Corpi e identità mutanti
Come può un corpo, il “nostro” unico corpo, contenere la moltitudine che siamo? Come può un corpo coincidere con quell’essere che mai coincide con se stesso? Come può incarnare quell’individuo che, come ci insegna la psicanalisi a partire da Freud, è sempre e da sempre un dividuum, un soggetto intrinsecamente diviso, abitato da conflitti, attriti e scissioni? Come può l’anatomia “essere destino” ineluttabile, unica possibilità di quell’essere che, stando all’ontologia heideggeriana, è le sue stesse possibilità – sempre plurali, conflittuali, pro-gettate oltre se stesse? Come può quel corpo esser nostro, di noi soggetti che neppure ci apparteniamo mai del tutto?
Sono queste le domande che muovono quel torrente lavico che è la scrittura di Francesca Alfano Miglietti (FAM), le cui Identità mutanti sono state recentemente ripubblicate da «Shake edizioni», con il sottotitolo Contaminazioni tra corpi e macchine, carne e tecnologia nelle arti contemporanee e l’aggiunta di una nuova introduzione della stessa autrice. Libro-manifesto degli anni Novanta (la prima pubblicazione risale al 1994), è esso stesso corpo mutante, incerto, superficie instabile abitata dal mutamento. Prima ancora di essere un’indagine sull’identità mutante che si inscrive, si scrive e ri-scrive nel corpo – indagine condotta sulle e dalle pratiche artistiche – è innanzitutto un’affermazione dell’essere nel mondo dell’arte, del suo essere forza attiva, «moltiplicazione di energie nell’unica libertà possibile, quella dell’immaginazione». Pellicola sensibile su cui si imprimono, intercettano e anticipano i mutamenti del mondo, l’arte – nella febbrile scrittura di FAM – è un faro che illumina, disvela e suggerisce vie costellate da segnali di pericolo.
Gli artisti che vengono indicati nel corso del testo sono «portatori d’ansia che vanno oltre i confini di quello che si può fare, rischiando perciò il fallimento; creature rigettate da altre creature che, ogni giorno, devono ricucire i frammenti di sé medesimi», scrive Lea Vergine nella prefazione intitolata L’eterodossia del cuore: titolo che rinvia direttamente al “cuore” di Jean-Luc Nancy, a quell’Intruso perturbante che ci ricorda che siamo abitati dall’alterità e, per questo, mai del tutto appartenenti a noi stessi.
Gli anni Novanta sono gli anni del postumano, delle contaminazioni – o contagi – che hanno definitivamente dissolto ogni forma di specialismo; gli anni dell’AIDS, dei cyborg e della proliferazione dell’immaginario fantascientifico; gli anni della dissoluzione del Reale e il suo ritorno in forma di trauma incarnato dall’artificio dell’abiezione messo in scena da artisti come John Miller o Mike Kelley, che ci immergono in un “mondo anale” volto a sfidare l’ordine del Simbolico; sono gli anni in cui l’arte forza i confini del corpo fino all’apparente annullamento delle distinzione tra dentro e fuori, presentando corpi lacerati, penetrati, ridotti in frammenti; corpi senza organi, organi senza corpo. «Corpi, corpi di corpi, pezzi di corpi» – scrive Miglietti – come se il corpo si fosse ormai arreso all’impossibilità di contenere quell’incontenibile moltitudine che, premendo dall’interno, ha infine trovato il punto di rottura provocandone la disgregazione. Il corpo sembra aver incarnato quella mutazione che per l’autrice è «la nuova rivoluzione, è il linguaggio ribelle che ha dissolto l’identità in una moltitudine di schegge in accordo o in contrasto di vari “io” che possono convivere all’interno di uno stesso soggetto». Un impeto distruttivo, nichilista dove l’annientamento e la fluidificazione dell’individuo sembra essere l’unica possibilità di fuga da quella gabbia identitaria che è il corpo: «distruggere per esistere», scrive Lea Vergine, «ferire per divenire». E se «l’identità è una prospettiva mobile» – è questo il refrain del libro – allora il corpo deve essere altrettanto malleabile, mutante, incollocabile, in-fermo, indeterminato e indeterminabile: «bisognerebbe avere la possibilità di poter modificare il proprio corpo a seconda della moltitudine di identità che la mente produce», bisogna potersi scegliere o, per usare una formula nietzschiana, bisogna “diventare quel che si è”.
Era questa la promessa della tecnologia negli anni Novanta: quella di potersi scegliere, modificare ed estendersi oltre i limiti del corpo, in una dimensione che getta l’umano oltre l’umano attraverso la creazione di un’identità potenziata dalla fusione con la macchina o attraverso la smaterializzazione del corpo. Era questa la speranza riposta dagli “integrati” degli anni Novanta nella tecnologia: così, ad esempio, Marcel•lí Antúnez i Roca afferma che «allo stesso modo che nel Rinascimento, dove l’invenzione della tecnica della pittura ad olio ha permesso un prodigioso utilizzo di questo media, la nuova galassia cibernetica ci apre infinite possibilità» (dove lo slancio possibilista sembra essere un diretto strascico di quei “possibilisti” anni Sessanta in cui Miglietti individua gli antecedenti diretti della sua indagine); e, ancora, Stelarc (di cui nel libro è riportata una conversazione con FAM e Antonio Caronia) che ammonisce: «non dobbiamo avere paura di usare la tecnologia, non dobbiamo pensare alla tecnologia come ad un’interazione faustiana».
E adesso?
Cosa accade adesso, a quasi trent’anni dalla prima pubblicazione del libro? Cosa accade adesso che il futuro di allora si è compiuto ed è stato fagocitato dall’onnipotente onnipresenza degli schermi? Schermi che sono nuove gabbie identitarie, nuovi dispositivi panottici in cui, però, la paura e la paranoia dell’esser-visti, sorvegliati, parlati dallo sguardo dell’Altro si trasforma in desiderio, in spasmodica richiesta di validazione di un’identità ormai completamente demandata allo sguardo altrui, alle logiche e ai modelli della società dello “spettacolo”, sottomessa allo strapotere mediatico e alle sabbie mobili del capitalismo accelerato.
«La tecnologia è destinata a diventare immediata e personale, le conoscenze tecniche presto non saranno più di pochi addetti ma ognuno potrà creare la propria tecnologia», scriveva profeticamente FAM negli anni Novanta. In effetti, l’era dei social (e sono i social, forse, la svolta più importante nell’ambito della costruzione identitaria e della sua “iscrizione corporale”) è caratterizzata in primis della proliferazione dell’amatorialità, della possibilità di creare da soli la “nostra tecnica” e la nostra autorappresentazione. Tuttavia, l’esito non è stato quello auspicato da Miglietti, ovvero quello di un individuo che, finalmente, può scegliersi, somigliare a se stesso. L’esito è stato quello di un corpo schiacciato, appiattito, ridotto a una superficie sovraesposta che indica incessantemente se stessa e, lungi dal restituire l’identità a quel conflitto di possibilità che siamo, viene ricondotta e ridotta all’unuum.
E se l’arte ci aveva messo in guardia da questo pericolo presentando, come nel caso di Inez van Lamsweerde, corpi perfetti costruiti al computer, corpi sigillati, sotto vuoto, ridotti a «statue di carne sintetica» – scrive FAM – «senza identità, senza calore, senza vita, nell’ossessione della bellezza» (corpi che sono la negazione di quel potenziamento ed estensione oltre i propri confini che caratterizza le “identità mutanti”), oggi è sempre «l’arte, ancora una volta» – scrive l’autrice nella nuova introduzione al libro – a suggerire la via, a «‘far vedere”. Indicare e segnalare approdi e identità e corpi inermi», a farsi carico di quell’umanità invisibile, brutalmente contrapposta alla scintillante società dello spettacolo. Umanità disumanizzata fatta di migranti, profughi, reietti e poveri ridotti a ombre, a masse informi, difformi e uniformi. È sempre l’arte, conclude FAM, a «rivendicare per sé il corpo e soprattutto l’umanità».