Ricardo Piglia, L’ultimo lettore

14 Agosto 2023

L’affermazione “Capire è raccontare di nuovo” ricorre più volte nelle nove lezioni che compongono il libro Teoria della prosa, in cui Ricardo Piglia (1941 – 2017) analizza sette nouvelle dell’autore uruguaiano Juan Carlos Onetti. Per Piglia, che legge Onetti nel solco tracciato da Henry James con Il giro di vite, la nouvelle è la forma narrativa ideale per la costruzione di un narrato attraverso la messa in trama della figura del segreto. Nelle pagine dei testi onettiani presi in considerazione dall’autore argentino (tra i più noti ai lettori italiani ci sono Gli addii e Il pozzo), la nostra conoscenza dei fatti è legata alla restituzione che ne fanno personaggi che vedono e, per qualche ragione, non li raccontano per bene, oppure che si danno all’atto del narrare senza conoscerli veramente. Piglia afferma: “Un segreto è una storia che non ha fine” (Teoria della prosa, Wojtek Edizioni, 2021, trad. di Loris Tassi, a cura di Federica Arnoldi e Alfredo Zucchi, p. 123); il materiale sbrogliato, ma anche le parti residuali che, ogni volta, rimangono fuori dal tentativo di ripristino di una parziale integrità semantica, concorrono all’infinita ricostruzione dell’ordine degli eventi e di nuove verità nel narrato. 

Nelle lezioni sulle nouvelle di Onetti, il narratore è dunque l’istanza che determina la corrispondenza tra lo sguardo del lettore e quello dell’autore, perché entrambi si trovano a operare, in momenti diversi, con il segreto e i suoi effetti. Tuttavia, è possibile svincolare la frase “capire è raccontare di nuovo” dal ragionamento intorno a una specifica forma letteraria, la nouvelle, così da liberarla dalle maglie del segreto e farne una formula descrittiva a più ampio raggio: la lettura, uno specifico modo di leggere lavorando nel profondo, è contigua alla composizione dell’opera, entrambe intese come operazioni non solo complementari ma anche affini.

L’edizione argentina di Teoria della prosa risale al 2019, ma il materiale di cui si compone il libro, le lezioni universitarie tenute da Piglia a Buenos Aires, sono del 1995. Dieci anni dopo, nel 2005, esce El último lector, pubblicato in Italia nel 2007 nella traduzione di Alessandro Gianetti, ora riproposta da SUR. Costituito da sei capitoli pensati come saggi autonomi ma in un rapporto di reciproca dipendenza, L’ultimo lettore è, lo dichiara l’autore nell’epilogo, “il più personale e il più intimo di tutti [i libri] che ho scritto” (p. 217). Attraverso le pagine di Borges, Chandler, Flaubert, Joyce, Kafka, Poe e Tolstoj, Ricardo Piglia narra di sé e così dichiara la sua piena fiducia nell’immaginario letterario come luogo del sapere emancipatore perché opposto al processo di assorbimento totale del soggetto nell’ambiente esteriore, facendo della letteratura un modo di vivere: leggere è raccontarsi di nuovo.   

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“La critica”, scrive Piglia in un altro testo saggistico, ancora inedito in Italia, “è la forma moderna dell’autobiografia”. E aggiunge: “Si scrive della propria vita quando si pensa di stare scrivendo intorno alle proprie letture” (Formas breves, Anagrama, 2000, p. 141; la traduzione è mia). La traiettoria del lavoro di Piglia chiama progressivamente in causa la messa in campo di uno sguardo in grado di fare convergere lettura e scrittura dentro un processo di indagine potenzialmente infinito, che coincide con la vita. Il lettore che decifra, circoscrive e ordina scrivendo, in un percorso che non è estraneo all’abbaglio e alla sovrainterpretazione, si fa carico dell’irriducibilità della realtà letteraria e di quella extraletteraria. Interrogando entrambe, egli dà forma alla propria esistenza e rettifica ogni volta la visione del sé e degli altri, sapendo che non vi è separatezza tra l’io di chi esplora e il voi che fruisce dei risultati dell’indagine. Quest’ultima, l’indagine, è sempre parziale e provvisoria, ma proprio nella specificità dell’angolatura, piegata alle condizioni materiali e alle esigenze pratiche, e determinata da fattori emotivi e affettivi, risiede il suo valore conoscitivo. 

Si legge da un qui e ora che contrassegna lo sforzo interpretativo, definendone le possibilità e marcandone sempre i limiti. L’accento sull’arbitrarietà valorizza la lettura come esercizio di superamento, perché al lettore è affidata non solo la rimodulazione della realtà letteraria in accordo al proprio presente, ma anche la tematizzazione della contingenza e della finitezza. 
Il pericolo, allora, è che, nel ciclo della lettura, che arresta la vita e al contempo ne aumenta i giri, l’ultimo lettore (ultimo da intendersi non come chi occupa il posto finale, ma come chi è esemplificativo nella sua radicalità e tenacia) non riesca più a dirsi sazio e intraprenda un viaggio senza fine. È ciò che compie, secondo Piglia, l’eroe borgesiano “smarrito in una biblioteca”, “disperso nella fluidità e nell’indagine, che ha tutti i volumi a sua disposizione” e che “insegue nomi, fonti, allusioni” (p. 26). 
È il lettore alla Emilio Renzi, personaggio grazie al quale Piglia innesta l’esperienza della lettura in uno scenario poliziesco, in particolare in opere come Respirazione artificiale o Solo per Ida Brown, in cui il dominio della finzione suggerisce piste da seguire e verità da ricostruire (ritorna la figura del segreto: si legge per trovare qualcosa che manca – un segno, una traccia, un indizio).

Concentrandosi su “casi immaginari” e su “lettori unici” (p. 216) che, coesistendo nel discorso, permettono di spostarsi agevolmente dalla dimensione intratestuale a quella extratestuale e viceversa, Ricardo Piglia delinea la sua personale storia della figura del lettore. Quest’ultimo è membro di una “società immaginaria […]” (p. 24), vale a dire di una rete, sempre estensibile nello spazio e nel tempo, di soggetti che, pur praticando ostinatamente l’isolamento, non possono dirsi soli. In essi e nei loro simili la necessità interpretativa del mondo coesiste e non confuta il loro movimento di astrazione dalle cose e dagli uomini, necessario anche per il tempo della composizione. Attraverso la lettura, infatti, si opera una ricostruzione narrativa verso un nucleo assente, lo stesso nucleo verso cui si incanalano gli sforzi della scrittura. Così inteso, l’atto di leggere è l’impresa conoscitiva di chi, misurandosi con i testi, rinnova il proprio modo di stare nell’epoca in cui si trova a vivere e ad agire. 

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Ma che ne è delle lettrici? Qual è il loro rapporto con l’immaginario rispetto all’interazione tra i fatti della vita e l’esperienza della lettura? Come si collocano tra i rappresentanti e portavoce del dominio della pagina scritta? 
In uno dei capitoli più suggestivi del libro, il penultimo, intitolato “La lanterna di Anna Karenina”, Ricardo Piglia dedica le sue riflessioni alla figura della moderna fruitrice di romanzi, isolandone alcuni tratti e inserendola in una rete di analogie e risonanze che coinvolgono un vasto panorama letterario. 
Il testo si apre con la scena in cui Anna Karenina legge in treno un romanzo inglese, scena presente nel ventinovesimo capitolo della prima parte dell’opera di Tolstoj; Piglia ne fa l’innesco di un intrigante percorso su alcune “protagoniste del consumo narrativo” (p. 156) tra Otto e Novecento, tra cui Madame Bovary, Beatriz Viterbo dal racconto “L’Aleph” di Borges, Molly Bloom dell’Ulisse e la stessa Anna Karenina. 
Il merito di Piglia è di non avere relegato l’ultima lettrice (volgiamolo, il titolo, anche al femminile) in una riserva, vale a dire all’interno di un apposito capitolo dedicato alle donne, perché, in verità, di ultime lettrici, in carne e ossa o fittizie, è costellato il libro. Tuttavia la loro presenza rimane ancillare, perché inquadrata in un discorso che delinea repertori esperienziali di presa di possesso del mondo e dell’immaginario che sono appannaggio di figure maschili. Si annoverano tra questi casi, ad esempio, Felice Bauer e Sof’ja Tolstaja. La prima, “la piccola dattilografa, come la chiamava Kafka” (p. 75), è protagonista di una relazione per corrispondenza con l’autore, che costituisce secondo Piglia “un esempio straordinario della passione per la lettura dell’altro, della fiducia nell’azione che la lettura ha sull’altro, della seduzione per mezzo delle parole” (p. 41). La seconda, Sof’ja Tolstaja, “che copia sette versioni complete di Guerra e pace” (p. 75), è anch’essa legata indissolubilmente al maschio che scrive, in questo caso il marito. 
Con Felice Bauer e Sof’ja Tolstaja, Piglia concentra la sua attenzione sui modelli della “lettrice-ascoltatrice” e della “lettrice-copista” (p. 80) che, insieme alla “donna-musa” (p. 77), costituiscono le tre principali tipologie fantasmatiche di “donne di scrittori” (p. 77), cui si sommano la “donna infedele che legge” (p. 199), Madame Bovary e Anna Karenina ne sono emblemi noti, e la lettrice concupiscente, che troviamo esemplificata nel personaggio di Molly Bloom. 
Se si seguono le tracce della storia segreta che unisce queste lettrici, ci si accorge che il loro rapporto con il testo scritto è inesorabilmente mediato da un sentimento di fascinazione subalterna che può riguardare l’oggetto letterario, chi l’ha composto o entrambi. 
Se, come suggerisce Piglia, si legge per trovare nel testo anche ciò che è stato omesso, allora si segnala che mancano, in L’ultimo lettore, altre ultime lettrici che, accanto alle figure citate, avrebbero potuto arricchire l’assortimento, donne alfabetizzate e istruite, la cui centralità nell’evoluzione della pratica della lettura, connessa anche a forme inedite di socialità, è spesso rimossa. Nel libro si racconta invece di personalità uniche, isolate ed eccentriche, lettrici inavvertite pericolosamente esposte alla loro stessa capacità di non essere indifferenti alla parola scritta, un’arma che però si puntano addosso. In esse agisce lo sguardo maschile sotto l’incantesimo di un bovarismo di ritorno: la lettrice rappresentata a immagine e somiglianza dei personaggi femminili di cui legge.

La controparte della lettrice solitaria nelle maglie dei segni e delle ipotesi è l’investigatore. Simmetricamente agli antipodi, egli è altrettanto isolato, però basta a sé stesso, è indipendente, agisce in autonomia e di rado deve rendere conto a qualcuno. Scarsamente suggestionabile, è lui a ripristinare e a comporre la verità attraverso il suo “sguardo attento e addestrato” (p. 91). Nella sezione del libro intitolata “Lettori immaginari”, infatti, Piglia dedica ampio spazio alla ricostruzione di questa tipologia di lettore che dall’Auguste Dupin bibliofilo di “I delitti della rue Morgue” arriva fino a Philip Marlowe, il detective protagonista di alcuni tra i più noti romanzi di Raymond Chandler, tra cui Il grande sonno e Il lungo addio, su cui Piglia si sofferma. Marlowe è “erede e discendente diretto della serie dei celibi alla Dupin” (p. 100); nel suo caso la marginalità si tinge di eroismo attraverso il rifiuto di scendere a patti con le regole del mondo sociale entro cui opera e dal quale, al contempo, ha scelto di allontanarsi astraendosene, nel solco dei poeti maledetti e degli assassini. 
Egli non vive à rebours ma contropelo, come chi legge marciando perché ha deciso di imbracciare le armi ed è costretto a pensare al contrario per giocare d’anticipo sul nemico. La trattazione di questo profilo si trova subito dopo le pagine sull’evoluzione del genere poliziesco ed è dedicata a Ernesto Guevara. Il passaggio da una categoria all’altra, dal detective al guerrigliero, risulta essere una felice scelta di carattere narrativo, che imprime un’orma duratura di sé. È qui, infatti, che Piglia rinforza, rendendola stabile nella memoria di chi legge il suo saggio, la figura del lettore così come l’ha intesa fin dalle pagine iniziali del libro: “Fuori da ogni contesto, in mezzo a ogni situazione, risoluto nella sua determinazione. Intransigente, pedagogo di sé stesso e di tutti” (p. 155).
L’ultimo lettore è allora colui che, refrattario all’idea della lettura come passatempo, ne fa un esercizio di attivismo utopico, fuori dagli automatismi del senso comune che la vorrebbero tra i riempitivi dell’esistenza. 

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