Per questo c'è chi la odia / La scorta a Liliana Segre

8 Novembre 2019

La decisione assunta dalle autorità preposte, ovvero del Comitato provinciale per la sicurezza e l'ordine pubblico di Milano, di garantire alla senatrice a vita Liliana Segre una scorta permanente, secondo i parametri previsti in casi di minaccia o rischio per la persona, non può di certo sorprendere. Giunge infatti dopo un'escalation di vituperi, di insulti, invettive che, peraltro, per chi conosce bene la senatrice, sa che non datano da oggi. L'assedio del vilipendio, dell'offesa ma anche delle concrete intimidazioni, quelle che potrebbero – prima o poi – tradursi in reali aggressioni, se non peggio, arriva essenzialmente da due fronti: quello del web, dove il crescendo di ostilità sta generando una sorta di fronte dell'avversione nei confronti della sua persona fisica; quello della destra radicale, che da tempo tambureggia contro la figura della testimone, ossia ben prima che essa fosse nominata senatrice a vita. I due orizzonti di fatto si saldano nel momento in cui concorrono a delegittimare sia la persona che il suo operato in quanto tali. Una delegittimazione totale, esistenziale, che esprime non solo avversione conclamata per le idee e l'azione pubblica di Liliana Segre ma anche, in una miscela ridondante e nausebonda, per la sua storia come per la sua immagine, l'una e l'altra lette in maniera capovolta rispetto alla realtà. Ossia come titolare di immeritati privilegi, ottenuti attraverso la manipolazione o comunque la strumentalizzazione del suo tragico passato di sopravvissuta.

 

In questa vera e propria zona grigia dell'odio, dove risentimento e invidia si incontrano, e si coniugano, con negazionismo (“si è inventata tutto”), riduzionismo (“non fu così terribile”), avversione pura (“si meritava di subire quello che le è capitato”), il pregiudizio antiebraico (“è ebrea, questo spiega tutto!”), e non solo questo, si saldano ad altre ostilità, che si nutrono di fantasie di lucido delirio. C'è una specularità, infatti, tra la giudeofobia contemporanea (per come, tra gli altri, la descrive Pierre-André Taguieff) e un più generico, ma diffusissimo, risentimento da declassamento sociale. Quello che si traduce nel ritorno di un vecchio motivo delle destre radicali, che mischia individualismo, qualunquismo, anti-intellettualismo, rigetto della competenza e delle élite, per celebrare la rinnovata centralità del decisore unico, del “Capo”, in sostanza di una delega totale che svuota ciò che resta della nostra democrazia sociale in un simulacro. Il tutto nel segno dell'impotenza collettiva. La sfida per gli antisemiti è quindi quella di conquistare e colonizzare l'angoscia collettiva, dando ad essa una sorta di connotazione etnorazziale, per poi ricavarne un beneficio politico.

 

 

La fisionomia della senatrice, al medesimo tempo pacata e ironica, ma puntuale, brillante, raziocinante, sommata alla sua veste borghese e felicemente materna, tale soprattutto perché con una solida storia famigliare sulla quale costruire e rivendicare il suo ruolo pubblico, è quanto di più irritante possa risultare per gli animi di questi piccoli eversori in ricerca di partitura. Il collante, come già è stato recentemente ricordato anche da David Bidussa, è il risentimento, quello descritto sia da Max Scheler che da Friedrich Nietzsche. Così il primo: «L’ambito del risentimento è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un’autorità». Un comune “percepire” che consolida, secondo le dinamiche fascistoidi abbondantemente riemerse nella nostra società, l'impoliticità del lamento collettivo, ovvero la sua autoneutralizzazione. Scrive il secondo nella sua Genealogia della morale: «agli schiavi è preclusa una reazione vera, quella dell’azione, che possono soddisfare solo grazie a una vendetta immaginaria». I sistemi mitopoietici fascistici, sotto le diverse spoglie che possono assumere, si incaricano di assumere questo microuniverso di frustrazioni, nobilitandolo a legittima carica vitalistica. Il punto di attacco nei confronti di Liliana Segre, tuttavia, non sta solo nella carica esistenziale che va esprimendo in ciò che è l'altrimenti deprimente scenario nostrano. Quello che non le è perdonato è che coniughi, in quanto donna, madre e nonna, il rifiuto dell'antisemitismo al rigetto sistematico del razzismo.

 

Facendo di essi due corni del medesimo problema, quand'anche poi essi rimangano distinguibili per più motivi e ragioni. La donna deve stare al “suo posto”; la madre deve essere silente nutrice e reginetta della domesticità; la nonna deve curarsi affettuosamente dei nipoti. L’“ordine naturale” delle cose è questo. Lo spazio pubblico rimane appannaggio di altri, maschi o donne maschilizzate, viriloidi, che siano. Pelosi, interessati e pregiudiziosi critici – a partire da una parte della stampa populista che liscia il pelo del razzismo come instrumentum regni, e che guarda a certe forze politiche che si stanno ricandidando ad essere soggetti di governo come a coloro che rimetteranno in riga il discorso pubblico, riconducendolo ai parametri dell'identitarismo – sono in prima linea nella critica formalmente rispettosa, ma sostanzialmente astiosa, verso colei che vedono come un'icona che la “sinistra” starebbe “manipolando”. Quindi, come una sorta di comodo agente, sotto mentite spoglie, di una parte politica e non già di una collettività alla ricerca di coordinate di senso condiviso, di contro alla decadenza del senso comune, della lingua, della qualità delle relazioni.

 

Hanno già trovato, nel paradosso vivente delle loro affermazioni, il terreno sul quale costruire una contronarrazione: sganciare una visione astorica e cristallizzata dell'odio contro gli ebrei, identificandoli in toto con un Israele immaginario (quindi senza lasciare ad essi alcuna autonomia da una tale creazione storica, che invece interagisce attivamente con la Diaspora), da tutto il resto. Un poco o nulla credibile rifiuto dell'antisemitismo, a fronte del ritorno dei fantasmi dell'«invasione», della «minaccia» dell'alterità, che subisce l'idealizzazione negativa del suo trasmutare in alterazione. Si tratta di un procedimento operativo che si fa dispositivo identitario: salvare, per così dire, un falso “particolare” ebraico, tale poiché ricondotto e schiacciato su una sola storia, sganciandolo da tutto il resto. Ovvero, dalle società plurali nella quali invece si manifesta. Se oggi la lotta all'antisemitismo deve incorporare anche un giudizio di fondo sulla natura di ciò che è definito come «antisionismo» (il rifiuto di Israele come ebreo collettivo, in un effetto di traslazione del pregiudizio da una figura all'altra) non può in alcun modo disgiungersi dall'analisi e dalla critica politica del razzismo come inquinamento, sovvertimento e distruzione della coesione sociale. È capitale per lo stesso mondo ebraico. Liliana Segre, in mente e cuore suo, ben lo sa. Per questo parla di «odio». Per questo c'è chi la odia. 

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