Pigrizia, stanchezza e il nostro continuo correre

26 Marzo 2015

Domenica abbiamo pubblicato su Doppiozero un’intervista di Roland Barthes sul tema della pigrizia. I dati di lettura di questo pezzo sono stati, sin dai primi minuti on line, superiori a ogni attesa. Certo: è Roland Barthes; certo: Radiotre in quel giorno annunciava lo speciale Barthes per i cent’anni dalla sua nascita; certo: è un’intervista e dunque più facile, ammiccante e leggera. Tutte variabili in qualche misura preventivate e che tuttavia non sono sufficienti per dare ragione di un numero così alto di lettori, ragione che forse – quando si tratta di scarto imprevisto, di effetto inatteso – deve essere ricercata più dal lato di quel je ne sais quoi che risiede, banalmente, in quel che si dice: i contenuti, il tema, le parole, il messaggio che in quelle righe la voce di Roland Barthes veicola con una tale incisività.

 

La pigrizia. Una pigrizia tuttavia che non ha forma filosofica, che non è l’otium latino, che non è nemmeno quella che potremmo credere di conquistare seduti a un caffè dove, scrive il filosofo francese, ci sono comunque delle conversazioni e vi è, soprattutto, un dover ‘figurare’. La vera pigrizia differisce anche da quella che Barthes chiama ‘imbronciata’, caricando in maniera mirabile quel termine di tutto il senso di colpa di cui è permeato il nostro vivere, per cui non concediamo a noi stessi di non essere all’altezza delle nostre aspettative e ci vogliamo performanti e al passo con il correre del mondo. Nella vera pigrizia, scrive, il soggetto è quasi spossessato della sua consistenza di soggetto. E decentrato, tanto da non poter neppure dire ‘io’. Spogliarsi di tale potere, come se a parlare fosse una forza impersonale: smettere il nostro essere soggetti. Parla di questo, Barthes.

 

C’è un altro dato a sostegno di quello che vorrei qui provare a dire. Il pezzo più letto in Doppiozero, dopo Barthes, è la bellissima recensione di Riccardo Panattoni a Una stanchezza che cura del filosofo Byung-Chul Han. Pigrizia, stanchezza: ancora l’indugiare, ancora l’esitare, ancora il non rispondere immediatamente alle sollecitazioni. Scrive Panattoni, riprendendo i temi attraversati da Byung-Chul Han, che viviamo in un mondo senza interruzioni, senza intervalli, tempi morti o sospensioni. Vi è un eccesso di positività: niente vuoto, né mancanza. Ogni situazione chiede la performance, ogni “ombra” – così antivitale, così faticosa, così dannatamente in contraddizione con quell’immagine di noi, quell’essere soggetti, che abbiamo passato la vita a costruire – deve essere rimossa, visto il suo potere di condurci sui pericolosi terreni della depense, della dissipazione.

 

Non sorprenderà che scorrendo l’elenco di quel che il mondo cerca nel mondo, così come ce lo consegnano i freddi tabulati di google analytics, ci sono le parole di Caterina Bonvicini, che in Camminare insieme racconta della propria andatura da flâneur, parla del perdersi, del distrarsi, e scrive di legami che si mostrano nel saper camminare pigramente e in silenzio e insieme. O ancora le pagine che Gianni Celati, che abita quel procedere per deviazioni nel 'come' del suo stare al mondo, dedica a Leopardi e al desiderio, pagine in cui la letteratura non è altro che qualcosa che indica il niente che siamo, e Leopardi diventa l’occasione per pensare contro e oltre la tirannia che vuole che tutto sia assegnato, che tutto abbia un posto e un luogo. Il mondo, ci insegna il poeta di Recanati per voce di Gianni Celati, cancella continuamente il privilegio di essere in uno stato di mancanza.

 

E noi, mancanti, stiamo nel mondo con addosso un po’ di vergogna, come se quella condizione di dolore, di vuoto, di follia, quella paura e quella spossatezza, quella sensazione così violenta di ‘non farcela più’, riguardasse noi soltanto e mai anche gli altri, i nostri simili che non sappiamo riconoscere come tali; prigioniero il nostro sguardo di quell’immaginario che non vede oltre il dato positivo.

Abbiamo spostato il caos fuori da noi, nelle cose, nell'illusione di poterlo gestire correndo un po’ più svelti e senza pause, correndo con il correre del mondo.

Ma ho idea che non si vinca molto, in questo correre.

 

E allora è davvero la stanchezza che cura? O piuttosto il fare pace con il desiderio di poter essere stanchi, il desiderio di poter avere paura, di poter lasciare che qualcosa dica di quel granulo di follia che alberga nelle nostre viscere.  

 

È complicato assumersi il proprio desiderio, oggi, e lo è perché è complicato assumersi la mancanza, accettare di farci i conti, che è accettare di farlo con quanto abbiamo impiegato così tanto a rimuovere, cucendoci addosso, aiutati certo dai social network in cui è più facile fingersi sovrani di compostezza, l’abito a lungo progettato per fare fronte alle attese del mondo. E non abbiamo più – con i nostri telefoni sempre in mano e che non sono, come ci siamo illusi, l’occhio che ci consente di guardare il mondo, ma soprattutto l’occhio attraverso cui il mondo ci guarda – uno spazio segreto, e nostro, e silenzioso, e lento. Un luogo dove fermarci un attimo e metterci le dita nel naso.

 

Forse, questi dati, questo bisogno di parole che raccontino di questo segreto così noto a tutti, ci suggeriscono che dovremmo provare a tracciare, in quell’intervallo sospeso tra la rincorsa alla rapidità cui il web ci porta e il lungo lavoro che richiede il sapere, la letteratura – quel così lungo lavoro senza termine che ci sembra ormai al di fuori della nostra portata – un filo. Un filo sottile in quello spazio che è il luogo dove effettivamente siamo. Un filo cui aggrapparci, in maniera anche un po’ provvisoria, che tanto la salvezza perpetua non la regala la letteratura, né i troppi like sotto le nostre parole, né l’amore, né il legame che prova a resistere.

Un filo di parole da scambiarci con sempre meno vergogna, quella vergogna – il grande rimosso del nostro tempo – che torna a farsi avvertire quando sentiamo vacillare la nostra reputazione, quando temiamo di non meritare lo sguardo ammirato di cui siamo in cerca, il vero motore di quel tanto correre.

 

Lasciamo che sia Roland Barthes, allora, ad aiutarci a legittimare la pigrizia di cui la nostra spossatezza ha bisogno; lasciamo che sia lui – che di capitale reputazionale ne ha parecchio – a permetterci di smettere la vergogna di vergognarci.

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