Julio Cortázar, L’altra sponda
Qualche mese fa la raccolta L’altra sponda di Julio Cortázar (Bruxelles 1914 – Parigi 1984), pubblicata nel 1994 in Appendice al volume dei racconti completi a cura di Ernesto Franco, è apparsa in libreria e nelle biblioteche come libro a sé, proposto da Einaudi questa volta all’interno della collana “Letture” (traduzione di Stefania Fabri e prefazione di Jaime Riera Rehren).
La raccolta è composta da tredici racconti in cui l’autore oltrepassa di continuo il confine tra il verosimile e l’inverosimile, mostrando attraverso tale andirivieni il posizionamento della sua scrittura rispetto alle inerzie che irrigidiscono l’esperienza percettiva e conoscitiva del mondo rappresentato. È un libro postumo, anzi, più postumo rispetto ad altri casi simili. Perché L’altra sponda arriva, letteralmente, se non dall’aldilà, da un luogo e un tempo in cui la coscienza dell’autore è ancora attiva e continua a irradiarsi fino a raggiungerci nel presente, parlando a noi come ai lettori a venire. Nulla di nuovo, allora, perché è con parole più o meno simili a queste e con toni altrettanto romantici che si usa definire i classici. Tuttavia, in questo caso la faccenda è diversa, insisto, letterale. C’è un’avvertenza all’inizio del libro, che qui riporto parzialmente:
“Forzando la loro distanziata esecuzione – 1937-45 – riunisco oggi queste storie […]. Anche se le ho ritrovate in quaderni sparsi, ho avuto la certezza che fossero reciprocamente necessarie, che la loro solitudine le perdesse. […] Le pubblico in un libro al fine di chiudere un ciclo e restare solo davanti a un altro meno impuro” [trad. di Stefania Fabri].
Si tratta di un frammento paratestuale scritto dall’autore di proprio pugno: è di Cortázar la voce che esige un destinatario cui rivolgersi subito e in presa diretta, un attimo dopo avere composto la raccolta e subito prima di consegnarla all’editore. Così l’autore – e non un curatore o una curatrice, cui spetterebbe il compito di introdurre il materiale inedito del defunto, perché è raro che questi faccia da sé – ci informa di alcuni fatti, spiegando le proprie ragioni; rende noto, per esempio, che ha scritto i racconti che ne fanno parte tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del secolo scorso. L’avvertenza ha una data: Cortázar parla direttamente dal 1945.
Per chi ha scritto queste parole, se in vita non ha mai pubblicato la raccolta? Vien da dire che le abbia scritte per il futuro, cui le ha volute recapitare conferendo loro un forte effetto di immutabilità. Leggendo, infatti, l’avvertenza redatta all’epoca della preparazione del volume per le stampe, l’impressione è che non sia mai stata cambiata nel corso degli anni: oggi come allora, Cortázar dichiara in poche righe e da un presente eterno che, dopo avere raggruppato questi testi, vorrebbe continuare a dedicarsi a un ciclo “meno impuro” di storie. Siamo finiti dentro a uno di quegli enigmi dei fantasmi che si rivolgono ai vivi omettendo dettagli importanti: di quali altri racconti sta parlando? Il secondo ciclo che menziona potrebbe essere un riferimento alle storie del famoso Bestiario, una raccolta di otto racconti pubblicata nel 1951 da Editorial Sudamericana, fondata, tra gli altri, da Victoria Ocampo, già ideatrice della rivista letteraria Sur e della casa editrice omonima. Entrambe, la rivista e la casa editrice, erano frequentate da un giro di autori specializzati, e non è un caso, in fantasmi, dai quali infatti tornerò a breve, perché questa, ribadisco, è anche una storia di fantasmi: Cortázar, il révenant che ritorna senza essersene andato, postumo anche in vita.
È il 1945, quindi, e Cortázar si trova a Mendoza, dove insegna letteratura francese presso l’Università di Cuyo (negli anni precedenti, prima nella città di Bolívar, poi a Chivilcoy, è stato insegnante di scuola secondaria); le narrazioni recuperate qua e là nei suoi quaderni meritano, così scrive l’autore, di stare vicine perché “reciprocamente necessarie”. Poi passerà ad altro, o meglio, in questo altro, che è un’idea e una scommessa, vi è già approdato: il conflitto tra ciò che ha scritto, i testi che sta scrivendo e ciò che pensa di riuscire a scrivere in futuro, forme contro altre forme. Tuttavia, si peccherebbe di anacronismo se si cercasse nella contrapposizione tra i due cicli di racconti, uno più impuro dell’altro a detta dell’autore, le tracce di un Cortázar più Cortázar rispetto allo scrittore delle narrazioni presenti in L’altra sponda. Come poteva, a quel tempo, incarnare il punto di vista di chi ancora non era, vale a dire il Cortázar che tutti conosciamo? Ma a quale Cortázar ci riferiamo quando diciamo di conoscerlo? È poi vero che ne esista solo uno, plasmàtosi nel tempo rettilineo del pensiero e dello stile intesi come forze ordinatrici? Siamo di fronte a un altro enigma, perché le parole dell’autore attestano tanto un significativo grado di implicazione nel processo che avrebbe portato il libro alle stampe, quanto la presenza di una spinta contraria.
Di Julio Cortázar è infatti altrettanto significativa la scrupolosa mediazione tra sé e il proprio lavoro, quest’ultimo sempre inteso anche come oggetto di una costante riflessione complessiva attraverso cui fare emergere una proposta organica e coerente (sono noti i testi saggistici, così come le lezioni e le interviste, in cui non lesina parole circa la costruzione di un discorso proprio, ben riconoscibile, intorno alla scrittura). Nel caso di L’altra sponda, la mancata pubblicazione in vita della raccolta da una parte e, dall’altra, il riferirsi, a più riprese, all’esistenza di un nucleo di racconti scritti sotto l’influsso di Edgar Allan Poe (talvolta li menziona quando intervistato e ne inserisce uno, “La mano”, in Il giro del giorno in ottanta mondi), ha contribuito a foderare di indefinibile fascino queste storie sospese così da renderle esse stesse parte integrante di un’opera narrativa la cui fine è in verità il suo inizio.
Esiste, nella letteratura fantastica, una categoria di personaggi: sono i non-morti, gli undead. L’altra sponda ne è il corrispettivo nel mondo dei libri: seppur collocabile nella schiera di quelli postumi, non sarebbe sbagliato catalogarlo nei domini dell’un- , perché è, letteralmente e a tutti gli effetti, un libro unpublished, se è possibile attribuire a questo participio inglese un carattere fantasmatico. L’altra sponda, infatti, seppur pubblicato, è un libro sospeso che si inscrive nella latenza. È l’avvertenza iniziale a trattenere questi racconti nel suggestivo interregno delle pagine che, appartenendo al ciò-che-avrebbe-potuto-essere, modificano dopo decenni il ciò-che-è-stato. A tal proposito, la perfetta aderenza del titolo alle circostanze estrinseche della sua pubblicazione è impressionante: L’altra sponda è un luogo insieme al di qua e al di là della dimensione puramente letteraria di questi racconti, oramai legati alla storia della sua ricezione tardiva.
Qualcosa (qualcuno: Cortázar contro Cortázar, forme contro altre forme) impedì alla raccolta di arrivare ai lettori a tempo debito e di fare parte così del vasto corpus pubblicato in vita, perché all’assemblaggio e alla scelta del titolo non seguì la pubblicazione, avvenuta quasi cinquant’anni dopo, un decennio più in là della morte dell’autore. La comparsa di una certa consapevolezza nel frenare l’impazienza della pubblicazione ha consegnato il libro al futuro. Così, leggere questi racconti successivamente alle altre opere di Cortázar, come è capitato di fare a me, determina un fruttuoso esercizio di rinnovamento del patto con l’autore, esteso e potenziato in questo libro dalla sua voce in differita che fa del primo l’ultimo round, dando all’inizio un’altra accezione. Non siamo di fronte a un traballante incespicare nel tentativo di muovere i primi passi, bensì al coronamento di un piano narrativo così riuscito da assorbire il suo stesso ideatore: l’atto di aprire e quello di chiudere nel loro ideale e autonomo coincidere, che si rinnova ogniqualvolta ci si avvicina a queste pagine venute dal passato.
Torniamo allora alle circostanze della progettazione di questo libro latente. Esse coprono l’arco temporale della scrittura dei tredici testi di L’altra sponda e hanno a che fare con quella che potremmo chiamare, insieme a Ricardo Piglia che l’ha isolata e spesso menzionata, la tradizione del Río de la Plata, che è un gruppo di autori e insieme un modo di intendere il fantastico.
Fra questi strenui oppositori della logica del realismo in letteratura, che concepirono la finzione, tutta la finzione, come il luogo in cui ciò che viene dato per naturale del mondo diventa inconoscibile, ci sono tre firme legate alla storia della già menzionata rivista Sur, che hanno a che vedere con il percorso intrapreso dal nostro autore attraverso gli antri e le fessure del fantastico. Furono infatti Silvina Ocampo, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares a concepire e a comporre la nota Antologia della letteratura fantastica, dove, in un secondo momento, apparirà anche il nome di Julio Cortázar.
Nella prefazione alla prima edizione, quella del 1940, Bioy Casares afferma che l’idea di un’antologia si materializzò in seguito a una conversazione notturna con i suoi sodali. Era il 1937, proprio l’anno in cui Cortázar iniziava la composizione di alcuni dei racconti contenuti in L’altra sponda. Dislocato rispetto agli ambienti letterari di Buenos Aires, avrebbe iniziato a inviare testi alla rivista Sur a partire dal 1948 (il primo fu una nota sulla morte di Antonin Artaud): i fili sciolti delle singole esperienze si intrecciano in una trama che vede la letteratura luogo della volontà umana di conoscenza, in cui si incontrano posizioni e discorsi di soggettività diverse e complementari. Le traiettorie artistiche dei quattro autori in questione, ciascuna con le proprie, forti specificità, sarebbero poi confluite nella storia universale del fantastico moderno, contribuendo a ridefinirne i connotati storici, formali e contenutistici.
Circa trent’anni dopo quella notte del 1937 in cui Ocampo, Borges e Bioy Casares pensarono di trasformare una conversazione in un libro che espandesse i domini di ciò che può essere considerato narrativa fantastica, mentre Cortázar componeva “Il figlio del vampiro” o “Le mani che crescono” – entrambi i racconti, presenti in L’altra sponda, sono datati 1937, allora è lecito immaginarlo, e un’immaginazione può anche non essere falsa – lo stesso trio lo accolse nell’edizione ampliata dell’antologia, quella del 1965. Nell’indice del volume, che è in ordine alfabetico per cognome, Cortázar, destinato a essere uno dei protagonisti dei mutamenti novecenteschi del modo fantastico, si trova, e non poteva esservi luogo più appropriato, tra Cocteau e Chesterton.
È l’emblematico racconto “Casa occupata” a essere scelto dai tre curatori, già presente in Bestiario e, prima ancora, nel 1946, nel mensile Los anales de Buenos Aires, diretto da Borges. Solo due anni prima, nel 1944, Cortázar pubblicava in rivista il racconto “Strega”. Tra i più memorabili in L’altra sponda, è la storia di una donna che, consumata dall’incessante lavoro di edificazione di un altrove fantastico, muore, e la sua morte è simile, a detta dei medici al suo capezzale, “alla maturazione di un frutto” (L’altra sponda, p. 75). Dentro al frutto si trovano i semi dello spavento e della vertigine: “lì c’ero io, ancora morto, che mi aspettavo” (p. 60).
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