Verde Eldorado
Verde Eldorado, di Adrián N. Bravi, pubblicato da Nutrimenti nel 2022, è la storia di un esule. Ugolino Contarini, così si chiama il protagonista-narratore, ha trascorso la sua infanzia a Venezia. La sua è una famiglia di commercianti di tessuti, tuttavia il ragazzo è poco interessato all’attività paterna e trascorre le giornate tra i libri custoditi nella biblioteca al secondo piano del palazzo, distante dal viavai di persone che frequentano la bottega. Destinato ad assolvere al ruolo accessorio e decorativo dell’instancabile lettore di famiglia, avrebbe potuto dedicarsi agli studi filosofici, se un evento funesto non gli avesse cambiato per sempre la vita scompaginando i propositi del padre circa il suo futuro.
Attraverso una narrazione a ritroso in prima persona, è lui stesso a raccontare, “dopo tanti anni in mezzo alle piante e agli animali” (p. 51), gli accadimenti che lo hanno portato nel luogo remoto da cui scrive “con un occhio spento e l’altro mezzo guercio” (p.13), nelle terre dell’immenso estuario dei fiumi Paraná e Uruguay, “questo territorio inasprito dagli uomini e dalle belve” (p. 13). Il racconto risale fino all’incidente che lo ha sfigurato e all’inappellabile decisione del padre di allontanarselo dalla vista mandandolo nelle pericolose contrade americane depredate dagli spagnoli e dai portoghesi: il volto di Ugolino è irriconoscibile. Le fiamme di un incendio che si è propagato dalla stanza accanto alla biblioteca, tra gli scaffali su cui sono sistemati i tessuti, lo hanno divorato. Ugolino è scampato dalla morte ma il fuoco l’ha lasciato in vita con un corpo “simile a quello di un satanasso” (p. 21). Egli è un mostro dolorante in balia dello sguardo altrui, la sua nuova anatomia modellata dalle fiamme suscita pietà nelle donne e ripulsa negli uomini, per questo motivo vive confinato: “Dopo l’incendio non ero più sceso nel cortile di casa. Lo contemplavo dalla finestra del secondo piano, davanti alla quale trascorrevo gran parte del mio tempo, un tempo vuoto che riempivo […] con l’attesa di vedere qualcuno di sotto” (p. 69). Dopo mesi di convalescenza, ritenuto oramai impresentabile dal padre, è costretto ad abbandonare il confino domestico e la sua città. È così che, suo malgrado, il ragazzo sostituisce le traversate nei territori della conoscenza con un rischioso viaggio transoceanico verso l’ignoto.
È il 1526, Ugolino ha quindici anni. Il padre ha predisposto tutto per la sua partenza verso Sanlúcar de Barrameda, in Spagna, lo stesso porto da cui nel 1519, sette anni prima degli eventi narrati, è partita la spedizione di Ferdinando Magellano. Ugolino si imbarca controvoglia sulla flotta di Sebastiano Caboto (Venezia 1480 circa – Londra 1557), Piloto Mayor di Castiglia. È proprio del 1526 l’impresa di Caboto, il quale, una volta salpato da Sanlúcar per le isole Molucche, cambia rotta e si dirige verso le coste dell’America meridionale, forse alla ricerca di favolose ricchezze.
L’epoca rinascimentale e la sua temperie, che per la Corona spagnola ha coinciso anche, “sul piano economico”, con un lungo periodo di “esazione” e di “sfruttamento rapace”, e, “sul piano intellettuale”, con “l’inquietudine” di “sapere che cos’è l’America e che cosa vi è in essa” (Saùl Yurkievich, “La persistenza dell’origine”, in Storia della civiltà letteraria ispanoamericana, Utet, vol. I, p. 4), hanno stimolato l’invenzione di un personaggio, Ugolino Contarini, e della sua voce, in grado di attribuire un senso unitario al trapassato e al presente. Adrián N. Bravi ha collocato queste due dimensioni temporali in una cornice di coerenza che le allaccia tenendo insieme l’esperienza dello sradicamento nelle terre del non plus ultra americano con il modo di intendere contemporaneo le istanze che rimandano ai processi di emancipazione da ogni orizzonte di pensiero governato da un unico modo di vedere e intendere le cose. Esso è incarnato, in Verde Eldorado, dal padre di Ugolino, perno e bussola attorno al quale orbitano le vite altrui: oltre a quella del ragazzo, anche quella della madre, donna dedita alla preghiera, relegata alla funzione riproduttiva.
Dal suo destierro, “in una capanna vicino alle rive del fiume rosso che attraversa le foreste” (p. 56), oltre i limiti di ciò che è conosciuto, Ugolino consegna al nostro qui e ora il proprio appello, che, dalla terra estrema in cui è approdato dopo essere stato costretto ad abbandonare gli affetti, attraversa i viluppi della selva e dei secoli per chiamarci a resistere, perseverando nel rifiuto di soccombere alle circostanze del mondo.
Prima di arrivare al villaggio in cui vivrà da superstite tra i cannibali, Ugolino viaggia sulla nave del Piloto Mayor come cronista di bordo: “Voglio che tu prenda nota di tutto, senza farti sfuggire nulla, mi raccomando” (p. 30), gli dice dopo averlo accolto nel suo palazzo. Qui, nello spazio bianco che ogni impresa umana remota lascia nella trattazione e nella trasmissione dei fatti all’arbitrio di chi vuole tornare a narrarla, i due personaggi, uno reale e l’altro inventato, ratificano davanti a una scrivania su cui poggia un gigantesco mappamondo la commistione tra Storia e finzione letteraria che vige lungo tutto il libro: “Con lo stesso sguardo con cui aveva studiato le isole o le coste sulle mappe, [il Piloto Mayor] ora studiava la configurazione delle mie cicatrici” (p. 29). Se i tratti di un personaggio ne designano la predestinazione, nei segni del deturpamento e della sofferenza che Ugolino porta su tutto il corpo sono preannunciate le impervie e tortuose vie di una migrazione coatta, perché imposta dalla legge paterna, da cui Adrián N. Bravi attinge, nel passato, materiale di fantasia per scrivere sul futuro, affidando alla voce del ragazzo il compito di aprire passaggi imprevisti di resistenza, di preservazione e, in definitiva, di riscatto.
Pur rispettando le coordinate offerte dal vasto universo della letteratura della Conquista e dalla tradizione del genere cronachistico, dalle pagine di Verde Eldorado emerge il vaglio critico del passato coloniale, mai aperto e palese, ma la storia di Ugolino, estraneo ed eccentrico, rivela i tratti caricaturali e sinistri non tanto del suo aspetto, quanto delle forze latenti dell’immaginario dell’epoca. In questo senso l’eldorado, scampolo di follia collettiva, è l’emblema che trova nel motivo del cannibale il suo rovescio, nonché un dispositivo ideologico efficace per relegare l’alterità nell’ignoto spaventoso, rendendola passibile di condanna e di annientamento.
Rifiutato dalla civiltà e graziato dalla barbarie, perché scampato alla furia dei cannibali grazie ai segni che le fiamme gli hanno lasciato sul corpo, Ugolino è il centro di una trama che, senza idealizzare la realtà indigena, si colloca nel solco dell’ampia tradizione letteraria che ha indagato il modo in cui l’America è stata prima immaginata come mondo possibile e poi raccontata. Tuttavia, Verde Eldorado non cade nell’apologia di un altrove benevolo inteso come ultima riserva di umanità, e neppure nell’esaltazione della figura dell’abietto che, secondo uno schema noto, dovrebbe trovare sollievo definitivo in questo altrove. La spinta all’affrancamento dalla condizione di marginalità sorregge la narrazione di Ugolino, sopravvissuto due volte, per illuminare del personaggio la capacità di perdurare nella trasformazione. “Don Salamandra”, così lo chiamano in famiglia dopo l’incidente, è in effetti un anfibio capace di sopravvivere nell’immenso acquitrino del Río de la Plata e in mondi diversi, tra l’immaterialità della febbrile fantasia dei conquistatori e la concretezza della modernità violenta che ha travolto i conquistati.
Nel nome della madre, e nel nome di chi si è trovato a soccombere, in una terra spogliata, dentro una struttura del vivere diversa dalla propria, Ugolino mette in discussione la giustezza di un ordine che ha ratificato le sue sventure. Rielaborando per iscritto la propria storia, egli apre un varco verso il possibile, dando in pegno la vita dentro uno spazio utopico dove “le piante […] pulsano di scimmie e pappagalli” (p.156).