Ingratitudine / Il lato oscuro del dono
«Un demone mediocre e minore, che, fatto il lavoro sporco, passa la consegna a un suo superiore più titolato a ordire opere malefiche, indifferente alle urla umane, ferite ogni giorno dalle ingratitudini grandi e piccole». Descrive così l'ingratitudine nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Ingratitudine (Raffaello Cortina Editore), Duccio Demetrio, il filosofo dell'educazione fondatore dell'Università dell'Autobiografia di Anghiari. È quel sentimento che spinge a mostrare indifferenza o addirittura ostilità contro chi ci ha beneficato. Per un animo meschino, sentirsi debitore di qualcosa, dovere anche solo un poco di riconoscenza a qualcuno è tanto insopportabile da farne un nemico. L'ingratitudine è un atteggiamento difficile da spiegarsi, che «sempre…ferisce e umilia», afferma Duccio Demetrio, e si manifesta in molti modi. Talvolta cancellando la speranza di un'amicizia che l'ingrato rinnega senza spiegazioni, talaltra con un tradimento che lascia sgomenti e sprofonda in una solitudine immeritata. Un semplice e incomprensibile mancato saluto basta a provocare sofferenza e sconcerto e, prosegue Demetrio, colpisce sempre come violenza e disincanto, minando l'illusione che gli altri siano fondamentalmente buoni.
È difficile accettare l'idea che un gesto positivo possa essere sconfessato e ricambiato con ostilità. Per farlo, e a questo l'autore cerca di condurre i lettori, bisogna guardare onestamente in se stessi, ricordare le proprie esperienze, riconoscere di avere sofferto per l'ingratitudine altrui, ma anche che, molto probabilmente, qualche volta si è stati ingrati. La memoria delle ingratitudini inflitte e subite costella la storia personale di ognuno; in misura diversa, naturalmente, secondo il tipo di persona e l'educazione ricevuta perché, come rileva l'autore, la gratitudine si impara.
Duccio Demetrio, da sempre propugnatore della narrazione autobiografica come forma di psicoterapia e di autoeducazione per l'età adulta, è convinto che ignorare le sofferenze, comprese quelle causate dall'ingratitudine, significhi rinunciare a conoscere una parte di sé, giacché «noi siamo sempre anche il male che ci hanno fatto e abbiamo inferto». In tal modo ci si condanna a reiterare e a soffrire di nuovo lasciando aperta la porta a mali maggiori. Perché «l'ingratitudine sarà pure un angelo malefico indulgente, ma sta a presidiare la soglia di vizi e depravazioni morali ben più gravi». Essa, infatti, o meglio il sentimento positivo di cui è la negazione, cioè la gratitudine, ha la funzione di instaurare quel clima di fiducia reciproca, di generale benevolenza - nel senso di propensione al bene, anche a pensare bene dell'altro - indispensabile sia alla serenità del singolo, sia alla convivenza. In definitiva la gratitudine è una forma di giustizia, è il riconoscimento del valore altrui e nella sua espressione più alta, filosofica, si traduce in riconoscenza, dice Demetrio; un sentimento che restituisce agli altri la dignità che meritano, soprattutto quando sono poveri o umili o deboli.
Perdonare l'ingrato, e perdonare se stessi per essere stati ingrati, è importante ma è chiaro che il perdono non può - e non deve - cancellare la memoria. La sua funzione è di neutralizzare la forza generativa di male che le cattive memorie portano con sé, non di cancellare l'esperienza del male, semplicemente perché la storia non si può cancellare. Anche se dovessimo risorgere, la nostra carne resterà segnata dalle ferite della nostra storia. Però quelle ferite, divenute cicatrici, non faranno più male.
Insomma, Demetrio sviscera molti aspetti dell'ingratitudine e lo fa attraverso una specie di «decalogo di dieci possibili declinazioni» di un sentimento che, come una «ruga bruciante e non eliminabile», gli sembra di potere cogliere già nel momento in cui inizia a formarsi; per questo introduce i capitoli del suo libro con ritratti di bambini dai quali prende le mosse, di volta in volta, il suo discorso. Accompagnano tutto il percorso molti riferimenti ed esempi letterari e filosofici che vanno dall'imperturbata saggezza di Seneca e Marco Aurelio, alle passioni della tragedia shakespeariana, passando da Ovidio alla Bibbia, da Pinocchio a Saint-Exupery.
Se trattando dell'ingratitudine si parla necessariamente del suo contrario, la gratitudine, questa richiama al pensiero di ciò che la provoca, al bene ricevuto e al suo simbolo per antonomasia: il dono, cui si ricorre per parlare di solidarietà, amicizia, carità, fratellanza e così via. Ma il dono è davvero questo? O, per lo meno, è solo questo? C'è indubbiamente nel dono, come forse in ogni cosa, un «lato oscuro» e lo indaga il giurista Cosimo Marco Mazzoni nel saggio Il dono è il dramma (Bompiani).
Il lato oscuro è quello in cui il dono, invece di indicare premura e liberalità, diventa un «corpo estraneo che porta squilibrio, disordine, incertezza» e nasconde un fine ingannevole o una trappola. È il cavallo di Troia che introduce il nemico nella città assediata provocandone la caduta; è il sangue che il centauro Nesso morente dona a Dejanira suggerendole di intridervi una tunica e farla indossare al marito Ercole per riaccenderne l'amore quando le sembrerà affievolirsi, e che invece ne provocherà la morte; è la mela invitante e perfetta che la strega dona a Biancaneve per avvelenarla, o l'altrettanto tentatrice e mortifera mela che Eva, ingannata, fa mangiare a un Adamo compiacente e passivo. Oppure è il dono o il favore fatto per legare a sé indissolubilmente qualcuno costringendolo in un debito di cui, prima o poi, gli si chiederà il pagamento (il dono mafioso ne è l'esempio più ovvio, ma non il solo). È questa, afferma Cosimo Marco Mazzoni, l'altra faccia del dono, quella che non ha nulla a che vedere con i concetti di liberalità e generosità, normalmente attribuiti alla sua fenomenologia.
La duplice faccia del dono ne rappresenta le due varianti. Da un lato, esiste il dono come scambio, anche quello gentile che ci diamo a vicenda a Natale o che portiamo quando siamo invitati a cena; dall'altro, c'è il dono senza ritorno, frutto di carità o di beneficienza, o di liberalità e solidarietà se vogliamo usare termini più laici. Nel dono c'è sempre e comunque un'intenzione, che sia quella di ricambiare o sdebitarsi, di ottenere qualcosa in cambio oppure di dimostrare gratitudine, o semplicemente di esprimere una personale inclinazione alla bontà. In questo caso, il dare è gratis, non ci si aspetta nulla in ritorno se non forse, ma non necessariamente, gratitudine. Ma, come ci ha detto Duccio Demetrio, non sempre le cose si svolgono così; infatti, ciò che è gratuito ci interessa e ci solletica ma, ammettiamolo, ci rende anche molto diffidenti. Lo sappiamo, o meglio ne siamo convinti: nulla è gratis. Perciò timeo Danaos et dona ferentes, e subito cerchiamo l'inganno. Viviamo in una società talmente fondata, immersa, imbevuta di scambio e commercio da non avere più cognizione di un gesto che dona solo per affetto. È vero, come osserva Demetrio nel saggio sopra citato, che non solo bisogna sapere donare, ma anche sapere ricevere, per non essere ingrati.
Nel suo saggio Cosimo Marco Mazzoni dedica un capitolo alla gratitudine. Il termine gratuito, il cui nesso semantico con gratitudine è ovvio, sottolinea, ha un duplice significato: si riferisce sia a un oggetto offerto disinteressatamente, sia a un gesto insensato, fatto senza motivo che, perciò, suscita preoccupazione e perplessità. Persino il dono anonimo, teoricamente l'unico dono davvero perfetto, provoca «l'ansia di ciò che viene dall'ignoto: genera insicurezza, suscita sospetto. Induce a chiedersi: perché a me? Cosa c'è sotto?» È difficile credere a un bene dato in cambio di niente, lo è talmente che persino l'infinita gratuità dell'amore di Dio, predicata dalla religione, all'uomo pare sospetta. Benché non tratti la questione dal punto di vista teologico, spesso Mazzoni fa riferimento alla religione dato il ruolo fondamentale della carità nel sistema economico e sociale pre-industriale. E indaga le ambiguità del dare e del ricevere attraverso figure e immagini tratte dai testi biblici, dalla mitologia e «dalle tante ritualità di oggi», ricavandone «un'immensa costellazione di figure che hanno una base in comune: ciò che il dono non è. Non è espressione di generosità, non è sentimento di amore, non è un atto gratuito, non un gesto spontaneo». È la valenza negativa del dono quella che interessa a Mazzoni, ma alla fine, consapevole forse che il suo lettore potrebbe essere colto da una certa amarezza, lo avverte di avere tratteggiato solo un lato della medaglia, mentre «c'è altro nel dono, c'è l'altra faccia, quella che qui non compare». Per fortuna.