Emma Reyes, lettere Bogotà - Parigi

5 Marzo 2016

Passando in rassegna la narrativa per l’infanzia e l’adolescenza dal marcato carattere progressista, nel bel saggio intitolato Non ditelo ai grandi (Don’t Tell the Grown-Ups, 1989, l’edizione italiana è oramai introvabile), Alison Lurie afferma: “Certi autori possiedono lo straordinario dono di restare bambini vita natural durante, di continuare a vedere il mondo come lo vedono ragazzi e ragazze e di schierarsi istintivamente dalla loro parte” (p. 22, trad. it. Francesco Saba Sardi). 

 

Non sapevamo giocare a niente non è un libro rivolto ai giovanissimi. Tuttavia, si sono volute citare le parole della scrittrice e studiosa statunitense perché in queste ventitré preziose lettere indirizzate a Germán Arciniegas, Emma Reyes (1919 – 2003) ha saputo fissare nello stile una concezione del mondo immaginifica che molto ha a che vedere con la categoria letteraria presa in esame da Lurie. Tale categoria comprende “i testi sacri dell’infanzia”, quei libri che, come Le avventure di Tom Sawyer e Alice nel Paese delle Meraviglie, anziché mostrare vite e condotte edificanti, suggeriscono strategie di esplorazione antagoniste, fondate sull’appropriazione del mondo per insubordinazione e ingegno. 

 

Così, la scelta di Emma Reyes di raccontare la propria infanzia all’amico (figura intellettuale molto nota in Colombia) coincide con la netta, seppur travagliata, decisione di una presa di posizione in favore di quella bimbetta bruttina, strabica e miserabile che è stata. In una delle lettere, tutte inviate tra il 1969 e il 1997, Reyes confessa, come se stesse disobbedendo per la prima volta a una lunga autocensura: “Ci sono momenti in cui tutto mi sembra confuso e non so se nell’insieme è possibile seguire la storia. Io non lascio copia perché scrivo di getto e ogni volta non mi ricordo più quello che ho scritto prima” (p. 35). Nella stessa lettera, rimprovera a Arciniegas di non correggerle la prosa, lasciandola quindi in balia di una narrazione che a lei sembra, ed è in errore, confusa e poco comprensibile.

 

Emma Reyes.

 

Dovranno passare molti anni prima che la memoria faccia il suo dovere, il tempo necessario affinché quest’ultima giochi un brutto scherzo alla famosa pittrice colombiana (più celebre in Francia che in patria), facendole iniziare a scrivere, quasi per gioco, un’autobiografia incastonata nell’“inclemenza dei duri sentieri d’America e più tardi [ne]i favolosi sentieri d’Europa” (p. 29). Infatti, è un importante evento della politica francese a riportarla agli anni in cui viveva a Bogotà. Lì, in una fetida stanzetta vicino a una fabbrica di birra, ha inizio il lento rimescolamento su carta dei ricordi e con essi delle immagini più dure della storia di un paese, la Colombia dei primi decenni del Novecento, che avrebbe potuto meritarsi un destino migliore. 

 

Così, trasferitasi a Parigi, mentre assiste alle dimissioni e alla plateale uscita di scena del Generale de Gaulle, Emma si ricorda improvvisamente di un altro illustre decorato, il Generale Rebollo, un pupazzo che modellò nel fango con un amico e che per qualche tempo divenne l’eroe della discarica dove si riuniva con i compagni di gioco, tutti figli della miseria. Anche il generale Rebollo a un certo punto cadde in disgrazia, e i bambini ne usarono il petto per fabbricare pallottole di fango. 

 

Non è azzardato vedere in quest’idolo di terra e sporcizia la rappresentazione totemica di quella catena di eventi politici e sociali che, dalla Revolución en Marcha (1934 – 1938), sfociò poi nella tragedia collettiva che fu l’assassinio del leader populista Jorge Eliécer Gaitán (1903 – 1948). 

 

Una delle immagini più rappresentative del Bogotazo, la rivolta popolare scatenata dall’uccisione di Jorge Eliécer Gaitán.

 

Sono proprio gli anni immediatamente antecedenti al fragoroso capitombolare di un instabile equilibrio politico quelli narrati da Reyes, nella cui sventura riecheggiano le disgrazie di un’intera nazione: “Ti sembrerà strano che io riesca a raccontarti nei dettagli e con tale precisione i fatti di un’epoca così lontana. Lo penso anche io, un bambino di cinque anni che abbia una vita normale non potrebbe ricostruire con tanta fedeltà la propria infanzia” (p. 75).

 

Disgraziata fin dal concepimento – come molti dei protagonisti delle pagine più importanti della letteratura latinoamericana, da Juan Preciado a Teresa Batista – Emma non conosce né il nome dei genitori, né il luogo della sua nascita, né tantomeno il motivo per il quale è stata affidata, con la sorella Helena, alle cure di una donna dispotica e violenta. Tuttavia, seppur cresciuta a suon di botte, Nené, come la chiamava la sorella, non è un personaggio infantile dotato di un’irreparabile passività. Le molte situazioni di cui è vittima, a volte comiche, spesso drammatiche, non le affronta mai con il buon senso della bambina abituata a seguire i consigli dell’autorità e votata all’accettazione del destino che le è stato imposto da una struttura sociale di matrice feudale, cattolica e corporativa. Stretta costantemente e fin dalla culla nella morsa delle necessità della sopravvivenza, non smette di sognare a occhi aperti, anche quando le fantasticherie si trasformano in deliri mistici. 

 

Così, a poco a poco, impara a giocare con le compagne del convento in cui è stata rinchiusa, perché anche le innocue attività fanciullesche sono fatte di norme che, se ignorate, possono essere feroci pretesti per l’esclusione. Mentre la bimbetta selvatica si addomestica al gioco, la famosa pittrice, colei che espose le sue opere accanto a quelle dei muralisti messicani, impara le regole di un altro tipo di simulazione della realtà, quella della scrittura, alla quale lei, autodidatta in tutto, non avrebbe dovuto nemmeno avere il permesso di accedere. Invece se ne appropria, con la cautela di chi ha imparato a compitare tardi, e, per non inciampare, si aggrappa più volte al suo interlocutore, che la sprona a continuare dimostrando vivo interesse per le vicende narrate: “Mio caro Germán, nonostante la tua discretissima lettera, mi sono accorta che muori dalla curiosità di sapere chi era la signora dai capelli lunghi” (p. 19). 

 

È cambiato tutto, quegli anni e quelle sofferenze sono lontani, eppure Emma ha la stessa forza di quella trovatella piena di pidocchi che faceva suo il mondo guardandolo attraverso un buchino negli occhiali di cartone nero che avrebbero dovuto raddrizzarle gli occhi. Non poteva saperlo, ma stava anticipando, analfabeta, la genesi stessa della sua scrittura, così simile ai fili dorati che usava in convento per ricamare le enormi e sontuose stoffe che solo lei poteva toccare.

 

Il libro: Emma Reyes, Non sapevamo giocare a niente, trad. it. di Violetta Colonnelli, Edizioni SUR, pp. 199, € 15.

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