intorno. Anche se la pressione esterna e internazionale sarà verso “due popoli, due Stati”, quella scelta, ammesso che abbia gambe per camminare, sarà fondata non su un processo di cooperazione, ma su uno di separazione.
Quel processo avverrà, eventualmente, solo costruendo uno Stato palestinese sub-judice, di cui qualcuno dovrà farsi garante sulla base di una nuova “guerra fredda”. Quel confine sarà l’equivalente della “cortina di ferro” di vecchia memoria. La sua forza di qua e di là di quella cortina, per gli israeliani come per i palestinesi, sarà nella mobilitazione politica contro una temuta «sostituzione etnica». Del resto, non è questo il comune sentire di questo nostro tempo?
Quanto sopra non vale solo per Israele.
I palestinesi
La natura di questa crisi riguarda anche il mondo complesso e tormentato dei palestinesi. A Ramallah come a Gaza. Io non ho le competenze per affrontarlo. Sarebbe importante che qualcuno che le ha ne scrivesse prescindendo dal vittimismo. Il vittimismo, quando diventa linea politica e identità politica, difficilmente produce una politica razionale e democratica.
Per ora sarebbe già un passo avanti vedere la realtà politica di Gaza per come è. Non basta definirsi rivoluzionari per esserlo: quando un governo si impossessa di un territorio, non consente opposizione, non dà spazi a qualsiasi altro attore politico concorrente, il tipo di regime che esprime appartiene a una categoria ben precisa: si chiama totalitarismo.
Magari qualcuno è convinto che questo dipenda da una condizione eccezionale e che ottenuta la libertà tutto questo cambierà.
Non credo.
Agli entusiasti che vedono in Hamas la riscossa degli oppressi e si scaldano per la rivoluzione raccomando di riaprire e leggere con calma le pagine che Rosa Luxemburg nell’estate 1918 dedica al futuro del potere sovietico nel suo La rivoluzione russa. Per capire il futuro, allora, era sufficiente interrogare il presente senza farsi dominare dall’ideologia. Non era necessario vedere spuntare Stalin all’orizzonte, per capire come sarebbe andata.