Giorgio Manganelli e i suoi artisti
Trame e intrecci:
Nel 1969 Einaudi pubblica per la prima volta Nuovo Commento di Giorgio Manganelli. Già a partire dal titolo, il sublime mentitore – che due anni prima aveva dato alle stampe La letteratura come menzogna – insinua un paradosso di cui solo i “veri” mentitori sono capaci annunciando un “nuovo” che è davvero nuovo: un nuovo senza passato, senza relazione con alcunché se non con un nulla parimenti assoluto. Sì, perché il Nuovo Commento è un’acrobatica macchinazione dell’assenza volta a commentare un libro inesistente, un inautentico nulla dove niente nasce e (il) niente si moltiplica tramando uno spazio – dove il termine “trama” è da intendersi come «ordito o complotto» – «inabitabile affatto, centrale tutto, ovunque periferico, costantemente altrove». “Il libro è altrove” era anche la frase che si leggeva sulla fascetta del volume – quelle fascette che troppo spesso si perdono finendo per essere sempre “altrove” rispetto al libro – poi adottata come titolo da Andrea Cortellessa per il suo Il libro è altrove. Ventisei piccole monografie su Giorgio Manganelli (2020) – Luca Sossella editore – recante sulla copertina un’opera di Gastone Novelli, Il maggior divino, che faceva parte della serie di ventitré tavole realizzate dall’artista per illustrare Hilarotragoedia (1964), libro d’esordio (tardivo) dell’amico scrittore.
Sono proprio le tavole di Novelli ad aprire la mostra Illustrazioni per libri inesistenti. Artisti con Giorgio Manganelli curata da Andrea Cortellessa e inauguratasi lo scorso 22 settembre al Museo di Roma in Trastevere (22 settembre 2023 – 07 gennaio 2024): scrigno di-segni che, a fianco a Novelli, raduna opere di Achille Perilli, Toti Scialoja, Gianfranco Baruchello, Giosetta Fioroni, Lucio Fontana, Fausto Melotti, Luigi Serafini e Carol Rama a formare un universo di co-possibilità immaginifiche orbitante attorno a Manganelli, l’impossibile. Il titolo della mostra, nonostante e “oltre” le analogie con l’illustre inesistenza di Nuovo commento, è tratto dall’omonimo saggio contenuto in Salons (1987) dove Manganelli scrive che «dunque, il pittore è autore di un libro che sta altrove, un libro che tecnicamente non può scrivere – e di fatti non esiste – ma che, come ipotesi, non potrebbe agire se non fosse inseguito amorosamente dal dipinto che misteriosamente lo illustra […]. È letteratura insistente? Il nulla illustrato?». Passaggio, quest’ultimo, riportato pure in esergo da Cortellessa nel saggio Eterodossie del cuore che apre il catalogo (edito da Electa) della mostra trasteverina. Qui troviamo i preziosi contributi di Chiara Portesine, che con il suo virtuosismo scrittorio volteggia intorno al «gruppuscolo di “linguisti dell’immagine”, impegnati a scoprire (o a inventare) una figurazione alfabetica che tenga ostensivamente insieme disegno e scrittura»; di Paola Bonani, acuta esegeta delle topografie discendenti significate da Novelli per l’infernale Hilarotragoedia e di Maria Grazia Messina, la quale ricuce i fili che legavano le vite di Manganelli, Carol Rama e Lea Vergine.
Un intreccio quanto mai proficuo perché sancisce il riavvicinarsi del “Manga” all’arte: infatti, dopo l’idillio amoroso tramato con gli artisti negli anni Sessanta – anni in cui si dichiara più vicino all’ambiente artistico che a quello letterario – a seguito (e forse “a causa”) della scomparsa prematura di Novelli, Manganelli sembra allontanarsi dall’universo delle immagini. Sarà proprio Lea Vergine a riconciliarlo e riannodarlo all’arte sul finire degli anni Settanta, quando la studiosa lo mette davanti alle opere di Carol Rama esposte nell’ormai epocale mostra L’altra metà dell’avanguardia (1980) da lei curata. A ricalamitare Manganelli nella “violenza immobile” dell’arte era stata in buona parte – scrive Messina – la “nerità” delicata e feroce delle opere di Rama che, come un buco nero, ri-attira a sé l’imago caliginosa dell’oscuro scrittore (Elogio dello scrivere oscuro è uno dei testi riportati ne Il rumore sottile della prosa del ’94, dove Manganelli celebra, appunto, l’oscurità consanguinea al linguaggio). A chiudere il catalogo è proprio un testo di Lea Vergine scritto in occasione dei vent’anni dalla scomparsa dello “squisito funambolo” (così viene definito Manganelli dalla studiosa), intitolato L’eterodossia del cuore: lo stesso titolo che Cortellessa riprende, al plurale, nel saggio d’apertura ribaltando così la fine nell’inizio e moltiplicando l’eterodossia “per due”, a omaggiare i due “Grandi Nevrotici” (Vergine e Manga) dediti all’inseguimento amoroso e terribile dell’arte e della vita.
La genesi, al centro
«Mi sono sempre chiesto se con quel titolo Vergine non intendesse alludere pure […] a quell’altra forma di eterodossia che inguaribile avvince alle immagini il letterato, e alle parole l’artista», scrive l’altrettanto eterodosso Cortellessa nel testo inaugurale del catalogo. Un chiasmo che ricalca quello che soggiace all’intera mostra perché le “illustrazioni per libri inesistenti” sono l’immagine speculare e irriducibilmente eterodossa delle parole che “il letterato” aveva dedicato all’arte: parole raccolte in Emigrazioni oniriche (Adelphi, 2022) – testo curato sempre da Cortellessa in occasione del centenario di Manganelli – che, nel capitolo Esigui e iracondi, raduna molti dei testi consacrati agli artisti in mostra. Il primo saggio è dedicato a Lucio Fontana, unico artista – tra quelli esposti al Museo di Trastevere – che, per quanto si sa, Manganelli non conobbe di persona sicché il primo “incontro” è un incontro mancato, un’assenza di presenza aurorale e (a)generativa. Sempre a una non presenza è dedicato il testo del Manga che commenta il progetto (non) realizzato da Fontana per la Quinta Porta della Cattedrale del Duomo di Milano (per il concorso bandito dalla Fabbrica del Duomo che si trascinò fino al ’58 con Fontana e Luciano Minguzzi vincitori ex aequo e la conseguente rinuncia del primo) dove osanna l’ironia tragica ed erosiva (fino alla dissoluzione) del progetto.
Questa predilezione per un’agenesia proliferante e moltiplicatrice del nulla viene incarnata (o, piuttosto, non-incarnata), ad esempio, in una delle figure che (forse) abitano la “nerità” di Dall’inferno (1985): quel Dio–feto (forse) «depositario del progetto originario», anzi, di «tutti i progetti possibili» che animano l’accadere del nulla-Inferno; quel Dio-feto contenente il tutto ma che, tuttavia, «non è destinato a nascere. Mai. Esso è una presenza, una costante promessa di futuro» ostinatamente alludente a sé stessa, alla propria sterile e feconda non-esistenza. La Storia del non nato è pure uno dei memorabili racconti (senza trama) di Hilarotragoedia, l’opera illustrata da Novelli, quel giocoliere del segno i cui alfabeti – scrive Manganelli in Obbedienza alla legge dei segni riportato in Emigrazioni oniriche – erano sempre «ricondotti al momento nativo iniziale, in cui tutti i significati erano, ancora, irreparabilmente scomposti nelle sillabe, nei segni irriducibili». Irriducibilità di un «universo che non genera altri universi» – dice Manganelli a proposito della sintonia d’intenti tra Novelli e Perilli e alcuni dei Novissimi –: ulteriore forma di agenesia che, come scrive Cortellessa nel catalogo, è sintomo dell’irriducibile eterodossia tra immagine e parola, sicché se Manganelli pare impermeabile a qualsiasi malabarismo ecfrastico, gli “artisti del segno” cari allo scrittore sono spesso inventori di «alfabeti ancora da inventare» (come si legge nel testo-manifesto di Novelli, Pittura procedente da segni, del ’64) o creatori di oniriche morfologie dell’inesistente (ed è il caso della Pulcinellopedia di Luigi Serafini, autore del Codex e inventore di possibili linguaggi impossibili) che resistono, immobili e violenti, alla caducità del linguaggio sublunare. E allora, i cuori eterodossi di arte e parola si fondono in un’equivalenza impossibile e contraddittoria, dove l’immagine numinosa del segno, grazie alla propria fantasmagorica e immobile esistenza, raggiunge la grazia dell’immortalità.