Ferdydurke ritradotto / Gombrowicz, la maturità non è tutto

24 Marzo 2021

Leggere Gombrowicz è una pratica di igiene mentale che andrebbe ripetuta periodicamente. Non sono state rilevate controindicazioni; solo benefici (a meno di considerare il sottoscritto, che lo fa da cinquant’anni, la smentita decisiva). Per cui dovremmo essere grati al Saggiatore che da qualche tempo sta riproponendo la sua opera, anche con inediti come il diario intimo Kronos di cui hanno già parlato su doppiozero chi qui scrive e Francesco M. Cataluccio, santo protettore di tutti i gombrowicziani d’Italia.

Ora è la volta di Ferdydurke, uno dei libri più importanti della prima metà del ‘900, nella nuova splendida traduzione (o riscrittura, dato l’alto tasso di invenzione linguistica del libro) di Irene Salvatori e Michele Mari, corredato da un’introduzione dello stesso Mari e da una postfazione del citato Cataluccio. 

 

Scritto attorno alla metà degli anni ‘30  – dopo che l’autore  (nato nel 1904) aveva dato alle stampe i racconti Ricordi del periodo della maturazione (1933), poi confluiti con aggiunte posteriori in Bacacay (1957), che gli avevano attirato più grane e equivoci che riconoscimenti, nonché accuse di immaturità e altre reprimende –, Ferdydurke esce nel 1937 e crea subito scompiglio, tra i molti che lo reputano una bambinata provocatoria e si scandalizzano  e i pochi che lo riconoscono subito come un capolavoro, a cominciare dal grande Bruno Schulz che gli dedica uno splendido saggio, che si può leggere nel numero monografico che “Riga” ha consacrato a Gombrowicz (n. 7, Marcos y Marcos, 1994). Non era facile, specie in una Polonia ancora arretrata, tra le opposte retoriche della vecchia nobiltà da una parte e delle ultime generazioni attratte dalla modernizzazione nei suoi aspetti più superficiali dall’altra (entrambe oggetto di satira feroce nel libro), riconoscere la carica innovativa del romanzo per struttura e linguaggio, la sua serietà al di là dell’“atmosfera di invasivo e pervasivo pansarcasmo” in cui ogni evento narrato è immerso, per tacere dei molti elementi “profetici” dei temi affrontati e soprattutto del modo di affrontarli e decostruirli, in gran parte validissimi anche oggi.

 

 

La storia è semplice: Giuso, uno scrittore trentenne, che è anche il narratore di Ferdydurke, viene riportato controvoglia all’età scolare ad opera di un personaggio di nome Pimko, e cerca in tutti i modi di essere restituito alla sua età fisica e mentale (su cui però ha qualche dubbio lui pure) passando per i luoghi che più di tutti tendono invece a mantenerlo nella sua condizione di minorità: la scuola, una moderna famiglia cittadina (i Jovinelli), e la famiglia e la società tradizionali, qui incarnate dalla piccola nobiltà terriera ancora residente in campagna a cui anche i Gombrowicz appartenevano. Tre regni in cui il protagonista è accompagnato, prima, con una certa riluttanza, da Pimko, e poi dal suo compagno di classe, Mentino, invaghito dell’idea di giovinezza “naturale”, spontanea e ingenua, che sarà incarnata nella figura del “garzone”, non deformato dai comportamenti artefatti e dal “ghigno” che hanno tutti i compagni di classe, i giovani e gli adulti della città, secondo i rispettivi ruoli.

 

Le vicende sono scandite da due intervalli, o entr’acte comico-filosofici (due capolavori “teatrali” che anticipano quelli dei decenni successivi), a loro volta preceduti da due introduzioni altrettanto comico-filosofiche non nonostante, ma proprio nella seriosità polemica del loro tenore riflessivo, in certi passaggi un po’ datato e noioso invece.

L’ideale della giovinezza, la falsa maturità, l’infantilizzazione della società, la, l’infanzia che perdura e viene denegata, il conflitto tra le istanze che vogliono imbrigliare e regolare la vita biologica e sociale e quelle che vi si oppongono, la necessità delle prime e l’incontrollabile attrazione per le altre sono i temi principali del romanzo. Interessanti, ma niente di che, specie col nostro intelligentissimo senno di poi, se non fosse che il romanzo, ed è quello che conta di più, è una miniera ininterrotta di invenzioni di ogni genere, a partire da quelle stilistiche e formali, di analisi e descrizioni di contesti luoghi e consuetudini sociali acutissime nella loro resa paradossale, e di scene e sorprese narrative assolutamente irresistibili.

Come i cliché sociali, anche quelli formali e espressivi vengono aggrediti, denunciati e parodiati, al pari delle pratiche e delle presunte leggi costruttive del romanzo nel momento stesso in cui, scrivendo, se ne vanno formando altre sotto gli occhi di chi scrive, in primis, e poi di chi legge.

 

Niente ha stabilità. Tutto è ribaltato, deviato, immerso in una travolgente corrente di nonsenso, costretto a convivere con il suo contrario, a rinunciare a ogni pretesa di solidità e compiutezza. La maturità di ogni cosa e persona e relazione, intesa come consolidamento in un regime ontologico e esistenziale che può ambire a durare e a bastare a se stesso, è irraggiungibile, per quanto comprensibile possa essere il desiderio di conseguirla. 

Niente è solo quello che è: tutto “sembra colto di sbieco”, come viene detto in Pornografia; tutto cela qualcosa d’altro, ogni cosa è se stessa e anche, e insieme, altro ancora, da definire di volta in volta. E soprattutto “tutto è foderato d’infanzia”, per sempre. Non è un dramma, a saperlo e a tenerlo sempre presente quando il cambiamento e la dissoluzione e la regressione e l’incompiutezza bussano alla nostra porta. Praticamente sempre.

 

 

L’uomo nasce prematuro e tale resta. La sua maturazione è alquanto tardiva e resta segnata per sempre dall’immaturità originaria, incisa in modo indelebile nella sua mente e nel suo comportamento. Niente di grave. Il guaio è quando tale immaturità, e le età che meglio la rappresentano, l’infanzia e soprattutto la giovinezza, da qualcosa con cui convivere e da superare diventano un ideale senza tempo da perseguire. L’immaturità è l’informe, è confusione e energia, e prenderla a modello di vita è una contraddizione perché modelli e ideali sono irrigidimento, regola, in una parola forma. E niente è più sbagliato e stupido, tragico e comico, di pretendere di elevare, se non per ragioni tattiche temporanee, l’inferiore a superiore (“Riesco a respirare solo nelle regioni inferiori”, aveva scritto Walser, e certo Gombrowiz, che è difficile che lo conoscesse, la pensava come lui: solo che poi si sarebbe messo a ridere, o a far ridere: tutto traballa sotto il suo sguardo); niente è più dannoso di trasformare l’informe in ideale, e quindi di dare una forma all’informe, per disinnescare la sua potenziale carica eversiva, o quanto meno destabilizzante: che è poi il corrispettivo in fondo identico della volontà di imbracatura e subordinazione dominante in passato. Ambizione che, a quanto pare, è diventata invece l’abito comune dei nostri giorni. 

 

In passato la lotta contro l’informe rappresentato dalla giovinezza ma certo non a essa circoscritto, contro il pericolo che esso rappresentava e l’angoscia che suscitava la sua inafferrabile fluidità, aveva dato luogo all’irrigidimento delle forme, consolidate dalle tradizioni e confermate da una supposta oggettiva razionalità, promosse dall’adulto (fisiologico), che per proteggersi erigeva a valore il suo opposto in ogni ambito dell’esistenza, come se circoscrivendolo dal punto di vista temporale potesse neutralizzare la sua costante minaccia di riaffioramento e di corrosione. 

Ogni età è (dovrebbe essere) compiuta sé, non in relazione a, o in vista di, un’altra: l’idea di suddividere il decorso dell’esistenza e di classificare dà a ciascuna un indebito statuto ontologico, per quanto diverso da società a società e da tempo a tempo, che le tiene separate e senza comunicazioni reciproche che non siano facilmente gestibili.

Invece siamo condannati all’incompiutezza. Alla carenza originaria non è possibile mettere nessuna pezza definitiva. Ognuna non fa che mettere il risalto ciò che dovrebbe suturare. Magari blocca gli spifferi, alcuni perlomeno, ma nel farlo soffoca e opprime. Va quindi denudata come tale e smantellata, almeno in linea di principio, perché poi, del tutto senza, si vive male. È tutto un conflitto dunque, un duello da ripetere in continuazione, una ininterrotta zuffa generale, come quelle che chiudono le varie parti di Ferdydurke. Inutile forse, in fondo, perché è da riprendere ogni volta da un versante diverso, perché qualsiasi risultato si irrigidisce in una forma che presto rivela la propria immaturità nell’atto stesso di negarla.

 

Ciononostante, tanto per cominciare, è opportuno smantellare tutto. Mostrare il lato fasullo e risibile di ogni mattoncino delle consuetudini sociali e della loro idealizzazione, difensiva e protettiva almeno quanto oppressiva, di regole e valori. Poi vedremo. Intanto usiamo il grimaldello dell’informe, del basso, dello schifoso, dell’inconfessabile; poi (o al contempo: meglio) smantelliamo anche quello. L’ufficialità e la maturità sono patetiche proprio in quanto seriose, impettite, strategie contenitive (come le panciere) che è possibile rovesciare in tutta la loro fragilità e la loro comica inconsistenza. Nemmeno la giovinezza e la naturalezza, però, si salvano (“Senza sosta ci spuntano nuovi brufoli e nuovi ideali”), per quanto siano sempre meglio. Perché contengono in sé e scatenano il caos e l’anarchia. La vitalità e la possibilità della rivolta. Degli spiragli. E la bellezza, che nessuno meglio del giovane incarna.

In Pornografia l’espediente di mettere tra parentesi i sostantivi (ragazzo) e (ragazza) rende esplicita la sospensione del significato corrente delle parole, il loro uso obliquo, riconoscibile e al contempo spostato, o neutralizzato, senza che possano quindi assurgere a valore in sé, e quindi a nuova forma e ideale.

 

 

Feto, neonato, infante, bambino, preadolescente, adolescente, postadolescente, neogiovane, giovane, postgiovane, postpostgiovane, postpostpostgiovane, anziano, vecchio, decrepito, trapassato, eterno. Ho dimenticato qualcosa? Ah sì, maturo. La vita è stata sezionata in tante fettine sempre più sottili grazie agli strumenti di cui la scienza ci ha fatto munifico dono. In passato c’erano solo tre età: giovinezza, maturità e (senza sdolcinate perifrasi) vecchiaia. Sempliciotti! L’infanzia nemmeno la consideravano: esserini sporchi, frignoni, pieni di pretese e di cacca... rompicoglioni che rientravano solo a fatica nell’umanità. Animaletti da lasciare allo stato brado o da affidare al servidorame e da addomesticare al più presto con metodi spicci, a seconda dello stato sociale. Vada come vada.

 

G. si attiene ancora a questa tripartizione, e anzi la riduce ulteriormente: c’è la giovinezza poi tutto il resto. I vecchi, anche qui precorrendo la modernità, non li considera neppure: non servono. Fuori dai piedi allora, nelle RSA o a Palazzo Madama. Due categorie bastano e avanzano, come sanno i filosofi, che di opposizioni hanno sempre fatto largo uso. E Gombrowicz la filosofia non solo l’ha studiata, ma l’ha anche insegnata, vedi il Corso di filosofia in sei ore e un quarto). Con le coppie concettuali il discorso è più chiaro e efficace. Per la sua logica, che è conflittuale, due bastano e avanzano.

Giovinezza e maturità. Il resto non c’è, senza star troppo a sofisticare. 

Gombrowicz però, almeno in Ferdydurke, non intende innalzare l’una contro l’altra, nonostante l’attrazione che prova per la prima, adolescenza inclusa (l’altra sinceramente è piuttosto repellente, con le sue pose, la tronfia retorica che ne governa la vita, le pancette, la calvizie e soprattutto il ghigno che non tanto maschera il viso ma lo sostituisce in tutto e per tutto, deformazione che peraltro non risparmia nemmeno i giovani...). 

 

È sull’incompletezza che egli scrive, sul non finito, l’insignificante, o piuttosto il poco significativo, che cercano e trovano (o a cui viene affibbiata) una parvenza di completezza fuori di sé, nell’interpretazione degli altri. Nelle convenzioni, nelle forme sociali. Più ti senti, e ti fanno sentire, incompleto, più cerchi all’esterno ciò che ti manca, giovane o adulto che tu sia, nelle forme offerte (prescritte) da società e cultura. Ma chi le rifiuta, per cercare da sé una completezza, e una compiutezza, più lo fa e più si sente incompleto. Le forme del compimento interiore gli sono precluse, perché è sempre l’esterno a fornirle, sotto forma di trascendenza. O così gli sembra. La dichiarazione di volontà di ricerca, pur sapendo che è infinita e impossibile, è sofferenza, e l’ambizione all’autonomia assoluta orgoglio, cioè quello che le religioni dichiarano il peccato più grave: la superbia. Gombrowicz superbo lo è, o quanto meno orgoglioso. E non poco altezzoso. O a tale volentieri si atteggia (ne assume la forma). Lo sa, e lo paga. Ma i tornaconti non sono da meno, specie nella seconda esistenza in Argentina (ma già a Varsavia, quando teneva banco con le sue provocazioni ai tavolini dei bar alla moda: anche le capitali hanno il loro versante di villaggio).

 

Per questo cerca, e trova, ristoro non nel pari o nel (preteso) superiore, ma nell’inferiore, nell’incompiutezza per eccellenza, che però è anche per eccellenza ciò a cui tutti ambiscono, e quindi ciò che è superiore, la giovinezza, la bellezza, l’adesione spontanea e entusiastica alla vita, ciò che basta a se stesso senza farsene un problema o un dovere o un ideale, perché già lo incarna. “Ognuno di noi si porta un ideale appiccicato addosso, come un pesce d’aprile.” Niente giovinezze macerate, insoddisfatte, represse nella sua opera. E se ci sono è perché sono già guastate all’origine dall’adulto, dalle ziette, dalla scuola ecc... Forse vuole sottrarsi in tal modo al desiderio, o all’istinto mimetico (Girard) proprio nella misura in cui sente la forza della sua attrazione? ma d’altra parte ne ha bisogno per contrapporvisi; per dare sostanza al suo impulso a contrapporsi.

 

In fin dei conti, infatti, a Gombrowicz non interessa capire il giovane, o meglio, l’adolescente (i protagonisti hanno più o meno sedici anni), le sue inquietudini, le sue pulsioni, il disorientamento per il corpo che cambia e per i suoi bisogni, l’istinto di gruppo, il persistente desiderio di uscire da un se stesso in cui si sente costantemente a disagio, di crescere per smettere di essere un ‘nessuno’ indefinito, mutevole, come chi del proteiforme vede solo l’instabilità e non il dono e la gioia della metamorfosi, per essere adulto, per essere finalmente qualcuno, cioè finalmente ‘uno’, quello lì e non altro – che poi lamenterà l’assenza di cambiamento e la fossilizzazione, ovviamente.

A Gombrowicz, dell’adolescente e dei giovani, più di come sono loro interessa l’idea che ne ha lui: cioè l’idea che si può contrapporre a ciò che più disprezza, l’adulto ingessato nel proprio ruolo, nella sua posizione e nei suoi pregiudizi e nella sua tronfia retorica: la sua è l’idea del giovane che può avere un adulto che odia gli adulti (senza andare a scomodare altri desideri meno confessabili, a cui si abbandonerà, finalmente libero, in Argentina: terra a sua volta giovane, a suo modo di vedere). Un’idea funzionale al regime oppositivo in cui per certi aspetti rischierebbe di restare imprigionato lui pure, senza la sua furia corrosiva, la consuetudine a guardare le cose non solo assieme al loro contrario, ma di sopra e di sotto e di traverso, sempre attento a ciò che le porta fuori dalla loro stabilità verso l’assurdo, la cedevolezza, la ridicolaggine.

 

D’altra parte se la lotta è per la vita, non è il caso di andare troppo per il sottile. Ma il rischio è di cadere vittima di questa lotta, che per il protagonista, Giuso, prende avvio da un libro che ha scritto. Infatti è proprio come autore di quel libro che un giorno viene accostato e “infantilizzato” da Pimko (“Cip, cip, cip, un autore!”), operatore scolastico e “custode dei valori culturali”, che gli appare all’improvviso come Mefistofele a Faust o Satana-Woland al Maestro in Bulgakov, e che in un certo senso una figura luciferina lo è per davvero, sorridente e indulgente per i suoi scopi, determinato, cinico e però debole (debole come lo sono i cinici), soggetto lui pure alle tentazioni, nel suo caso delle grazie della liceale attorno a cui si muovo i personaggi della seconda parte.

 

 

Giuso è condotto a scuola tra altri ragazzini che lo trattano come uno di loro, al pari degli insegnanti. “Pietà! Un docente no!” ... “mi guardò da sotto gli occhiali con indulgenza, e improvvisamente rimpicciolii”. Come Gregor Samsa quando di ritrova insetto, anche lui non riesce a capacitarsi della metamorfosi, ma tutti sembrano trovarla del tutto naturale senza nemmeno ricordare com’era fino a poco prima. È adulto e è ragazzo. Tutti lo trattano come ragazzino, ma lui si ribella, anche se qualcosa lo attrae e trascina sempre più nella nuova (e antica) condizione. La stessa ribellione viene interpretata come manifestazione di immaturità e trattata con condiscendenza. Come lo sono i giochi e le zuffe degli studenti nel cortile della scuola da parte dei genitori che li stanno a guardare da fuori con gli occhi lucidi per le loro prodezze. 

“Volevo protestare, ma quel docente spietato mi aveva talmente docentizzato con il suo assoluto docentismo che non ci riuscii”.

 

La condiscendenza fa parte anche della strategia manipolatoria di Pimko all’interno di un progetto che ha come finalità di “infantilizzare il mondo” e che ha nel permessivismo una delle sue armi più efficaci, che anticipa quella degli ultimi decenni, anche se con scopi all’apparenza opposti: oggi è per far credere al manipolato di essere indipendente, autonomo, capace di scegliere da solo, cioè di essere adulto, mentre quella di Pimko mira all’infantilizzazione vera e propria, a ricondurre tutto a un’aura di innocenza anche del soggetto più ribelle, perché gli adulti fatti regredire e “culettizzati” sono ancora meglio dei bambini allo stato “naturale”; tutto viene permesso e concesso, con divieti formali per rendere più appetibili i loro oggetti, che però sono i più idonei alla conservazione dello stato di minorità; deviazione delle energie in eccesso verso violenze settoriali, magari di grande effetto, ma di fatto innocue (a parte i loro bersagli: ma chi se ne frega? verranno buoni anche loro...), lasciando impensate, e quindi impregiudicate, intoccate e intoccabili le gerarchie soggiacenti e i rapporti di forza consolidati. Vecchia storia, ora; un po’ meno un secolo fa. Ma che funziona sempre, tanto che il processo di immaturazione generale può dirsi ormai compiuto. I e le quarantenni sono in gran parte ancora adolescenti, come lo erano alle medie, se non prima. Maturano in fretta, oggi, si dice. Geniali tutti.

 

Anche se arrivati alla prima soglia non avanzano di un passo. Restano lì pietrificati. Già padri e madri, eppure ancora più cretini dei figli (come i Jovinelli della seconda parte del romanzo, genitori della liceale moderna che tutti soggioga, incluso Pimko, prima che l’inoculazione di forti dosi di assurdo da parte del protagonista, – nella fattispecie un poveraccio pagato perché se ne stia immobile tutto il giorno con un ramo in bocca sotto le finestre del loro appartamento, in cui Giuso era stato preso come ospite con l’intento di favorire il suo adattamento ai comportamenti giovanili moderni –, ne mandi a gambe all’aria la routine quotidiana con tutte le sue parvenze di felicità), che al momento hanno almeno il conforto dell’età, che però passa in fretta senza che nulla cambi. L’accesso alle merci e al sesso basta alla patente di maturità anticipata e garantisce da subito l’ibernazione di tutti gli altri fattori di crescita, fino a che si saranno atrofizzati e esauriti per assenza d’uso. 

Viceversa anche la maturità odierna, – nel libro esemplificata dalla classe insegnante e dalla piccola nobiltà terriera –, pur non essendo per questo meno colpevole, è innocente proprio nel suo essere artefatta, imprigionata nella Forma, non retorica e pertanto risibile come in passato, ma solo diversamente trombona: la trombonaggine dell’eterna giovinezza, fin nella tomba.

 

Parallela all’attrazione per la giovinezza esemplificata dalla spregiudicata liceale moderna, c’è quella per il “garzone” (nella prima traduzione era un “palafreniere”: mi piacerebbe sapere chi ha ragione... il palafreniere!), idolatrato dal compagno di avventure del protagonista, Mentino, come incarnazione della spontaneità popolare, che lo ricerca per fuggire le moine e le posture imbarazzanti anche della gioventù cittadina, con esiti disastrosi. Come disastroso sarà l’ultimo tentativo, apparentemente riuscito, del protagonista di ritornare adulto, con una fuga dalla casa degli zii che prende, se così si può dire, la forma della forma per eccellenza, quella dell’amore adulto, della precipitosa proposta di matrimonio a una scipita cugina: cioè un nuovo comportamento impulsivo di reazione, e quindi infantile.  

Non si sfugge. Non vi sfugge il narratore, che pure sa di essere costitutivamente immaturo. Non sfuggono gli altri personaggi. E noi?, mi chiedo. E io? 

Io boh. Intanto, col mio bel ghigno stampato sul muso, rido.

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