Uno streaming interminabile / Ruspa e appretto, il Matteo perfetto

22 Maggio 2018

Al momento Matteo Salvini è al centro di una raffigurazione perfetta, quella che riconnette il «popolo» al «sano pragmatismo», contrapponendo l’uno e l’altro alle aborrite élite (il termine ha ripreso quota, dopo una lunga stagione di fortune per l’espressione «casta») e alla loro parassitaria distanza dagli interessi, dai bisogni e dalla verace quotidianità della società “qualunque”. Non è quindi un caso se si stia giocando le carte, cercando di non bruciarle, con il Movimento Cinque Stelle e, soprattutto, con il suo antagonista, nonché alter ego, Luigi Di Maio. La loro, infatti, è una complementarietà conflittuale che li obbliga, condividendo la stessa piattaforma generazionale, prima ancora che politica, a una sorta di abbraccio fatale. Non necessariamente per se stessi ma per chi è destinato a rimanervi in mezzo, ossia gli italiani. Il terreno comune è chiaro: partendo dagli studi, da entrambi interrotti (poiché abbagliati dal bisogno di fare «altro», nella silente convinzione che non sia un titolo a fare la differenza ma anche perché bisognosi di affrancarsi da una routine scarsamente coinvolgente), per arrivare alla comprensione che l’unico ascensore sociale ancora in movimento sia la politica, in una Italia invecchiata, infiacchita, ripiegata su di sé, simile – dopo l’ultraventennio berlusconiano di paludamento – a una diva di medio calibro, inesorabilmente sul viale del tramonto. La fortuna di entrambi, al netto delle rispettive differenze, è di essersi incrociati nel mentre si stavano esaurendo i colpi residui per le vecchie cariatidi della politica, quelle che erano sopravvissute al declino della «prima Repubblica» o si erano rigenerate a suo immediato ridosso.

 

Poiché gli anni Ottanta e Novanta, che fanno da incubatore di ciò che oggi viviamo come un’onda lunga, quasi inesauribile, hanno sancito non solo la «morte delle ideologie» ma anche la scomparsa delle culture politiche. Anche da ciò il discorso, facile e spicciolo, della «rottamazione», condito dall’obbligato rimando a un nuovo ciclo di «riforme», l’una e l’altro vuote icone a fronte di un cinico opportunismo che viene spregiudicatamente sbandierato come concretezza. Ciò che un tempo sarebbe stato denunciato come un grave limite, il vuoto incorniciato da un profluvio di parole, è invece oggi il cuore stesso della proposta pentastellata e leghista: una speranza da poco, un’illusione purchessia, poiché molti elettori sembrano necessitare di entrambe, quasi a volere protrarre ancora per un poco il momento della verifica con il principio di realtà. Lo aveva capito anche un altro Matteo, il Renzi di Rignano, ma si è fatto mettere fuori gioco da se stesso, lasciando un insperato campo di opportunità per i suoi avversari e concorrendo a rottamare soprattutto il suo partito. Lo ha compreso meglio di tutti, almeno per il momento, Emmanuel Macron, che in Francia ha creato in un anno una lista del presidente, l’ha portata alla vittoria e adesso, per evitare di cadere nelle paludi della Quinta Repubblica, gioca una quotidiana «guerra di posizione», frangiando alleanze e attaccando sodalizi consolidati, nella convinzione che il futuro, a partire dal suo, stia in un «oltre», laddove la politica deve arrendersi all’evidenza dell’esorbitanza e della tracotanza della globalizzazione, capace altrimenti di svuotarne qualsiasi potere residuo.

 

 

Non c’è partita, al riguardo: il nuovo ceto politico nasce da questo riscontro, misurando l’incolmabile asimmetria che la ridislocazione del potere ha creato tra gli «eletti dal popolo» e i luoghi di concentrazione della ricchezza socialmente prodotta. Uno iato che rende inefficaci le politiche redistributive di matrice keynesiana, alimentando semmai la polarizzazione tra quel segmento della popolazione premiato dal cambiamento e la parte restante, invece marginalizzata. Dopodiché, meglio chiarire un concetto, che è valso anche per l’ultraventennio berlusconiano: più di Matteo Salvini si mettono in rilievo incongruenze e discontinuità, più se ne denuncia la natura di presunto parvenu nel campo della politica (accusa per nulla vera), meglio si mettono in rilievo i suoi “difetti”, più si gioca a suo favore, permettendogli di toccare palla e di portarla costantemente nel campo avversario. Quest’ultima è la cosa che gli riesce alla grande, non avendo nessun progetto che non sia il ripetere assunti tanto rassicuranti quanto inconsistenti, a partire dal vecchio adagio: «stiamo lavorando per…» (la frase può essere completata a piacimento, in quanto l’effetto è sempre lo stesso, ossia di tenere inchiodati gli interlocutori a una sorta di eterno presente, in tale modo esentandosi dall’obbligo di verifica). Molte delle cose che a quanti non lo votano dispiacciono, sono peraltro la ragione per cui il suo elettorato non solo gli ha confermato la fiducia ma, tendenzialmente, potrebbe addirittura ampliargliela. Così le previsioni basate sui sondaggi, i quali configurano un trend di sicura crescita qualora il «ritorno in campo» di Silvio Berlusconi non dovesse invece segnare una qualche decelerazione. 

 

Matteo Salvini, d’altro canto, è nella sua involontaria indole, un “salvatore”. Ha recuperato il marchio di un partito politico altrimenti votato all’estinzione, o comunque all’irrilevanza, trasformandolo da riserva in panchina a giocatore di punta. La Lega è tornata a nuova auge dopo il declino della gestione familista del suo fondatore e capo indiscusso Umberto Bossi. La straordinarietà del suo operato sta nel fatto che il segretario della Lega è riuscito ad affermarsi a prescindere – quindi malgrado – i simbolismi maniacali e ossessivi, gli identitarismi tribali di cui quel partito si è sempre nutrito, a tratti quasi antropofagicamente. Salvini ha epidermicamente compreso l’antropologia elementare di una parte dell’elettorato, quello conservatore, tangenzialmente maggioritario, soprattutto nei periodi di crisi o di trasformazione del Paese, rilanciando il brand leghista su un tema assoluto e insindacabile, quindi reiterativo nel suo essere collante interclassista: la «sicurezza». Lo ha declinato in misura non nuova ma con inedita potenza e autorevolezza, transitando dalla paura per un presente incerto, e un futuro incomprensibile, in denuncia esorcistica delle «minacce» odierne. L’ossessione sugli «sbarchi», l’irrisione del «buonismo» borghese, gli attacchi contro una «sinistra radical chic» insediatasi ai Parioli o nelle zone urbane e metropolitane della gentrificazione, l’angoscia da «invasione» e da «espropriazione» danno corpo a uno spettro tangibile, in qualche modo disegnandone i confini e rendendolo meglio metabolizzabile nell’immaginario collettivo. Ma Salvini è anche il predestinato, se l’anziano capobranco di Arcore non troverà adeguati strumenti per fermarne la crescita di credibilità, a essere l’erede del composito patrimonio elettorale del centro-destra italiano.

 

Che è il vero perno di ciò che resta, nella politica italiana, della capacità di esprimere i sentimenti diffusi tra la popolazione, aspirando egli anche a catalizzarne i risentimenti in via di condivisione. Lo spazio della destra, in Italia, in Europa, nei paesi a sviluppo avanzato, si è ampliato a dismisura negli ultimi trent’anni, arrivando a coprire buona parte della politica medesima. Si tratta di un’area fatta di tantissimi penultimi, quelli emersi dalla crisi radicale del ceto medio, dalla ristrutturazione sociale non solo delle periferie ma anche dei centri urbani. Sono milioni di individui che lottano contro la retrocessione, ribaltando la direzione di marcia del loro conflitto individuale dall’«assalto al cielo» della ricchezza a quello del «rifiuto degli ultimi», concreta simbolizzazione di ciò che potrebbero tornare ad essere. È un territorio che esige di essere perimetrato e difeso, composto com’è da soggetti che subiscono il mutamento, si sentono spossessati dall’imprevedibilità e dall’incalcolabilità che esso introduce nelle esistenze quotidiane. È lo spazio di un neoconservatorismo che si alimenta di angosce e rabbia. La matrice comune è il senso di impotenza. Anche per questo la retorica dei «confini sovrani», della lotta alle burocrazia e agli apparati «senza volto», del rifiuto delle «tecnocrazie», ovvero del rendere osservabile, misurabile e quindi in qualche modo tangibile la direzione della trasformazione, magari illudendosi di fermarla con la propria forza, funziona come tonificante per molti. Si tratta di rinazionalizzare le masse; ragion per cui secessione e federalismi non servono a nulla.

 

Al momento, quindi, Matteo Salvini gioca la sua partita su due tavoli. Il primo è quello del governo, di cui probabilmente farebbe in questo momento a meno, trattandosi di un onere al quale non può sottrarsi ma che rischia di inchiodarlo a responsabilità immediate, alle quali preferirebbe invece derogare. La sua mitopoiesi, infatti, è incompiuta, richiedendo il regolamento di conti a destra, con il parricidio liberatorio che dovrà consumarsi, prima o poi, contro Berlusconi. Non si tratterà solo di un’abile sostituzione ma della creazione di una nuova mitografia che, ancora una volta, dovrà tuttavia incentrarsi sull’auto-raffigurazione scenica del corpo del capo: non è un caso se Salvini già dal 2013, anno della sua elezione a «segretario federale» della Lega, si presenti come un ruspante, giovanilistico, vitalista e moderno attore del palcoscenico politico. Intercetta lo spaesamento degli elettori rassicurandoli sul suo «buon senso»; si appella ai comuni pregiudizi, non importa quali siano, legittimandoli in quanto pensiero condiviso e quindi autocertificato; vellica i bisogni di comunicazione unidirezionale e di visibilità narcisista ricorrendo ossessivamente allo smartphone, feticcio assoluto della nostra contemporaneità; pettina i desideri di immedesimazione accompagnandosi, al pari di un qualsiasi sportivo di successo (l’equazione tra politica e sport è stato uno degli assi fondamentali del berlusconismo), a una donna dell’arena televisiva, la cui devozione domestica è esibita come una sorta di virtù mariana; compare abitualmente sui rotocalchi popolari, poiché la sua vita deve manifestarsi come un romanzo d’appendice, comunque sempre a puntate. Il secondo tavolo è quello della natura di una nuova leadership della destra italiana che, in prospettiva, potrebbe rivelarsi il vero obiettivo su cui misurare il tutto per tutto. Il campo sul quale il sovranista Salvini sa di doversi muovere è infatti lo spazio dell’Europa.

 

Di una nuova Europa, fuori dall’ordine dell’Unione ma interna al populismo, matrice della politica presente e a venire. Poiché è da lì che arriva la spinta propulsiva per una «destra delle cose e dei fatti» che, altrimenti, se lasciata a sé, nel vuoto del declino italiano, di idee e di sollecitazioni rischia di offrirne poche o nessuna. Il rischio concreto è che quindi le prossime elezioni siano dominate dal refrain ossessivo della contrapposizione tra l’«eurocrazia» insensibile, cinica e brutale e l’«Europa dei popoli», invece flagrante, concreta e sincera. L’abbattimento del conflitto sociale, infatti, si gioca anche sul fantasma della lotta tra popolo ed élite. Una sorta di tempesta perfetta, sul piano simbolico, poiché del tutto avulsa dai riscontri di fatto e, quindi, destinata a essere ripetuta come una sorta di meta-narrazione risarcitoria. Il tavolo della trattativa, inscenato in questi giorni tra i due fratelli concorrenti per la redazione del «programma di governo», sta già di buon grado dentro questa costruzione scenica. Alla mediazione intra moenia si accompagna la mediatizzazione con il grande pubblico, quello che osserva quotidianamente la politica dallo spioncino televisivo. Lo spettacolo – di ciò si tratta, non di altro – è quello della televisione dei ragazzi, volendosi rivolgere ad un elettorato che deve agire e reagire come se vivesse in una eterna adolescenza. Una sorta di streaming in differita, dove un gruppo di nuovi notabili si raffigura nella qualità di consorzio all’opera per il bene comune, recitando dietro le quinte tra bizantinismi e doroteismi assortiti. «Sono come noi», Salvini è «uno di noi» poiché il noi pluralistico e democratico rischia di perdersi una volta per sempre tra i flutti dell’insignificanza dello stesso essere plurali. L’unica cosa che invece potrebbe garantirci di rimanere umani.

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