Italo Calvino una biografia al cinema
Visibilità
«Quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare, è un nuovo modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo», dice la voce narrante mentre l’occhio della camera inquadra, quasi di scorcio, la sagoma dello scrittore che incede leggero sul bordo di un molo, come in bilico sulla soglia che segna l’inizio del mare e inaugura quello del film. Scritto a quattro mani da Marco Belpoliti e Davide Ferrario – con la regia di quest’ultimo e la partecipazione di Valerio Mastandrea, Alessio Vassallo, Filippo Scotti e Violante Placido – Italo Calvino nelle città racconta la vita dello scrittore attraverso le sue stesse parole e l’inseguimento discreto del suo sguardo che si muove tra le città “visibili” e “invisibili”. Ed è un’operazione tutt’altro che semplice quella di raccontare per immagini lo sguardo di un autore che all’istanza visiva aveva ricondotto l’inizio di tutti i suoi inizi e che dichiarava – nella quarta delle Lezioni americane (dedicata, appunto, alla visibilità) – che «all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale». In questa prospettiva, la frase di apertura del film (tratta dalla famosa e iper-citata lettera inviata il 1° dicembre del ’60 a François Wahl) appare come una sorta di manifesto programmatico non solo della parabola creativa dello scrittore ma della pellicola stessa. A sua volta, il film sembra il coronamento di un’altra parabola, che è quella degli “studi visuali” condotti da Belpoliti sull’opera di Calvino: un percorso che ha il suo fondamentale punto d’inizio con la pubblicazione de L’occhio di Calvino (Einaudi, ’96) e prosegue con l’antologia di scritti calviniani intitolata Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni (Mondadori) pubblicata nel 2023, in occasione del centenario. È dello stesso anno la mostra Pavese ospita Calvino corredata dal volume Un figlio della società delle immagini. Viaggio nei libri di Italo Calvino, recante un saggio di Belpoliti (Italo Calvino: l’arte, gli artisti e le immagini) che si chiude proprio con la citazione dalla lettera a Wahl posta in apertura del film (girato nello stesso anno), come se fosse una ripresa e continuazione – ostinata – del tema.
Leggerezza
La prima delle Lezioni americane, dedicata alla leggerezza, si apre (ancora) all’insegna delle immagini: si tratta delle immagini della mitologia (in particolare del mito di Perseo) che ci insegna – dice Calvino – ad attenerci alla «letteralità del racconto», a non aggiungere nulla di esterno che ci faccia «uscire dal loro linguaggio di immagini» poiché «ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca». Proprio questa sembra essere la logica adottata dal regista che, appunto, fa parlare Calvino attraverso le sue parole, sottraendo così il peso del commento didascalico e accademizzante per far vedere il “mito attraverso il mito”, mescolando sapientemente interviste originali (frutto di un accorto lavoro documentario) e frammenti di testo letti dai suoi alter ego (Scotti, Vassallo e Mastandrea – che ne interpretano rispettivamente le “tre età” della giovinezza, della maturità e della vecchiaia –, e Violante Placido che si fa carico di leggere e interpretare le sezioni dedicate a Le città invisibili). Un’ulteriore spia della convergenza di sguardi (quello di Ferrario e di Calvino) è la costante presenza degli specchi sui vari set: onnipresente nella poetica calviniana come elemento alchemico che raddoppia, moltiplica e allontana la realtà, lo specchio è infatti anche protagonista del succitato mito di Perseo dove agisce come dispositivo di visione indiretta che permette di guardare la realtà di scorcio offrendo una prospettiva laterale che distanzia le immagini dalle cose e dall’occhio. Quella distanza che nel mito di Perseo ci salvaguarda dalla pesantezza schiacciante di uno sguardo pietrificante e pietrificato è a sua volta condizione ancipite e necessaria di un guardare (e ce lo insegnano, tra gli altri, tanto lo sguardo aereo del signor Palomar quanto quello di Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista di Il barone rampante) come “azione a distanza” che permette di «contemplare il proprio dramma dal di fuori e dissolverlo», e cioè di alleggerirlo dal peso dell’esistenza.
Rapidità
Se il guardare – scrive Belpoliti nell’omonimo saggio contenuto nel volume enciclopedico Calvino A-Z (Electa, 2023) – «costituisce una messa a distanza del mondo» (per certi versi più contemplativa e “realistica” perché derivante dal mondo visibile), il vedere, di contro, «non è mai disgiunto dall’agire», ovvero da un “movimento” dell’occhio che è sia intellettuale (“conoscitivo”) che “mentale” e immaginativo. Sebbene questa distinzione non sia così nitida né lineare nelle opere di Calvino, Ferrario sembra alternare proprio questa duplice significazione mettendo in scena due diversi registri di immagini: uno in cui vengono raccontate le città “reali” dove ha vissuto lo scrittore (le città “guardate” da Calvino), con filmati d’epoca, fotografie e interviste; l’altro che segue il filo delle città “invisibili” – quelle viste con gli “occhi della mente” –, ambientate negli spazi quasi metafisici, astratti e irreali di un teatro diroccato, una fabbrica dismessa, una villa abbandonata. E se la fascinazione di Calvino per le città scaturiva dalla possibilità data da queste ultime «di esprimere la tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esistenze» (ossia come eco delle due inclinazioni coesistenti nella sua scrittura: quella che «si muove nello spazio mentale d’una razionalità scorporata» e astratta, e quella «che si muove in uno spazio gremito di oggetti»), l’incessante alternanza di questi due “registri visivi” nel film è anche un omaggio a quel principio di rapidità – enunciato nella seconda delle Lezioni americane – che è pure il saper «incatenare una storia all’altra e [il] sapersi interrompere: due operazioni sulla continuità e discontinuità del tempo» dove alberga il «segreto del ritmo».
Esattezza
Se nella lezione sull’esattezza ribadisce la pulsione a inseguire un «equivalente verbale di quello spazio [gremito d’oggetti] […] con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non scritto», come a voler ricalcare e coprire tutta la superficie visibile del reale mediante la parola (per poi constatare l’inevitabile fallimento – ci ricorda Belpoliti nel citato saggio sul Guardare – «nel passaggio dallo sguardo e dall’osservazione dell’occhio alla scrittura»), nel film assistiamo a una sorta di inversione di sensi dove, viceversa, sono le immagini a inseguire la parola. Come in una sorta di impeto menardiano, il regista sembra spesso voler ricalcare e ricostruire minuziosamente e, ancora, alla lettera, l’“occhio di Calvino”: così, ad esempio, quando le sue parole descrivono una ringhiera, ecco che subitanea ci appare sullo schermo; quando si evocano le sue “radici botaniche”, ecco che l’immagine germoglia. C’è una scena in particolare dove questo pedinamento della parola nei confronti dell’immagine pare raggiungere la massima tensione, fino a spezzarsi; nella scena in questione lo schermo è diviso in due parti: sul lato sinistro si vede Rafael Gualazzi in uno studio di registrazione intento cantare il brano Ora mi alzo scritto da Calvino e musicato da Luciano Berio («ORA MI ALZO E PRENDO DAL MIO BAR LA BOTTIGLIA DI GIN/ UN PO’ DI GHIACCIO E MI RISIEDO QUI»); sull’altro lato dello schermo, una figura femminile si avvicina al suo angolo bar, prende un bicchiere di gin, ci mette del ghiaccio e, con implacabile esattezza, si risiede al suo posto, mentre sullo sfondo incombe un grande occhio rotante dai colori cangianti. Eppure, nonostante la letteralità e coincidenza sinestetica della scena, l’effetto risulta oltremodo straniante (forse anche grazie alla complicità delle dissonanze di Berio), rivelando una sorta di crepa o fenditura tra parole e immagini. Ed è una sfasatura provvidenziale perché pare aprire un varco all’occhio dello spettatore, uno spazio dove l’immaginazione può ancora “pioverci dentro” e il “cinema mentale” può continuare a «proiettare immagini alla nostra vita interiore» (cit. Visibilità).
Molteplicità
Alla fine della lezione sulla molteplicità (l’ultima delle cinque “canoniche”), Calvino confessa che «forse la risposta che gli sta più a cuore dare è un’altra: magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale». Un desiderio in parte esaudito dal signor Palomar – non a caso l’ultimo dei suoi alter ego letterari – a cui viene lasciata l’ultima parola del film pronunciata sullo sfondo dell’inizio, quando l’occhio della camera lo seguiva, di scorcio, sul bordo del molo. Questa volta, però, non si tratta di insegnare un modo «di essere in mezzo al mondo»: infatti il signor Palomar «da un po’ di tempo s’è accorto che tra lui e il mondo le cose non vanno più come prima» e «decide che d’ora in poi farà come se fosse morto per vedere come va il mondo senza di lui». Non una morte ma un nuovo inizio in cui lo sguardo si posiziona alla massima distanza dal mondo per poterlo vedere, ancora.
Italo Calvino nelle città di Davide Ferrario e Marco Belpoliti sarà proiettato a Torino martedì 12 novembre, ore 20.45, al cinema Cinema Centrale (via Carlo Alberto 27) e a Milano giovedì 14 novembre, ore 21.15, Ariosto Anteo spazioCinema.