Festival Vie / Deflorian/Tagliarini da Edouard Louis: vergognarsi di amare
Il suo primo romanzo, Farla finita con Eddy Bellegueule, è stato un vero caso letterario in Francia. In quelle pagine, scritte nel 2014 ad appena ventuno anni, Edouard Louis parla con chirurgica freddezza di sé, delle sue vicende più intime, di un’infanzia popolata da alcol, violenza e difficoltà economiche, del suo essere omosessuale in un mondo dominato da ottusità, ignoranza, frustrazione. Nel suo secondo romanzo intitolato Storia della violenza (come gli altri pubblicato in Italia da Bompiani), lo scrittore racconta invece un’aggressione sessuale subita la notte di Natale del 2012. La sua ultima opera, Chi ha ucciso mio padre, non riporta più in copertina la dicitura “romanzo”, perché si tratta piuttosto di una particolare forma di pamphlet, in cui la sua biografia s’intreccia a invettive, denunce, nomi e cognomi di politici reali che Louis ritiene responsabili diretti della rovina della vita di suo padre e di tutti gli appartenenti alla classe dei dominati e degli sfruttati; di quella parte di popolazione esposta, nelle parole di Ruth Gilmore citate in apertura del testo, “alla morte, alla persecuzione, all’omicidio”.
Chi ha ucciso mio padre appare più precisamente come un dialogo per voce sola, come lo definiscono Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, autori, registi e performer che hanno appena firmato la prima versione teatrale italiana del libro, affidandone l’interpretazione a Francesco Alberici, con cui hanno curato l’adattamento a partire dalla traduzione di Annalisa Romani. La voce, al solito, è quella in prima persona di Louis, che racconta momenti della sua infanzia, ma stavolta rivolgendosi direttamente al padre, in un monologo in cui ripercorre per aneddoti il loro rapporto, tentando la via non più di una sessantottina guerra ai padri, ma di una riconciliazione basata forse sulla consapevolezza del fatto che quei padri oppressori sono a loro volta violentemente oppressi. Per il festival Vie, nella scatola nera del Teatro delle Passioni di Modena, che con un sistema di plafoniere calate dall’alto e un’apertura sul fondo richiama vagamente la palestra di una scuola o la fabbrica dismessa suggerita dall’autore come ambientazione, il protagonista scalcia contro un mucchio di sacchi neri della spazzatura, che scopriremo contenere oggetti e vestiti che ricordano gli anni e gli aneddoti evocati nel corso del testo. Poi comincia a parlare, rivolto a una figura che in scena non c’è, simbolo forse dell’impossibilità di un dialogo che in effetti non si realizza. E non perché uno dei due non voglia parlare o ascoltare, ma perché forse, nonostante tutti gli sforzi, padre e figlio non si potranno mai davvero capire.
Attraverso i ricordi di Louis/Alberici vediamo ora un padre ossessionato dalla mascolinità, che ha abbandonato la scuola il prima possibile “perché sottomettersi alla disciplina del sistema scolastico è da femmine o da froci” per ritrovarsi infine con la schiena letteralmente schiacciata dal lavoro in fabbrica, un padre che detesta suo figlio e la sua effeminatezza, che gli proibisce di piangere perché gli uomini non piangono, e un attimo dopo un uomo che balla, porta il profumo e regala cioccolato alla donna che corteggia, un padre che difende il figlio, che farebbe ogni cosa per renderlo felice, perfino regalargli il cofanetto luxury di Titanic, benché costi troppo, benché preferirebbe che per il suo compleanno avesse desiderato un regalo più da maschio. A campeggiare in questo succedersi di quadri non è quasi mai la mancanza d’amore (e lo spettacolo lo sottolinea, prediligendo nelle scelte dell’adattamento momenti in cui emerge una grande tenerezza) ma il dolore di non poter essere capiti da chi si ama per una sorta di buco culturale che non si colmerà mai.
Al di là di tutte le semplificazioni sulla natura pura e diretta dei sentimenti, infatti, le grammatiche del sentire sono complesse: gli affetti s’impastano alle esperienze, ai percorsi di vita, e rendono l’anima più complicata, ingigantendo le distanze arrivano a rendere, in certi momenti, perfetti sconosciuti anche coloro che ci hanno messo al mondo e viceversa. Il padre dello scrittore può soffrire per la sofferenza inferta al figlio, intuire di aver sbagliato ad accusarlo e a umiliarlo per la sua omosessualità quando era solo un ragazzino fragile, e può soffrire perché ha fallito come marito, padre e lavoratore, perché non si è arricchito, non ha svoltato, non ha saputo dare un futuro sicuro alla sua famiglia, ma forse non capirà fino in fondo, con precisione, che il dolore di Edouard da grande, da figlio, da scrittore, sta soprattutto in questo dialogo mancante, nel suo sapere più di lui (che pure le ha subite sulla propria pelle) delle ingiustizie della vita. Nel suo soffrire per il desiderare un padre con un’altra vita e un’altra storia, pur amandolo moltissimo così com’è: “è normale vergognarsi di amare?” si chiedeva Louis nei primi anni di vita a Parigi, lontano da luoghi e persone delle sue origini. Il dolore sta nello scoprire, da studente, che i suoi genitori sanno meno cose di lui sulla caduta del Muro di Berlino, perché in certe vite la storia del mondo non arriva proprio, non ci arrivano né la cultura né la controcultura e le persone passano “senza transizione dall’infanzia allo sfinimento e alla preparazione alla morte”. Nel suo piangere già così adulto, di quando a soli sette anni vede distrutta da un camion l’unica auto che posseggono ed è angosciato perché non sa come farà adesso suo padre ad andare a lavorare in fabbrica, perché sa già che non li aiuterà nessuno: conosce già, da bambino, il posto (infame) che occupa la propria famiglia nel mondo. Nel suo sapere, vedere, capire quanto la limitatezza dei propri genitori sia figlia del mondo da cui proviene, della politica, dell’universo intero e non poterci fare niente; quanto il rispetto accanito delle assurde, ottuse regole di una mascolinità esibita, abbia impedito al padre di cercare un altro destino sociale attraverso lo studio, di rovesciare insomma quelli che Didier Eribon chiama i “verdetti” che si abbattono su chi è più debole economicamente e socialmente.
È straordinaria la capacità di Louis di raccontare in pochi tratti crudeli la condizione di povertà non assoluta ma debilitante della working class occidentale. La condizione di quella plebe contemporanea (mi approprio di una parola usata nello stesso senso da Elena Ferrante nell’Amica geniale) che ha poco a che fare con la famigliola povera ma onesta raccolta intorno a un tavolo in una cartolina in bianco e nero, e che sinceramente ha poco a che fare pure con la la famiglia disperata ma unita nell’amore raccontata da Ken Loach in Sorry We Missed You, ma che assume più precisamente i tratti di individui affaticati, che più che la contentezza del poco dei “poveri ma ricchi di onore”, rincorrono il modello e i valori dei ricchi, gli oggetti, il possesso, le tavole stracolme di cibo per le feste, anche se non ha alcun senso, anche se significa spendere soldi che non ci sono o sono costati sudore e ossa rotte. Nei suoi libri lo scrittore si ripete spesso, recupera e precisa aneddoti già scritti, come quando racconta di come suo padre abbia festeggiato per la morte del nonno, perché era stato un uomo violento. Più che le storie di alcool e di violenza di per sé, in effetti, sono centrali le implacabili riflessioni di Louis sulle responsabilità. Lo spettacolo le assorbe appieno e trasuda rabbia, voglia di vendetta verso quel mondo che “imponeva una vita tale che alle persone attorno a noi non restava altro che provare a dimenticarla – con l’alcol, attraverso l’alcol. O dimenticavi o morivi, o dimenticavi e morivi. Dimenticare o morire, o dimenticare e morire d’accanimento e dimenticare”.
Di chi è dunque la colpa? Chi ha ucciso suo padre? Louis fa nomi e cognomi, trasformando così la sua biografia in un pamphlet. La colpa, spiega, è di Chirac e del suo ministro della salute Bertrand che hanno sospeso il rimborso di medicinali contro i disturbi digestivi di cui il padre soffre essendo costretto a letto; è di Sarkozy che insieme a Martin Hirsch ha sostituito il reddito minimo per i senza lavoro con un reddito di solidarietà attiva che ha obbligato suo padre a tornare a lavorare nonostante la schiena già distrutta; di Hollande e della sua ministra del lavoro El Khomri che ha emanato una legge che permette alle aziende di sfruttare ancora di più i lavoratori; di Macron che ha prelevato cinque euro dai sussidi sociali. Sono loro, accusa Louis, ad avere distrutto intestino, schiena, sistema respiratorio e dignità di suo padre, sono loro che lo hanno ucciso, perché la politica è un fatto estetico per i ricchi dominanti, ma questione di vita o di morte per tutti gli altri.
Lo spettacolo ripercorre fedelmente questo j’accuse. È la prima volta che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini affrontano un testo non scritto da loro e per di più affidandolo a un altro attore, ma la coerenza del percorso che stanno portando avanti è lampante, non solo perché Alberici da quattro anni collabora con loro come autore, regista e attore, ma soprattutto per le questioni che ritornano e si affinano e si arricchiscono un’opera dopo l’altra: il rapporto tra figura e sfondo, la dialettica tra spirito e politica, la periferia come punto di vista privilegiato, la necessità di uscire dall’esercizio della riscrittura attualizzante e dall’attivismo ideologico che opprime le scene e la creatività, per trovare le parole, le forme, le immagini, le pause giuste per interpretare e raccontare come stiamo, cos’è che nonostante tutti i nostri sforzi ci scaraventa in uno stato di dolore inconsistente e subdolo, in un senso di impotenza e di perpetua apocalisse all’orizzonte.
Non che il testo di Louis non appaia semplificatorio nell’additare con assoluta certezza i cattivi della storia. In questo è diverso, certamente, da ciò che avrebbero potuto scrivere Deflorian e Tagliarini. Le invettive politiche contro qualcuno o qualcosa di preciso, infatti, non fanno mai parte della loro scrittura né delle loro interpretazioni, emergendo piuttosto da intrecci ricchi di sfumature. Ma Louis è uno scrittore giovane, perciò i suoi testi, che pure rivelano sapere e consapevolezza sociologica e letteraria in ogni riga, nascono inevitabilmente, direi per fortuna, da una esigenza vivida di fare i conti col mondo, di ribellarsi. Per fare la rivoluzione, d’altronde, occorre aver chiaro il nemico (ed è forse la mancanza di un nemico certo in questo universo complesso e sconfinato a renderci particolarmente inabili alla ribellione oggi). Il vezzo di formulare un discorso sul mondo, insomma, non ha preso il sopravvento sulla necessità di raccontare e ripetere di romanzo in romanzo storie che non vuole sentire nessuno e che per lui sono di importanza vitale, insomma di prendere a calci la vita personalmente, con le parole e con il corpo, per vendicarsi delle sue ingiustizie.
Quel che mi pare maggiormente interessante notare di tutta questa operazione, considerando tanto i trascorsi artistici che la performance in questione, è la somiglianza tra chi scrive e chi interpreta, ovvero la capacità praticamente identica di Edouard Luois e di Francesco Alberici di intercettare dentro la propria vicenda biografica dei momenti ad alta densità simbolica, letteraria, e di comporre (nel proprio linguaggio) delle immagini che parlano da sole, che mostrano invece di dire. Il talento, cioè, di attivare quel che in un saggio sulle antinomie del realismo contemporaneo il critico inglese Fredric Jameson definisce affect, all’incirca traducibile come un sentire che elude il linguaggio ed è vissuto nel presente del corpo, in opposizione all’ottocentesca emotion letteraria, ovvero l’emozione nominata, descritta. Naturalmente il materiale narrativo qui è già dato da Louis, ma Alberici trova il modo di farlo completamente suo, non perché lo interpreti in modo credibile facendo bene il personaggio dei Edouard, al contrario portando in scena tutto sé stesso, la sua personale rabbia, il suo giudizio, verso ciò che racconta pur attraverso le parole di un altro.
Vorrei approfittare di questo spazio e delle riflessioni suscitate dalla visione di questo spettacolo dopo una serie di altre pièce, film e romanzi, per aggiungere una nota a margine, una riserva che mi preme esprimere non sul testo o sulla versione teatrale di Deflorian e Tagliarini (che rispondono entrambi a quegli unici criteri che a mio parere attestano l’artisticità delle opere, ovvero l’autenticità della voce e la consapevolezza espressiva) ma rispetto all’entusiasmo sorto negli ultimi anni intorno al filone neorealistico in cui possiamo ragionevolmente collocare anche l’opera di Edouard Louis, accanto a decine di nomi blasonati come quelli di Bong Joon-ho, di Milo Rau, di Ken Loach. Per tutta la durata dello spettacolo (ma già mentre leggevo i romanzi) ho pensato ossessivamente a Émile Zola, al suo manifesto sul naturalismo, a quel modo (di impronta deterministica) d’intendere la scrittura come un laboratorio in cui si osserva con la massima neutralità possibile quanto poco libero sia un essere umano nel diventare altro da ciò che gli è stato impresso sulla nuca da ereditarietà, ambiente sociale ed epoca storica in cui vive. Durante un dibattito pubblico alla fine dello spettacolo lo scrittore, rispondendo a una domanda a proposito della sua capacità di riportare nella letteratura figure che ne erano state escluse per larga parte del Novecento, ha raccontato che sua madre una volta ha menzionato proprio Zola come uno che “sì, lui sì che si batteva per noi”. Ecco, pur comprendendo davvero la necessità di uscire da una stucchevole e falsa narrazione borghese delle nostre esistenze, io avverto sulla sponda opposta un fondo di populismo nella diffusa convinzione attuale (dei commentatori, soprattutto) che vi sia una sola e unica strada per stare dalla parte di chi soffre, ovvero che soltanto utilizzare l’arte per dare voce (quale voce si predilige, tra l’altro?) ai deboli e agli oppressi di ogni sorta, raccontandone minuziosamente e realisticamente la condizione effettiva, sia un’azione coraggiosa e lodevole. Per raggiungere quale obiettivo poi? Quello di rendere maggiormente consapevoli gli oppressori? È mai servito a qualcosa? L’esclusione dell’immaginazione, della trasfigurazione (ovvero della possibilità di raffigurarsi in forme altre da quelle che vedono gli altri) dall’orizzonte della cultura artistica di sinistra, più che espressione di una nuova lotta di classe mi pare scolpire ancora una volta nella pietra la rappresentazione già data di quella classe, mi pare certe volte una condanna a non muoversi di un passo da dove ci piazzano i nostri avi, il nostro passaporto, il caso, gli dei o il destino. Si parla tanto di de-colonizzare il linguaggio: e l’immaginario?
Chi ha ucciso mio padre è una coproduzione A. D., Teatro di Roma, Emilia Romagna teatro Fondazione, TPE-teatro Piemonte Europa/Festival delle Colline Torinesi, Fog triennale Milano Performing Arts. È stato uno dei pochi spettacoli che si è potuto vedere nel Festival Vie, bloccato dopo tre soli giorni e non molti spettacoli per l’ordinanza di Regione Emilia Romagna e Ministero della Salute per bloccare la diffusione del coronavirus.
Le fotografie sono di Luca Del Pia