Kalpa Imperial: l’enigma delle cose che restano e cambiano

4 Maggio 2023

“Ti ricordi?” è la domanda intorno alla quale si sviluppa il racconto “Inviti superflui” di Dino Buzzati; è rivolta a una donna forse lontana, con la quale, paradossalmente, la voce narrante che la formula non condivide alcun ricordo. Non è infatti a qualcosa di realmente accaduto che si riferiscono le sue parole segrete perché mai giunte alla destinataria, bensì a un “di là” che è un’ipotesi nel passato, in cui i due, s’immagina la voce, avevano vissuto insieme, camminando “per gli stessi sentieri fatati […] attraverso le foreste piene di lupi”, mentre qualche essere fantastico li osservava “dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi”. In quei luoghi, continua la voce, “guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava”. Questa dimensione irreale e meravigliosa della memoria presente nelle parole appena citate dai Sessanta racconti è possibile rintracciarla anche nelle voci che animano le pagine di Kalpa Imperial (Roma, Rina Edizioni 2022, traduzione di Giulia Zavagna, prefazione di Loris Tassi), di Angélica Gorodischer (1928 – 2022). 

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Anche qui, nelle undici storie che compongono il libro, è affidato al dato favolistico e fiabesco un sentimento di non aderenza alle circostanze materiali esperite nella realtà. In entrambi i casi (utopia a due nel racconto di Buzzati, utopia collettiva nel testo di Gorodischer), si allude alla ricerca di una dimensione diversa da quella determinata dai fattori di un presente che è perfettibile, almeno agli occhi di chi narra – non tanto per il contenuto esplicito del narrato, quanto per la sua intenzione. Quest’entità che parla, e che in ogni capitolo di Kalpa Imperial assume le sembianze di un cantastorie, racconta l’enigma, per nulla sovrannaturale, delle cose che perdurano cambiando. Egli (ella, perché non è detto che il narratore sia sempre una voce maschile) vede e apre in continuazione sentieri e direzioni nei vasti, indeterminabili territori di cui scrive l’autrice argentina, un imponente intrico da sciogliere e da riannodare ogni volta. Il racconto si estende su larghissima scala: la millenaria storia delle forme, delle relazioni e dei vincoli. In Kalpa Imperial, la dimensione spaziotemporale da cui si enuncia, fin dall’incipit dell’opera, “Il narratore disse”, cedendo così la parola, subito all’inizio di ogni capitolo, a una voce di secondo grado (il cantastorie), è dunque un presente altro non riconducibile a un passato noto, le cui coordinate rimandano in tutta l’opera a distanze lunghissime solo parzialmente e persino contraddittoriamente raccontate dai narratori che si susseguono nei capitoli. Questo presente altro che, ad ogni nuova storia, si rinnova, è il travagliato risultato della volontà di futuro di cui tutto il libro è pervaso, e che pare funzionare contemporaneamente da punto di partenza, da anticipazione e da punto d’arrivo dell’intero ciclo. 

Con Kalpa Imperial, Angélica Gorodischer costruisce una narrazione a cornice sottraendo alla vista la cornice, e, al contempo, garantendone sottotraccia la forza propulsiva, che consiste nella consapevolezza, da parte di tutti i cantastorie, di raccontare fatti di una storia condivisa che appartiene a tutti, un patrimonio orale disseminato e soggetto a contaminazioni. Ne emerge una materia duttile e permeabile a ciò che ha carattere di ufficialità, e tuttavia indocile: la memoria è un campo di battaglia. Ciascun cantastorie è infatti garante di una propria verità che, oltre a sovrapporsi a quelle degli altri cantastorie, si somma, per dichiarata fedeltà agli eventi narrati e per presunta oggettività, alle cronache, ai trattati di storia e agli annali dell’Impero, cui si affianca talvolta per emendarli e integrarli, “Tutti sappiamo quel che successe in quegli anni, […] Ma poiché mai tutto è detto […] io potrei raccontarvi […]” (p. 296), o per opporvisi, “Miei cari amici, quando sentirete raccontare quest’episodio affrettatevi a precisare che no, non andò esattamente così […]” (p. 259). Di bocca in bocca, appellandosi tanto alla storiografia (quei libri spessi e difficili da maneggiare cui a un certo punto si fa riferimento), quanto all’eterogeneo materiale del quale è composta la tradizione orale (leggende, ballate, miti, credenze popolari), si sancisce l’eterna, perché scalfibile e riplasmabile, possibilità di rinascita dell’Impero dalle proprie macerie. L’avvicendarsi di degradazione e rigenerazione non si fissa su carta ma nel sentito dire, da cui partire per ricominciare a raccontare, di nuovo e sempre, le diverse interpretazioni del che cosa è successo veramente: “Vi racconterò io come andarono le cose […]” (p. 116).

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Ekow Nimako, Kumbi Saleh 3020 CE, foto Samuel Engelking, Vienna, Welt Museum.

La prima storia, “Ritratto dell’Imperatore”, narra la ricostruzione dell’Impero successiva a un’epoca remota di terrore, di intrighi e di feroci assassinii. La racconta il primo dei cantastorie anonimi che è possibile incontrare per le strade e nelle piazze delle città; rivolgendosi di tanto in tanto direttamente a un “voi” che ascolta, i cantastorie nutrono la memoria collettiva di fatti avvenuti durante un passato lontano dentro i confini di un’entità territoriale, l’Impero appunto, difficilmente collocabile su un mappamondo. Come non è possibile ubicare geograficamente le sue frontiere, è altrettanto arduo definirne la durata sulla linea temporale della storia conosciuta degli uomini. Tuttavia è certo che l’Impero di cui narra Kalpa Imperial “è morto […] di molte morti diverse” (p. 27), nessuna delle quali ha portato alla sua scomparsa definitiva. Di questi trapassi, uno in particolare, conseguente al periodo più lugubre e funesto per il popolo soggiogato, funziona da innesco della narrazione all’interno di un presente scaturito da una concezione ciclica del tempo, in cui gli uomini, precipitando nella barbarie, imparano la civiltà, per poi finire di nuovo nell’abisso più oscuro.  

Le storie contenute in Kalpa Imperial uscirono agli inizi degli anni Ottanta: Gorodischer le scrisse durante il regime militare. Furono originariamente pubblicate in due volumi da Ediciones Minotauro a Buenos Aires (Libro I: La casa del poder, 1983; Libro II: El imperio más vasto, 1984), per poi essere ripubblicate in un unico libro a Barcellona da Ediciones Martínez Roca nel 1990. In Argentina, il cosiddetto Processo di riorganizzazione nazionale, durante il quale la junta di Videla cercò di riscrivere la storia della nazione con la violenza, cessò alla fine del 1983.

Se si torna al testo considerando queste date, la situazione iniziale presentata nel già citato “Ritratto dell’Imperatore”, questo qui e ora rischiarato in cui “non vi sono più accuse né persecuzioni né esecuzioni segrete” (p. 23) e gli uomini sono tornati ad essere uomini reimparando “a seppellire i morti” (p. 30), permette di leggere Kalpa Imperial non solo come un ciclo di storie sulla ferocia astorica del potere, o come una raccolta di racconti dal tono fiabesco e dal fitto contenuto meraviglioso (metaforico), ma anche come letteratura di anticipazione e di resistenza, in cui il dato ucronico parte dalla messa in discussione della contingenza storica e politica. Perché la rovinosa caduta dell’Impero cui si fa menzione nelle prime pagine di Kalpa Imperial, chiedendo ironicamente uno sforzo immaginativo a chi ascolta (legge), è più che plausibilmente simile, per modalità e per attori politici coinvolti (generali, capi di stato, vedove di capi di stato), ad una traduzione allegorica che allude al golpe del 1976 e ai successivi fatti storici in Argentina: “[…] figuratevi le città sventrate, i campi riarsi, le strade deserte; sentite il silenzio, […]. Non c’è cibo, non c’è acqua potabile, non ci sono mezzi di trasporto, non ci sono medicine, né gioia né libri di testo né musica né comunicazioni […]” (p. 30). 

Temporaneamente al sicuro, il cantastorie parla da un luogo e da un tempo collocati da Gorodischer in una dimensione imprecisata che tuttavia non esaurisce la sua carica di enigma con l’ipotesi della corrispondenza con lo scenario postdittatoriale: tutto in quest’opera, anche la sua temporalità interna, ha un forte carattere proteiforme. Essa è passato e futuro insieme, talvolta costeggia (o almeno, così è ragionevolmente possibile credere) le circostanze in cui avviene la stesura del libro, talaltra è in grado di corrispondere, travalicando questa prima dimensione, al presente di tutti e di ciascun lettore a posteriori. 

Al carattere proteiforme della temporalità interna coincide la percezione, da parte nostra, i lettori, di un forte senso di provvisorietà cui sono sottoposti i sudditi dell’Impero, che sembrano essere al riparo dai pericoli solo quando si fermano a imparare la suggestiva storia di chi li ha preceduti, dentro un paesaggio ora elegiaco ora sconvolto. Ogni volta che si conclude uno dei tanti resoconti fantastici, in cui però è pressoché assente l’elemento magico o soprannaturale accettato come dato di fatto (“Non si tratta di chissà quale prodigio, come credono i sempliciotti”, p. 134), ce li immaginiamo di nuovo raminghi e tra le sirti delle dissennatezze di governanti che guastano l’esistenza di generazioni passate e future. Tuttavia ad Angélica Gorodischer interessa l’iperbolico andirivieni tra cicli storici definiti dall’assalto al potere perché può farne anche altro. Che la barbarie non le basti lo si capisce dal sistematico ritrarsi dei personaggi rispetto alla loro collocazione nella schiera dei probi da una parte e nella schiatta dei meschini dall’altra. La costruzione epica, infatti, è costantemente presidiata dalla distanza ironica del punto di vista. L’ironia, messa a disposizione della capacità immaginifica e retorica, rende la voce di chi racconta un sofisticato setaccio di materiale antropologico e d’invenzione attraverso cui concepire il testo come un campo di forze: la Storia, sempre allegorizzata, e l’immaginario. Anche la misuratezza della lingua concorre a tale scopo. 

Non di rado, quindi, i personaggi trascendono l’atemporalità intermittente in cui sono invischiati e, attraverso il loro agire, alludono alla possibilità di una frattura in seno ai motivi dell’eterno scontro tra le forze del Bene e le forze del Male. Essi fanno parte di un sistema di figure che ricorre a un insieme arborescente di corrispondenze e di doppi con cui Gorodischer rappresenta la subalternità e l’oppressione all’interno di una struttura di tipo feudale e imperialista. Le loro venture sono significative solo nel quadro delle vicende collettive, per questo possiedono una marcata pertinenza storica. Pur simultaneamente dentro un passato dalle venature medievali e rinascimentali, e un futuro dal sentore retroavveniristico, in cui leggiamo, per esempio, di rovine (“Ritratto dell’Imperatore”) e di fattorie sperimentali (“Assedio, battaglia e vittoria di Selimmagud”), essi affondano i piedi nella concretezza del conflitto: “questo mondo immaginario ha referenti reali”, afferma Loris Tassi nella sua prefazione. 

Kalpa Imperial, quest’inesauribile porzione di mondo immaginato – corpo utopico – è il dominio dove si esercita la reinvenzione dell’immaginario per poterla alterare; è la messa in forma, sfuggevole e ineffabile, della libertà affabulatoria, così autosufficiente eppure instabile e transitoria, perché predisposta al cambiamento e aperta alla manipolazione. Forse non è fantascienza, forse è, per dirla con Roberto Bolaño, Spirito della fantascienza: una certa indole rifondativa applicata all’ingegno narrativo il cui motore è costituito da una visione che intende suggerire una lettura schierata del presente. 

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