La Destra e l’Europa che verrà 

11 Giugno 2024

“I francesi hanno emesso il loro verdetto, ed è senza appello”. Sono le parole con cui ha esordito Jordan Bardella, il giovanissimo leader del Rassemblement National, domenica 9 giugno sera, pochi minuti dopo l’annuncio dei primi risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Riportando il 31,34% dei voti espressi, il Rassemblement National ha ottenuto una vittoria storica, che ha avuto come effetto un terremoto politico con l’annuncio da parte di Emmanuel Macron dello scioglimento dell’Assemblea nazionale e la convocazione delle elezioni anticipate il prossimo 30 giugno.

Ci sarà tempo per commentare quel risultato. Il dato di domenica sera però parla chiaro: Rassemblement National ha avuto un aumento oltre 6 punti percentuali rispetto al risultato delle europee del 2014, la volta in cui aveva avuto il consenso più alto (allora il consenso era al 24,9%). 

Questo dato non parla solo della Francia. Parla a tutta l’Europa, ma soprattutto parla della condizione culturale, emozionale, di noi europei oggi, ovvero esprime uno stato d’animo profondo. In breve: non è una sorpresa; più propriamente, si tratta di una rivelazione. Come tutte le rivelazioni non è un incidente di percorso, indica un processo in corso e contiene alcuni aspetti che dovremo considerare come strutturali nel tempo a venire.

La premessa è che questo risultato allude alla fine dell’Europa socialdemocratica. Ma soprattutto sancisce un’egemonia culturale, politica, e anche dell’immaginario (ovvero del linguaggio) delle destre europee e rende probabilmente chiaro un passaggio politico d’epoca che s’è compiuto.

Questa egemonia s’esprime attraverso un sentimento di marginalizzazione dell’Europa da parte dell’opinione pubblica, che si è espressa secondo due modalità: un alto tasso di astensionismo, che prima di tutto indica la fine del fascino di un voto per il cambiamento che sceglie le opzioni su cui s’è concentrata l’offerta politica delle socialdemocrazie; e poi in un voto di maggioranza dato all’offerta politica di destra.

Prima modalità. Chi ha scelto di non votare, ha semplicemente detto che non crede all’offerta che le socialdemocrazie propongono perché non rispondenti ai loro bisogni o perché ritiene quelle proposte inadeguate alle sfide del tempo presente.

Queste inadeguatezze riguardano le politiche volte alla transizione ecologica, le politiche d’integrazione o di assorbimento dei processi migratori, le politiche di coabitazione o di carattere pluralista volte a instaurare nelle società europee pratiche interculturali. In ogni caso, tanto le ricette complessive delle socialdemocrazie che quelle che proseguono nel solco inaugurato con l’ipotesi della “terza via” avviata negli anni ’90, ai tempi del “cappotto socialdemocratico” nei governi dell’UE, appaiono con questo voto inadeguate, per cui sia in Germania come in Austria gli elettori hanno preso atto della fine di quel ciclo. Analogamente le ricette quelle incentrate sul vocabolario ecologista, rappresentate dai movimenti verdi, non sono state attraenti per l’elettorato che in gran parte ha deciso di non votare.

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Quell’elettorato non ha solo detto che è sfiduciato, ha anche aggiunto che il messaggio che riceve quotidianamente da quella parte politica è decisamente inadeguato. Non risponde alle sfide di questo tempo.

Seconda modalità. Il voto convinto verso destra, e verso le culture di destra a tradizione liberale, non è tanto un voto antieuropeo, è soprattutto un voto che propone un’altra idea di Europa. Ha una triplice percezione. Pensa prima di tutto che la propria realtà nazionale di appartenenza abbia subito un «deperimento» spirituale, prima ancora che fisico; in secondo luogo ritiene che ogni realtà nazionale sia per questo oggetto di un declassamento; inoltre, ed è la terza questione, si reputa che sia in corso uno spogliamento dell’Europa rispetto agli imperi emergenti. In questo senso l’idea di Europa contenuta in questo voto reputa insufficiente la risposta agli Stati Uniti e alla sfida della nuova potenza mondiale “mangiatutto”, ovvero la Cina. 

Sceglie perciò un’idea di Europa che non vuole corrispondere alla narrazione, alla funzione e al progetto d’integrazione che ha segnato il tempo del successo dei “socialdemocratici”. Quel tempo era espresso da una condizione di sfida internazionale che avveniva con la sensazione di una vittoria certa. Erano gli anni ’90, la Guerra fredda era finita, e sul piano internazionale dominava allora un solo attore politico. Se ci fermiamo a quel tempo il confine meridionale dell’Europa, ovvero il Mediterraneo, si presentava come il luogo a cui l’Europa guardava come un terreno su cui esercitare una propria governance economica, politica e sociale.

Il processo di transizione verso la seconda generazione di realtà post-coloniali si pensava allora potesse essere politicamente governabile: si trattava di contenere le sfide rappresentate dalla Libia di Gheddafi, d’accompagnare il processo di normalizzazione del confronto politico e culturale in Algeria contenendo la sfida dei Fratelli musulmani e di lavorare infine per favorire le autocrazie “amiche” (in Arabia Saudita, negli emirati, in Egitto); non ultimo l’idea di rafforzare il quadro Nato investendo ancora sul fronte della Turchia. Il processo di pace Israele-Palestina, che si presenta come possibile con gli accordi di Oslo nel 1993, stava all’interno di questa scena, anche se il percorso che si inaugurava allora a Barcellona avveniva nelle settimane immediatamente successive l’assassinio di Rabin (3 novembre 1995); un avvenimento che oggi vediamo come fine di quel processo.

In quel mese a Barcellona si sancisce un patto per lo sviluppo del Mediterraneo che aveva come obiettivo la governance Nord-Sud a partire da un controllo politico europeo che stimava essere una garanzia, una volta sconfitto il processo dissolutivo nella ex-Jugoslavia.

Da allora il processo è andato in direzione ostinatamente contraria, e la sensazione è quella di vivere oggi un continente senza una guida, privo di politiche di emancipazione e di distribuzione di benessere. Un continente attraversato da una delusione di futuro, che non chiede se non certezze e ritorno alla propria forza che quella scelta politica ha abbandonato (“Make Europe great again”, si potrebbe dire, facendo la parafrasi a uno slogan che rischia di tornare attuale negli Stati Uniti tra pochi mesi in novembre).

Se le cose stanno così, questo voto non è “emozione”; ha piuttosto un carattere di periodo, annuncia un tempo lungo, ed esprime sia un’egemonia culturale d’una parte politica dell’Europa, quanto un vuoto di proposta da parte della parte opposta. In altre parole si tratta di un voto politico. Non è un urlo. Il minimo che possiamo dire ora è che ci aspetta una lunga traversata.

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