Stato poetico e esperienza estetica / Edgar Morin. Nel gioco dell'arte e della vita

2 Marzo 2019

Scopriamo il valore della creatività e dell’estetica nell’esperienza umana in questo nostro tempo, più di quanto non avessimo fatto in passato. Quello che più conta è che ne riconosciamo la distinzione specifica, dal punto di vista evolutivo. Insieme al linguaggio verbale articolato e al pensiero simbolico, a cui sono strettamente connesse, la creatività e l’esperienza estetica sono caratteri peculiari e distintivi della nostra specie.

Si ha la sensazione che l’attenzione riservata alla creatività e all’estetica possa essere collegata al bisogno che abbiamo di immaginare un mondo diverso da quello in cui viviamo, in quanto ci appare evidente che il mondo attuale sarebbe candidato a un esito certo ed infausto, qualora continuasse a evolversi secondo i modelli di vita dominanti di homo sapiens. Abbiamo un urgente bisogno di immaginare vie inedite per la nostra vita e la nostra capacità poetica, quella capacità di creare l’inedito, ne risulta probabilmente sollecitata. 

Si tratta di una buona notizia e le pubblicazioni in materia sono di particolare importanza, come il contributo di E. Kandel, L’età dell’inconscio; quello di E. O. Wilson, Le origini della creatività; e ora il contributo di E. Morin, Sull’estetica, tutti pubblicati da Raffaello Cortina Editore. È probabile e ancora di più auspicabile che ciò accada per l’urgenza che avvertiamo di creare un mondo che ancora non c’è, perché quello attuale non ci può bastare; perché sentiamo la necessità impellente di cambiare idee e comportamenti riguardo alla nostra vita sul pianeta che ci ospita; perché sentiamo la necessità di una vivibilità sostenibile in grado di giungere a una nostra presenza non distruttiva, in grado di usare le risorse tutelandone la riproducibilità.

Se abbiamo creato l’Antropocene è perché siamo la specie poetica, quella i cui individui non coincidono mai con se stessi. Per noi umani è naturale essere artificiali, come ha detto di recente Vittorio Gallese. Facciamo ad arte, in continuazione e senza sosta, il mondo in cui viviamo, e tendiamo all’oltre rispetto a quello che c’è. Secondo Edgar Morin, come aveva scritto già Paul Klee,“noi imitiamo nel gioco dell’arte le forze che hanno creato e creano il mondo” [p. 40]. 

 

 

In questa tensione verso la creazione e ricreazione del mondo, dalle nostre case, al nostro cortile, alle città, alla moda e alle opere d’arte visiva, musicale, cinematografica, letteraria, teatrale, noi mettiamo in atto quello che Morin chiama il nostro “stato secondo”, uno stato che si situa tra la condizione sciamanica e la semi-coscienza, in cui ci lasciamo attraversare dalla tensione creativa. Quella tensione che rinvia all’oltre, a quello che ancora non c’è e che abbiamo definito “tensione rinviante” o “capacità specie specifica di comporre e ricomporre in modo almeno in parte originale i repertori disponibili del mondo” [U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività, innovazione, Allemandi, Torino 2010; U. Morelli, Eppur si crea. Creatività, bellezza, vivibilità, Città Nuova, Roma 2018]. 

Il filo conduttore di questo orientamento riguarda il senso del possibile, così necessario oggi, che è figlio della capacità umana di spingersi oltre l'esistente, di concepire l'inedito e di accedere alla bellezza, attraverso l'arte e le pratiche creative della vita.

Il fatto da tenere presente e da riprendere e approfondire è che quella capacità creativa umana non sembra esprimersi solo secondo l’associazione kantiana tra bello e buono: creiamo e estetizziamo anche ciò che è distruttivo, tanto da poter sostenere che la sfida principale oggi per la nostra specie è se ce la faremo a usare la nostra capacità creativa in forme e modi non distruttivi.

“Il senso della vita non è altro che la vita stessa. Vivere per vivere può esser più di una piatta tautologia, acquista senso riconoscendo e accettando la qualità poetica delle nostre vite”, scrive Morin [p. 119]. Noi però non possiamo esimerci dal considerare e tenere in debita attenzione la natura ambigua di quella qualità poetica che ci contraddistingue. Se la qualità poetica è in grado di estendere le nostre possibilità mediante il sentimento estetico e l’accesso alla bellezza, è la stessa qualità che è anche in grado di generare comportamenti e artifici distruttivi delle stesse condizioni di vivibilità, come oggi verifichiamo nella nostra condizione planetaria. Morin stabilisce una distinzione tra “poetico” e “prosaico”, laddove il sentimento estetico ci pone in uno stato definibile poetico, in opposizione a uno stato prosaico, che caratterizza ciò che è senza piacere e senza meraviglia. Il fatto è che mostriamo evidentemente di trarre piacere e meraviglia anche dalla distruzione delle risorse del pianeta che è la nostra casa; degli altri esseri viventi da cui dipende la nostra vita e persino degli altri esseri umani. “L’estetica”, scrive Morin, “prima di essere il carattere proprio dell’arte, è un dato fondamentale della sensibilità umana” [p. 11]. In un percorso, anche incerto, tra considerazione del mondo interno delle emozioni e del mondo esterno delle relazioni, l’autore considera il sentimento estetico come qualcosa che ci proviene da forme, colori, suoni, racconti, spettacoli, poemi, idee, ma allo stesso tempo dalla nostra capacità interna di estetizzazione. 

Nel tentativo di riprendere, opportunamente, le basi evolutive dell’estetica e della creatività, l’autore, a cui dobbiamo i fondamentali contributi transdisciplinari che compongono l’orientamento epistemologico della complessità, tende ad accreditare una preistoria dell’estetica umana inscritta nella natura.

 

Si tratta di un punto su cui soffermarsi criticamente. Sostenere che la nostra creatività è naturale e figlia dell’evoluzione di cui siamo parte, non risulta falsificabile, assumendo un orientamento evoluzionistico evidente e necessario. Allo stesso tempo è necessario chiedersi se c’è continuità o discontinuità e, quindi, distinzione specifica, in quella che chiamiamo creatività. Ne va di una scelta importante che comporta il fatto di apporre o meno l’aggettivo “umana” vicino alla parola “creatività”. Citando Henri Bergson, Morin sostiene che la vita è stata ed è “artista” nella sua facoltà inventiva e creatrice. “Il lussureggiare di forme, ornamenti, colori nel mondo vegetale come nel mondo animale attesta in ogni caso l’esuberanza creativa della vita” [p. 16]. “Ci sarebbe, dunque, nel mondo animale una preistoria dell’estetica umana” [p. 17]. Il punto è che il gioco di continuità e discontinuità dell’evoluzione, come è accaduto ad esempio nella cosiddetta “esplosione cambriana” [S. J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Feltrinelli, Milano 1990], appartiene alla funzione tacita dell’evoluzione e al ruolo decisivo del caso. Anche la nostra specie è parte di quel processo straordinario e tremendo, ma la discontinuità che la nostra specie rappresenta ha finito per esprimere evolutivamente una distinzione che, per quanto appartenente alla dinamica del vivente, esprime, da un paio di centinaia di migliaia di anni circa, pensiero simbolico, linguaggio verbale articolato e, appunto, una capacità di comporre e ricomporre in modi e forme almeno in parte originali i repertori disponibili. Non è facile definire questa distinzione, ma importanti percorsi di ricerca sembrano fornirci alcune basi di primi risultati possibili. Siamo, insomma, capaci di quello che Morin chiama “stato secondo”: “Definisco stato secondo come uno stato in cui un’emozione ci trasforma. Lo stato poetico è uno stato secondo in cui possiamo sentirci amorevoli, pieni di ammirazione, in comunione, pieni di stupore, sopraffatti, trasfigurati, ispirati. È al limite del mistico senza essere per questo religioso. S’intensifica con l’entusiasmo – questa bellissima parola che significa originariamente ‘possessione da parte di un dio’” [p. 20]. 

 

Ancora una volta abbiamo bisogno di considerare l’ambiguità dello “stato secondo”, che caratterizza la nostra esperienza anche quando le nostre creazioni sono tali da produrre effetti indesiderati per noi o per una parte di noi.

Non si tratta solo di considerare il rapporto tra bello e brutto, laddove Morin riconosce che può esserci “bellezza nella disarmonia”, e che nella contemporaneità dell’arte, ad esempio, “bellezza e bruttezza cessano di essere antinomici: si trova bellezza nella bruttezza e bruttezza nella bellezza, il che fa sì che la bellezza non sia eliminata, ma inclusa in un complesso che recherebbe il suo contrario” […] “C’è anche un al di là della bellezza, nel senso classico del termine, in cui l’emozione può sorgere da un orrore estetizzato” [p. 25]. 

Quando si impegna a definire la creatività Morin sostiene che “la creatività non è nata con l’umanità: la vita ha creato forme innumerevoli, vegetali e animali” [p. 39]. Posto quanto già detto prima a proposito della necessità di giungere a una definizione più puntuale della creatività, pare opportuno distinguere la creatività umana dalle espressioni di differenziazione e di discontinuità evolutiva della natura, di cui noi umani siamo parte, con le nostre distinzioni. Senza di quelle distinzioni non saremmo la specie pervasiva che ha trasformato il pianeta su cui vive al limite dell’autodistruzione. D’altra parte è evidente e dimostrato che la creazione artistica e le altre forme di creazione non sono solo un’imitazione della natura. A manifestarsi è un processo di risonanza con il mondo che ci precede e, con la creazione, ci attraversa. Così come il creatore risuona col mondo e se ne lascia attraversare, l’osservatore risuona col creatore e ne ripercorre i gesti, le emozioni e le sensazioni: per queste vie paiono emergere le esperienze estetiche. Combinando il proprio punto di vista sull’estetica anche con i suoi studi antropologici, Morin si chiede se “sono degli sciamani o degli artisti che hanno disegnato sulle pareti di Lascaux?”. “La mia risposta è: sciamani e artisti, artisti perché sciamani”, si risponde [p. 42]. Per “semi-trance” e identificazione psichica, o anche per possessione psichica, si crea nell’arte, e non solo, secondo Morin, che chiama in causa anche la simulazione. Insomma “si tratta di una sinergia tra la coscienza lucida e qualche cosa che zampilla dalle profondità dell’essere.” […] “E credo che stato secondo, mimesi, semi-trance, semi-possessione siano presenti nella pittura, nel romanzo, nella musica, in tutte le arti” [p. 47]. 

Sostenendo che lo stato poetico ingloba e oltrepassa l’esperienza estetica, l’analisi di Morin analizza la rilevanza di molte delle espressioni creative umane per ricercare le condizioni dell’emancipazione possibile della nostra condizione. Giunge così all’educazione e alla necessità di educare e ri-educare all’estetica, come condizione per conoscere ciò che è umano nella sua complessità. Un proposito che l’autore aveva documentato in un libro, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, apparso sempre da Raffaello Cortina Editore, Milano 2001. In proposito l’autore esprime, in conclusione del libro, una considerazione che merita una meditazione approfondita. Egli, infatti, scrive: “Ho proposto invano per due decenni d’introdurre la conoscenza complessa, proponendo sette temi indispensabili per affrontare la complessità della vita.” […] “Dal momento che ciascuno di questi insegnamenti implica l’innesto dei saperi di molte discipline, questo significa che la loro introduzione, congiuntamente alla riforma profonda dell’insegnamento delle arti e dell’estetica, implicherebbe una rivoluzione pedagogica essenziale” [117].

 

Quella rivoluzione purtroppo non c’è ancora stata e oggi sarebbe oltremodo necessaria, stante l’urgenza di creare una coscienza planetaria, nel momento in cui il pianeta su cui viviamo diventa “umano”, nel senso che la presenza della nostra specie ne determina la trasformazione con la propria incessante creatività, nel bene e nel male.

La creatività umana, infatti, genera esiti di ogni tipo, che possono risultare positivi o problematici, ma anche distruttivi, per gli esseri umani stessi. Creando e ricreando, la specie poetica che fa e rifà il mondo in base alla propria tensione a manipolare, a costruire, a trasformare, a generare l’inedito, ha fatto del pianeta Terra “il pianeta umano”, ovvero il pianeta dove il dominio pervasivo della nostra specie mette oggi a rischio il sistema vivente e, certamente, noi stessi. S. L. Lewis e M. A. Maslin, in Il pianeta umano. Come abbiamo creato l’Antropocene, [Einaudi, Torino 2019] affrontano da un punto di vista scientifico proprio questo problema. 

 

 

Uno degli aspetti più rilevanti dell’analisi approfondita della nostra condizione attuale è forse quella che gli autori conducono sulla grande rimozione che per tutto il Novecento, in particolare nei paesi occidentali, è stata operata, rispetto alle conseguenze dei cambiamenti in atto nell’uso delle risorse e nella crisi climatica. Grazie alle argomentazioni contenute nel libro, scopriamo che l’Antropocene, o meglio le condizioni che ne hanno determinato l’avvento e, tra queste la più importante, l’azione degli esseri umani, è in atto da lungo tempo e certamente dall’inizio del Novecento. Allora diviene importante una domanda: “Per quale motivo, benché queste alternative fossero comuni nell’Ottocento, l’Occidente scelse il termine Olocene, che non cita gli esseri umani come causa importante del cambiamento ambientale?” [p. 17]. Siccome la stessa cosa non accadde, ad esempio, tra gli scienziati del blocco sovietico, gli autori arrivano a formulare l’ipotesi che la differenza potrebbe essere dovuta alle diverse ideologie politiche dominanti. “Minimizzare e marginalizzare le preoccupazioni ambientali è stata una caratteristica fondamentale delle società occidentali per tutto il Novecento, perciò l’Olocene era più ovvio, e molto meno controverso dell’Antropocene come nome geologico dell’epoca attuale. ‘Olocene’ era il termine che un accademico che prepara i futuri geologi a vivere nell’industria petrolifera o mineraria avrebbe scelto per quieto vivere. Non minacciava né l’attività della geologia né le attività permesse dalla geologia.” [p. 17].

 

Siamo di fronte a una rimozione importante che risulta rilevante anche dal punto di vista del linguaggio: Olocene, che etimologicamente significa “del tutto recente”, si presenta neutrale e descrittivo e, venne reso internazionale dal geologo francese Paul Gervais, negli anni sessanta dell’Ottocento, dopo essere stato coniato dal suo collega inglese Charles Lyell nel 1830. Perché sottolineare questa vicenda terminologica? Come ci suggerisce l’arcinoto aforisma di Ludwig Wittgenstein, i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo. Ebbene, conviene allora associare la costante rimozione della responsabilità umana riguardo alle trasformazioni climatiche, alla crisi delle risorse ambientali, al riscaldamento globale e alla perdita di biodiversità, con le scelte nella definizione dell’epoca in cui viviamo. Antropocene mette al centro il ruolo e la responsabilità della specie umana nelle trasformazioni in atto e, come ricorda Ian Tattersall, il fatto che l’evoluzione sul pianeta Terra, da quando gli umani sono diventati i “padroni del pianeta”, o dipenderà prevalentemente da scelte culturali. Ci meritiamo il mondo che creiamo, quello che riusciamo a tradurre in esperienza estetica, a non lasciare nella giacenza dello scontato. Non sempre però ci disponiamo effettivamente a questa ricerca o, se qualcuno lofa, non sempre è opportunamente considerato.

Che la vita fosse una forza geologica che modella la Terra lo aveva mostrato il grande geochimico ucraino Vladimir Vernadskij nel 1925 con la sua opera La biosfera. Era stato un altro russo, Aleksei Pavlov, a formulare il concetto di Antropocene nel 1925, come documenta una citazione de La grande enciclopedia russa. Fu sempre Vernadskij a portare all’attenzione del pubblico l’idea che la biosfera combinata con la cognizione umana aveva creato la noosfera e, quindi, che gli esseri umani erano e sono una forza biologica. Partecipando alla discussione dell’“età della mente”, era stato il gesuita, geologo e paleontologo francese, Pierre Teilhard de Chardin a coniare il termine noosfera nel 1922.

Appare evidente che abbiamo operato una rimozione conformista, riguardo a quanto stava accadendo, in ragione delle nostre azioni e dei nostri comportamenti, sul pianeta di cui siamo parte. Lewis e Maslin conducono un’analisi stringente e rigorosa in cui si evidenziano due processi fondamentali:

 

  • la disposizione umana a persistere in comportamenti e scelte all’insegna del “di più è meglio”, ponendosi al di fuori, o meglio, al di sopra dell’ecosistema di cui l’umanità è parte;
  • l’orientamento a far prevalere la forza dell’abitudine, non prestando attenzione alle discontinuità e ai limiti costitutivi delle risorse disponibili.

 

Tutto questo caratterizza l’esistenza e il comportamento di una specie che, è bene non dimenticarlo, arriva sul pianeta Terra circa quattro secondi prima della mezzanotte, se si utilizza l’espediente di considerare la durata della Terra di un solo giorno. Eppure, come scrivono Lewis e Maslin: “Ora esiste una nuova forza naturale che modifica la Terra: Homo Sapiens, le cosiddette persone “sagge” [p. IX]. L’influenza delle azioni umane è molto più ampia di quanto siamo disposti a riconoscere, e il conformismo prevale nettamente sulla nostra generatività possibile, sulla nostra capacità che pure esiste di cambiare idee e comportamenti. Il libro documenta il gap sistematico tra l’impatto ambientale di questo animale con grosso cervello, quale noi siamo, dai nostri antenati sapiens fino ad oggi, e la nostra indisponibilità a riconoscere i limiti delle nostre azioni traendone apprendimenti generativi di nuove vie e prospettive di presenza sul pianeta. 

 

Il libro di Lewis e Maslin si basa su quattro temi principali. Il primo riguarda il fatto che i cambiamenti ambientali causati dall’attività umana sono aumentati al punto che le azioni umane costituiscono una nuova forza della natura, che determina in misura crescente il futuro del pianeta Terra. I cambiamenti indelebili e pervasivi prodotti dall’uomo, confrontati con i cambiamenti del passato, mostrano che l’Antropocene è una fase veramente nuova e importante. Il secondo tema del libro analizza le quattro transizioni principali che modificarono in maniera fondamentale sia le società umane sia i nostri impatti ambientali sul sistema Terra. Due transizioni sono legate alle forme d’uso dell’energia e due alla scala dell’organizzazione sociale umana. Con l’avvento dell’agricoltura e la relativa organizzazione sociale si crearono le condizioni per catturare una quantità maggiore di energia del Sole. Gli agricoltori trasformarono i paesaggi e nel corso del tempo modificarono la composizione chimica dell’atmosfera tanto da stabilizzare il clima della Terra. La colonizzazione geografica da parte degli Europei, all’inizio del Cinquecento, ha prodotto una connessione planetaria e un’organizzazione degli scambi per cui si sono ridefinite radicalmente le condizioni economiche ed ecologiche globali, con il nuovo modo di vivere capitalistico che si è diffuso, includendo quasi tutta l’umanità. Con la terza transizione si produce un ulteriore aumento repentino dell’energia disponibile. Gli esseri umani hanno imparato ad estrarre e usare grandi quantità di antichi depsiti concentrati di energia solare, con l’uso dei combustibili fossili. Fu l’origine di un esito prodotto dall’uomo, di portata particolarmente rilevante. Gli esseri umani, dopo 2,6 milioni di anni in cui sulla Terra si erano alternate fasi glaciali fredde e fasi interglaciali calde, nel corso del tempo le azioni umane sono arrivate a produrre qualcosa di notevole: il differimento di una nuova era glaciale e la creazione di un nuovo stato planetario, uno stato più caldo dei periodi interglaciali. La quarta transizione è stata descritta col nome di “grande accelerazione” e, a partire dal periodo successivo alla seconda guerra mondiale, è stata determinata da istituzioni e scambi che hanno generato cambiamenti profondi nei cicli globali e negli impatti ambientali, tali dare inizio a un esperimento pericoloso per il futuro della civiltà umana. 

 

La terza parte del libro di Lewis e Maslin cerca di definire con precisione l’effettivo inizio dell’Antropocene. Il metodo utilizzato è tanto semplice quanto efficace sul piano scientifico. Gli autori si sono messi alla ricerca del golden spike, il “chiodo d’oro”, il punto oltre il quale la Terra procede verso un nuovo stato.

L’Orbis spike, il punto in cui si registra una riduzione pronunciata e di breve durata dell’anidride carbonica atmosferica presente in una carota di ghiaccio antartico, avvenuta nel 1610, segna il momento in cui si può osservare lo scambio colombiano nei sedimenti geologici. Con la colonizzazione gli Europei portarono nelle Americhe malattie diverse e il vaiolo, in particolare, uccise più di cinquanta milioni di persone. Il collasso delle società native determinò la riforestazione in un’area così estesa che la quantità di anidride carbonica atmosferica assorbita dagli alberi in crescita fu sufficiente a raffreddare temporaneamente il pianeta. Fu l’ultimo momento temporaneamente freddo prima dell’inizio del caldo durevole del pianeta. Il 1610 segna l’inizio di una nuova era e la quarta parte del libro analizza gli scenari possibili di evoluzione dell’umanità nell’Antropocene.

Vi sarà una quinta transizione a una nuova forma di società umana? O siamo simili a batteri su una piastra di Petri, che si moltiplicano fino a consumare ed esaurire le risorse disponibili?

Molto dipende dalla nostra capacità di adattamento creativo e, come ci ricorda costantemente Amitav Ghosh, dalla nostra capacità di creare simbolicamente una nuova narrazione di noi stessi, con azioni conseguenti.

 

Ecco che la questione torna alla creatività e al nostro legame estetico col mondo in cui viviamo. Gianfranco Pacchioni col suo lavoro scritto in dialogo costante con i sorprendenti e anticipatori testi di Primo Levi, L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, [Prefazione di Telmo Pievani, Il Mulino, Bologna 2019], si chiede, appunto, se saremo in grado di frenare in tempo nella nostra corsa senza limiti verso le Colonne d’Ercole. Se l’uomo è artefice della propria sorte, non ci resta che scoprire quale.

Quello che Primo Levi ha chiamato “l’emendamento del vizio di forma”, nel risvolto di copertina del suo libro che si intitola Vizio di forma, appunto, richiede un investimento simile a quello del Barone di Münchhausen, che per uscire dalle sabbie mobili deve tirarsi su per il codino.

L’esperienza estetica, la narrazione, la creazione di simbologie e mitografie orientate a un’educazione diffusa alla vivibilità, possono essere di particolare importanza per sostenere la genesi di idee e comportamenti basati sulla sostenibilità. L’estetica e la bellezza sono azione e conoscenza e non solo contemplazione. Per l’efficacia di propositi come quelli espressi in questo contributo, è necessario, però, cambiare prospettiva nel modo di intendere la bellezza, l’estetica e la creatività. La bellezza concepita secondo un canone classico, che tuttora persiste e pervade analisi e atteggiamenti, è intesa come contemplazione della realtà e del mondo. Quella posizione si basa su un principio di osservazione a distanza, in cui per il soggetto umano sarebbe possibile collocarsi al di fuori della realtà che osserva, che vuole comprendere e che vuole cambiare. Una posizione simile, oltre a essere non corrispondente alla nostra esperienza effettiva, ha prodotto e produce danni incalcolabili basati sulla presunzione di superiorità di homo sapiens. Come ci segnala Edgar Morin, la capacità estetica umana può diventare l’occasione per una presa di distanza da noi stessi, in modo da guardarci dal di fuori e renderci conto della nostra condizione in questo nostro tempo.

 

Siamo parte del tutto e l’esperienza estetica che genera il sentimento di bellezza è un’esperienza sociale, che nasce dall’intersoggettività situata e responsabile. Se la creatività è la nostra capacità di comporre e ricomporre in modi almeno in parte originale i repertori del mondo; se la bellezza emerge da una risonanza particolarmente riuscita tra soggetto e mondo, tale da poter estendere le possibilità individuali e collettive, allora nel gioco dell’estetica, della struttura di legame tra noi e il mondo in cui viviamo, può nascere la creazione di un mondo vivibile per noi esseri terrestri, umani e non.

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