Europeismo versus anti-europeismo / Fieri di essere europei?

30 Maggio 2017

La sera del 7 maggio, un mio amico italiano mi ha detto “Grazie alla vittoria di Macron mi sono risparmiato un viaggio in Germania”. In effetti, se avesse vinto Marine Le Pen, avrebbe portato i suoi risparmi in una banca di Berlino. Meglio ritrovarsi in banca dei marchi che delle lire (la presidenza Le Pen avrebbe portato alla fine dell’euro e quindi ai ritorni alle monete nazionali). Mi chiedo quanti, e non solo in Italia, avrebbero fatto come lui nel caso Le Pen fosse stata eletta presidente, portando così al fallimento di varie banche italiane e anche francesi. 

 

1. Morire per l’Europa?

 

Quando nel 2014 ci fu la finale di coppa del mondo di calcio tra Germania e Argentina, chiesi un po’ in giro, in Italia, per chi si parteggiasse. Era evidente che si faceva il tifo soprattutto per l’Argentina. “Io invece tifo per la Germania” dicevo. Perché? “Perché sono europeo”. Mi guardavano perplessi. In Italia che una squadra di calcio sia europea o meno non appare una ragione sufficiente per tifare per essa. 

Lo sport agonistico non è qualcosa di futile, è la dimensione politica che più di ogni altra interessa miliardi di esseri umani. Tifare per una squadra nel nostro sport preferito ci identifica politicamente in modo profondo. E la politica propriamente detta appassiona quando essa assomiglia a una partita sportiva, non l’inverso. Quando un Pindaro contemporaneo? 

 

La mancanza di un tifo europeo dimostra che l’EU è senz’anima. EU è essenzialmente una joint venture economica, è un artefatto della politica, un fantasma. L’Europa è uno spettro che si aggira per il mondo. Diceva Henry Kissinger: “Se voglio parlare con l’Europa, a chi telefono?”

 

È evidente che la progressiva unità economica dell’Europa non ha portato a un’unità politica e culturale. In Italia, solo una minoranza sa quali paesi facciano parte dell’Unione, quanti abbiano adottato l’euro, ecc. Non sappiamo nulla della Lettonia, della Romania, della Finlandia, di Cipro… Non esiste alcun patriottismo europeo. Anche se io credo di essere un patriota europeo. Quando viaggio e tiro fuori il passaporto dove è scritto UNIONE EUROPEA, lo confesso, ne sono fiero. Essere solo italiano mi parrebbe alquanto mediocre, lepenista o melonista. Ma tanti europei non sono fieri del loro passaporto, forse perché non ce l’hanno nemmeno.

 

Non ci sono forze armate europee, ci sono 27 paesi con 27 eserciti, data la mancanza di politica estera comune. Lo si è ben visto nel 2003, quando alcuni paesi europei si sono schierati con Bush per la guerra in Iraq, e altri decisamente contro. Se, come diceva Carl Schmitt, la politica si fonda sull’opposizione tra amico e nemico, un’unità politica implica che si abbiano gli stessi amici e gli stessi nemici. Ogni tanto si evoca il tema della Difesa comune – lo ha evocato anche Macron – come se fosse una questione tecnica, ma un esercito e una politica estera comuni sono elementi fondamentali di un’unità politica. Ne sono a un tempo la condizione e l’espressione. Se ogni regione italiana avesse un suo piccolo esercito e quindi una propria politica estera, potremmo ben dire che l’Italia si è disgregata, anche se avesse un solo sistema fiscale e un solo presidente della Repubblica. Avere forze armate comuni significa che qualcuno è disposto a morire per il significante Europa. Ci sono militari europei che giurano sulla bandiera europea? 

 

L’Europa non diventerà mai un’unità politica vera, insomma una patria, homeland, Vaterland…, fino a che non avrà un premier riconosciuto. I cosiddetti leader europei sono leader solo del proprio paese, in ultima istanza devono rispondere ai propri concittadini e basta. Ogni leader fa gli interessi del proprio paese, non dell’Europa. Ad esempio, la fragilità genetica dell’euro è dovuta al fatto che ogni paese ha sue regole fiscali. Ora, si è calcolato che un’unione fiscale della zona euro costerebbe alla Germania il 5% del proprio prodotto interno lordo. Quale leader politico tedesco potrebbe convincere i suoi concittadini a rinunciare al 5% del PIL, anche se peraltro la Germania è uno dei paesi che più ha tratto vantaggio dall’euro? La Germania, come ogni altro paese, cerca di massimizzare i benefici dati dall’euro e di minimizzare i costi che esso comporta. 

 

2. “Chi sta sotto” accerchia “chi sta sopra”

 

I padri fondatori dell’unità europea avevano un’idea precisa e audace: che bisognasse puntare dapprima sul libero scambio economico tra i paesi europei per far maturare, poco a poco, un’unità politica tra loro. Un esperimento più unico che raro nella storia. Per circa 60 anni il carro dell’economia in effetti sembra aver trascinato i buoi della politica in Europa. Poi il processo si è spezzato nel 2005, quando il progetto di Costituzione europea fu bocciato per referendum da francesi e olandesi. Perché il rigetto dell’unità europea viene dal basso – demagoghi come Le Pen, Farage, Gewiert, Petry, Grillo, Salvini e altri sfruttano un sentimento diffuso di cui si fanno portavoce. Ora, gli anti-europei, come i trumpisti americani, sono per lo più persone decentralizzate nella società: sono i più poveri, i meno colti, chi abita nelle zone rurali o nelle piccole città, i più anziani. È l’eterna Vandea provinciale contro Parigi rivoluzionaria (il 90% dei parigini ha votato Macron al secondo turno). Sembra la realizzazione della strategia di Lin Piao negli anni ’60 all’epoca della guerra del Vietnam – “le campagne accerchiano le città” – se tra gli accerchianti mettiamo i “campagnoli” anche delle città. I “vandeani” sono una tipologia di persone che sfugge quindi a una classificazione marxista, non si tratta di una classe sociale con una sua funzione specifica; direi che si tratta della parte che si sente in qualche modo perdente di una nazione. Ma è possibile che perdenti coalizzati finiscano col vincere?

 

 

La sinistra intellettuale aborrisce termini come “vincenti” e “perdenti” perché sanno di individualismo competitivo tipico del capitalismo. Ma intendo “chi si sente vincente” e “chi si sente perdente”. Tutti noi conosciamo delle persone benestanti che si considerano dei falliti, e delle persone che vivono modestamente ma soddisfatte e felici. Si vince o si perde nella vita in relazione ai traguardi che si sono scelti, per lo più nella propria adolescenza. In ogni caso non sono convinto che si sentano perdenti solo quelli più poveri. Viviamo in un’epoca in cui è facile sentirsi perdenti, e ci dovremmo chiedere perché. Dopo tutto, la tecnologia permette a tutti noi di vivere meglio rispetto a 40 o 50 anni fa. Ma evidentemente godere di comodità che tutti hanno non ci basta, dobbiamo avere un plus-godimento, come diceva Lacan. 

 

Ogni sistema sociale ha i suoi perdenti, se si sentono tali. Anche il socialismo ha i suoi perdenti; ad esempio, chi non riesce a fare carriera politica. (La ragione della crisi del socialismo in tutto il mondo è che per tanti operai l’obiettivo vero non è conquistare il potere come classe operaia, ma smettere di essere operai, salire…) Un operaio sovietico che costruiva automobili VAZ a Togliattigrad sul Volga era meno “classe sottoposta” del suo omologo italiano che costruiva auto simili alla FIAT di Torino? Bisogna vedere cosa pensasse di sé, certamente però il livello di vita di un operaio torinese era più alto di uno sovietico, ragione principale, credo, del crollo del comunismo, quando anche la gente comune nei paesi socialisti si è resa conto di questo. Direi che il compito fondamentale delle democrazie oggi è dare risposta a questo senso di sconfitta che hanno coloro che sentono di “star sotto”, coloro che non vanno nemmeno più a votare e dicono “tutti fanno schifo”. Impresa ardua perché il recupero di questi arrabbiati, di chi ha perso la speranza di un’ascesa sociale, non avviene elevando semplicemente il loro tenore economico.

 

È un luogo comune dire che la globalizzazione ha colpito il ceto medio dei paesi occidentali. Ma un ceto medio impoverito è ancora ceto medio? Chi è “ceto medio”? Non sono un economista, ma penso che la globalizzazione, come qualsiasi altra rivoluzione economica, avvantaggi certuni e danneggi altri. Mi colpisce quanti miei amici e parenti si diano oggi al B&B, è un’epidemia: approfittano così del boom mondiale del turismo, che è un aspetto della globalizzazione. Chi invece produce beni tessili di scarsa qualità è nei guai perché i cinesi sono capaci di produrre le stesse merci a costo minore. Questa disparità vale per gli individui come per i paesi. L’Europa include i paesi più prosperi al mondo – Svezia, Norvegia, Danimarca, Nederland… – dove tutto sembra andare per il meglio. Mentre molti paesi del Sud, in particolare Grecia e Italia, stanno male in arnese. Insomma, certi paesi del Nord approfittano al meglio della globalizzazione, mentre certi paesi del Sud non ne sanno approfittare. Da qui la tentazione di dire “il pianeta Terra corre troppo, lasciatemi scendere!” 

 

Il populismo anti-europeo mi ricorda il luddismo inglese di inizio ‘800: i luddites, per evitare che la meccanizzazione dell’industria tessile facesse perdere posti di lavoro agli operai, sfasciavano le macchine tessili. Allora come oggi, l’aumento della produttività riduce i posti di lavoro in molti settori industriali e agricoli. I luddisti distruggevano i macchinari, oggi i populisti vogliono distruggere euro ed Europa. 

 

A me non piace affatto il termine populismo. Come ha mostrato Ernesto Laclau (La ragione populista), ogni nuovo movimento politico nasce come populista. Inoltre, chi viene tacciato di populista non accetta questa etichetta, ragion per cui “populismo” è più un’ingiuria che una designazione. Ma siccome questo termine si è imposto, lo userò a malincuore. Ora, quel che unisce i vari populismi, da quelli di estrema destra (Le Pen, Trump) a quelli più ambigui (Grillo, Farage) è la contrapposizione tra “chi sta sopra” e “chi sta sotto”. Ma il punto è: chi sta sopra e chi sta sotto?

È interessante che per i populismi di oggi chi è ricco, anche ricchissimo, non venga percepito né denunciato come “uno che sta sopra”, così in tutto l’Occidente poveracci votano sempre più per leader che intendono tagliare le tasse ai ricchi. “Coloro che stanno sopra” sono considerati soprattutto i politici, per ora. La gente crede che i politici abbiano un potere smisurato sulla realtà, ma le cose non stanno così. Lo abbiamo ben visto in Spagna nel 2016: il paese è stato senza governo per un anno, ma nel frattempo il paese ha avuto un grande sviluppo del PIL di oltre il 3% annuo. La politica sembra incidere profondamente nella realtà quando commette disastri, come furono la Prima e la Seconda guerra mondiale, il Grande Balzo in Avanti in Cina tra 1958 e 1962, l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1980 e quella americana dell’Iraq nel 2003, ecc. 

 

Ma può darsi che questa rivolta populista si estenda contro altri “superiori” ancora solo tangenzialmente contestati: scienziati, intellettuali, medici, giornalisti. La campagna delirante contro i vaccini, accusati di provocare autismo, è forse l’aurora di un attacco a chi “sta sopra” in medicina. La negazione del riscaldamento terrestre da parte di Trump è di fatto un attacco alle élites scientifiche. Il pullulare di medicine alternative cervellotiche, di cure e teorie New Age, può essere visto come un attacco al sapere scientifico detenuto da una ristretta comunità. E magari poi si attaccheranno scrittori e registi famosi solo perché famosi. Potrebbe prodursi in Occidente qualcosa di simile alla Rivoluzione culturale cinese negli anni ’60: allora i giovani trascinavano nel fango qualsiasi dirigente, anche se maoista di ferro, solo perché dirigente. 

 

Oggi la massa crescente degli anti-europei non aspira a più eguaglianza, ideale distintivo della sinistra: aspira solo a contestare tutti “gli specialisti” della politica. Vuole eliminare ogni mediazione, vuole decidere attraverso il web o i referendum. In prospettiva, è il rigetto di ogni sapere alto, che veda le cose nell’insieme e non solo da angolazioni particolari, parochial. Non a caso la rivolta contro “chi sta sopra” si associa quasi sempre a istanze di anti-globalizzazione e xenofobia: chi sta sopra vede le cose globalmente, mentre chi sta giù è portato a vedere le cose dalla propria prospettiva “provinciale”. 

Ma il populismo porta ad amare delusioni, perché anche i populisti hanno bisogno di leader, e se questi governano saranno necessariamente “quelli che stanno sopra”. E il ciclo di contestazione può ricominciare. Il populismo è un serpente che si morde la coda. A meno che non si acquieti in qualche dittatura.

 

3. La filosofia dell’apertura

 

Economisti e sociologi “corretti” hanno fatto a gara nel terrorizzare gli elettori dei vari paesi dicendo che il protezionismo porterà a catastrofi economiche. Ma non bisogna mai fidarsi delle profezie degli economisti, di qualsiasi scuola, dato che di solito si dimostrano sbagliate. Non darei per scontato che la Gran Bretagna ne uscirà con le ossa rotte per aver lasciato l’Europa, così come non credo che il protezionismo sia sempre e comunque dannoso. Nei paesi più poveri il protezionismo può permettere lo sviluppo di industrie nazionali ancora fragili, che altrimenti verrebbero spazzate via dalla forza delle multinazionali. In certe fasi il protezionismo è la scelta ottimale. E del resto l’Europa è protezionista nei confronti di chi non è nell’Unione, contribuendo quindi ad affamare molti paesi poveri non-europei. 

 

Immaginiamo che il protezionismo americano e britannico rafforzi invece le economie dei due paesi. Questo certo non farebbe cambiare idea a un vero libero-scambista, il quale è tale non perché sia dimostrato che il protezionismo è sempre dannoso. Il libero scambio è prima di tutto una filosofia morale, che punta all’unificazione etica e culturale del mondo. 

 

Nel 2000 parlai con alcuni seri economisti americani a proposito dell’euro, e quasi tutti erano scettici. Dicevano che una moneta unica senza unione politica, senza unione fiscale, senza alcuni meccanismi di solidarietà, prima o poi avrebbe mostrato la corda. La pensa così anche Joseph Stiglitz, economista di sinistra e premio Nobel: l’Italia non doveva entrare nell’euro. Perché l’euro divarica le economie dei paesi debitori da quelle dei paesi creditori, e l’Italia è tra i debitori. Di fatto con l’euro l’Italia ha agganciato la propria moneta al marco tedesco. Stiglitz ricorda che l’Argentina, quando ha staccato la propria moneta dal dollaro e ha rinegoziato il proprio debito nel 2003, ha avuto poi anni di grande ripresa economica. È vero che gli economisti non sono mai d’accordo su nulla, ma perché allora Romano Prodi, che l’economia la conosce, da presidente del consiglio fece di tutto per far entrare l’Italia nell’euro? Solo perché conveniva economicamente? Secondo me soprattutto per europeizzare l’Italia, diciamo per sprovincializzarla, insomma come momento di un progetto ideale. Ma “la provincia” poi si è ribellata – la Lega Nord prima, il Movimento di Grillo poi, hanno dato voce alla Vandea.

 

L’euro e l’Unione Europea si fondano insomma non su calcoli economici ma sull’ideale della società aperta di Karl Popper. Il secolo XX, malgrado fascismi e nazionalismi, sarà ricordato dai posteri come il secolo ossessionato dall’apertura. Non credo sia un caso che un filosofo abissalmente distante da Popper come Martin Heidegger abbia definito il soggetto umano – Dasein – come “l’aperto”, aperto sull’essere dell’ente. E sempre più in arte, sulla scia di Umberto Eco, si è parlato di “opera aperta”. Gli esempi della passione aperturista si potrebbero moltiplicare. L’accoglienza degli immigrati è un corollario di questo assioma di apertura. Ma oggi assistiamo a una “rivolta delle masse” – come diceva José Ortega y Gasset – contro la filosofia dell’apertura. Anche perché l’apertura popperiana poi si è risolta in una liquidità baumaniana, così gran parte della gente non vuole affogare in questo liquido, rinchiudendosi nei propri castelli, nazionali o regionali.

 

Eppure il nazionalismo moderno – che oggi si fa chiamare sovranismo – è esso stesso inquinato di globalizzazione. Il nazionalismo è presto diventato Principio Universale delle nazioni particolari. Abbiamo così visto un’alleanza tra Italia fascista, Germania nazista e Giappone militarista. Il che è una contraddizione: se my nation first, le altre nazioni sono potenzialmente mie rivali o nemiche. È che il nazionalismo stesso ha preso i caratteri dell’universalismo illuminista: tutti i nazionalismi sono uniti non da interessi comuni, ma dall’idea sovranista. Le “nazioni sovrane” si alleano contro chi vuole l’alleanza tra le nazioni. Quando Trump elogia May o Netanyahu, eredita questo ossimoro del nazionalismo moderno. 

 

4. Il Leviatano Europa

 

I padri fondatori dell’Europa puntavano a un’apertura universale di tipo liberale alternativa a quella socialista. Perché anche il socialismo e il comunismo sono internazionalisti, lo si canta pure, “E l’Internazionale / sarà l’umanità”. L’universalismo liberale punta sulla capacità che ha il mercato di amalgamare gli esseri umani, di creare un’omogeneità culturale e di valori (e il comunismo conserva molto più i costumi del passato e i particolarismi etnici di quanto non faccia il capitalismo, che disgrega spietatamente il passato). La globalizzazione, come costituirsi di un unico grande mercato mondiale, è vista come un’opportunità straordinaria per creare vaste unità meta-nazionali, e l’Europa avrebbe fatto da modello. Ma controspinte poderose stanno sfidando questo progetto.

 

Intanto non c’è un presidente eletto da tutti gli europei. Eleggere un presidente dell’Europa significherebbe una rinuncia di sovranità da parte di ogni stato che nessuno, all’ora attuale, sembra disposto a concedere; e i popoli molto meno dei loro politici. In Norvegia nel 1994, in Francia e in Olanda nel 2005, in Gran Bretagna nel 2016, la gente ha votato contro l’Europa andando così contro la propria classe politica che era invece europeista. È paradossale: oggi la classe politica di quasi tutti i paesi europei è molto più disposta a cedere potere politico di quanto non sia disposto chi sta in basso e non ha alcun potere. È proprio perché l’Europa manca di un capo e di un governo unici che essa appare burocratica, fiscale, ottusa: mancando di un cuore politico, è percepita come un meccanismo senza cuore. L’Europa appare agli italiani una specie di Equitalia che viene a farci i conti in tasca e a bacchettarci sulle dita se sgarriamo; un’agenzia fiscale che assume il volto per noi antipatico di Angela Merkel. Quasi tutti gli italiani pensano che il Leviatano europeo, a guida tedesca, ci imponga una austerity che uccide il nostro sviluppo. I paladini dell’Europa dicono ingenuamente: “L’Europa ci ricorda solo di rispettare i patti che noi stessi abbiamo sottoscritto.” Ma a ciò si replica “Abbiamo fatto male a sottoscrivere quei patti!” Proprio perché non c’è autorità sovranazionale dell’Europa, questa viene percepita, nei paesi del Sud, come una macchina petulante e dispotica. 

 

Ma come eleggere un vero presidente dell’Europa? Dovrebbe parlare tutte le decine di lingue europee per essere apprezzato da tutti. Un leader deve essere amato e odiato, ma per esserlo deve parlare una lingua comprensibile a tutti. Chi in Italia può amare o odiare Jean-Claude Juncker, un eurocrate che non parla italiano? A proposito, quante lingue parla Juncker?

 

 

5. Orrore per l’entropia

 

Anni fa esplose un movimento di sinistra anti-globalista, che attaccava e attacca la tendenziale unificazione del pianeta sulla base del libero scambio mercantile. Eppure, come abbiamo ricordato, la sinistra è sempre stata fondamentalmente globalizzante: essa denuncia un certo tipo di unificazione planetaria per contrapporvi un’altra unificazione. Eppure socialismo e liberalismo oggi si scoprono molto più affini di quanto non credessero: entrambi credono nell’apertura. Non a caso in Francia quelli che noi chiamiamo no global vengono chiamati alter-mondialistes, “mondialisti altrimenti”. Non è la globalizzazione in sé quindi a essere contestata, ma il primato capitalista di essa. Da qui l’ambivalenza irrisolta della sinistra radicale nei confronti dell’unità europea: da una parte salutata come un’istanza internazionalista che unifica in qualche modo le classi lavoratrici, dall’altra cosa di cui diffidare perché fondata su basi liberiste. Nel referendum in Gran Bretagna Jeremy Corbyn è stato disfatto da questa ambivalenza. E così è stato per Jean-Luc Mélenchon nelle presidenziali francesi, che non si è schierato per il filo-europeo Macron ma nemmeno per l’anti-europea Le Pen. Corbyn e Mélenchon hanno perso e perderanno ancora.

 

Il vero anti-globalismo oggi caratterizza la destra reazionaria e il populismo, entrambi non hanno nulla a che vedere con la destra liberale. Questa destra, che chiamo identitaria, è stata sempre contraria all’immigrazione, mentre quella liberale ovviamente è favorevole. Alcuni identitari anti-immigrazioni evocano l’entropia della termodinamica: se le culture si mescolano, questo porta a una sorta di polpettone indifferenziato. Due culture sono come una vernice bianca e una vernice nera divise da una sbarra: la globalizzazione toglie la sbarra, per cui si avrà un’unica vernice grigia. Questo era del resto l’argomento cardine dei segregazionisti razziali americani: neri e bianchi non devono mescolarsi perché la cultura nera ha un suo valore che va preservato, gli spirituals, il jazz, la danza… l’integrazione la distruggerebbe. Anche certi teorici dell’apartheid sudafricano si ergevano a protettori della cultura dei neri. L’anti-globalismo reazionario denuncia un mondo che Pasolini chiamava “omologato” (e in effetti le idee di Pasolini erano, sotto una vernice gramsciana, una forma di pensiero reazionario anti-moderno). Le culture non sarebbero come l’acqua e l’olio, ma come l’acqua e il caffè, a meno che non le si separi con alti muri. 

 

A molti di questi temi anti-entropia è sensibile anche una certa sinistra radicale, a dispetto dell’internazionalismo socialista. Anche certa sinistra culturale denuncia la globalizzazione dei consumi: tutti mangiamo da McDonald, tutti ascoltiamo musica americana e andiamo a vedere film americani, tutti usiamo gli stessi ipad e iphone, ecc. (e aggiungo: tutti nel mondo adottano il design italiano, tutti mangiano alla cinese e all’italiana, tutti preferiscono auto giapponesi e tedesche, ecc.). Molti di sinistra pensano con nostalgia agli amerindi di un tempo, con i loro riti e le loro piume, mentre oggi tanti Native Americans bevono birra davanti al televisore e detengono casinò. La sinistra sogna la persistenza di differenze non ordinali ma orizzontali, non differenze tra ricchi e poveri, tra superiori e inferiori, bensì tra diversi etnicamente. Ma è un’illusione, perché le differenze etniche, di costume, comportano per lo più differenze anche ordinali. Una cultura dedita alla danza, per esempio, produrrà balli adorabili, ma rischia di restare penalizzata rispetto a un mondo che esige piuttosto capacità informatiche. Una delizia etnica può risultare in un handicap economico.

 

Del resto, la globalizzazione omologante produce anche nuove differenze. Oggi le diseguaglianze diminuiscono tra i paesi, dato che nazioni prima povere (India, Cina, America Latina) a poco a poco stanno raggiungendo l’Occidente; in questa redistribuzione mondiale della ricchezza, è naturale che noi occidentali, fino a ora i privilegiati, perdiamo quote di ricchezza. Ma le disuguaglianze aumentano all’interno dei paesi. La talpa della differenza scava sotto il terreno dell’universalizzazione. Insomma, il pericolo dell’entropia è fasullo. Finché la Terra sarà inondata dal sole, emergeranno sempre nuove differenze. Il punto è che molti sociologi e politologi non riescono a vedere le nuove differenze, che si presentano all’inizio come folkloriche e irrilevanti. Chi si era accorto del sorgere del fondamentalismo islamico prima della rivoluzione iraniana del 1979? E chi aveva visto l’emergere di un conflitto Nord/Sud in Italia che poi la Lega ha portato drammaticamente alla ribalta? Chi aveva preso sul serio la predicazione xenofoba del Front National in Francia ai suoi inizi? Chi aveva visto una domanda crescente di democrazia diretta che poi movimenti e partiti populisti hanno adottato? 

 

Anche in Italia la differenza si produce. Si prenda il padrone del bar dove vado di solito a prendere il caffè: è evidente che economicamente parlando lui ha bisogno di me, e io di lui, diciamo che siamo interdipendenti. Eppure viviamo in mondi spirituali per molti versi opposti: io sono per i diritti dei gay e delle donne, per la laicizzazione della società, per una certa sinistra, non sono credente, sono contro ogni tipo di superstizione, sono per l’Europa unita e per l’euro, favorevole all’immigrazione, do valore alla cultura; lui detesta i gay e vorrebbe proibire l’aborto, pensa che la società debba essere cattolicizzata, vota per partiti di destra, è contro l’Europa unita e contro l’euro, crede nei complotti ed è superstizioso, vorrebbe bloccare qualsiasi immigrazione, non dà alcun valore alla cultura ma solo agli affari. Viviamo vicini nella stessa città, ma spiritualmente separati abissalmente in essa.

Così, in un’Europa che per decenni credevamo ormai convertita all’europeismo è emersa una nuova differenza che pochi prevedevano: europeismo versus anti-europeismo. Grazie all’unità europea, gli europei al loro interno sono sempre più divisi. Come disse Ennio Flaiano “se i popoli si conoscessero meglio, certamente si odierebbero di più”.

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