L'Altro Giappone - I parte / La Storia nascosta del Giappone odierno
Il Giappone dopo i giochi olimpici
Per gli italiani, i Giochi Olimpici di Tokyo 2020 sono stati solo un entusiasmante evento sportivo reso memorabile dai grandi successi degli atleti di casa, ma per molti giapponesi hanno avuto una valenza non solo sportiva ma anche politica, sociale ed economica molto penosa, che lascerà strascichi a lungo. Nonostante il medagliere conquistato dal Giappone sia molto più ricco di quello dell’Italia, il Paese invece di uscirne galvanizzato sembra sprofondare nella depressione. Come si spiega?
Com’è noto, il 70-80% dei giapponesi si era dichiarato contrario all’evento, compresi gli esperti che prevedevano il rischio di un forte aumento di diffusione del Covid-19 (aumento che poi si è puntualmente verificato, anche se le autorità non hanno mai ammesso il legame con i Giochi). Nonostante questo clima a dir poco sfavorevole il governo e il Comitato Organizzatore dei Giochi Olimpici sono rimasti testardamente a fianco del CIO nel mantenere i Giochi Olimpici, senza preoccuparsi di offrire alla popolazione una spiegazione soddisfacente. Non c'è da meravigliarsi se questo atteggiamento antidemocratico abbia lasciato un trauma non indifferente nella popolazione. Una cara amica, docente universitario a Tokyo, si domanda preoccupata: se non abbiamo potuto fermare nemmeno le Olimpiadi, come potremmo fermare un governo che volesse condurci verso la guerra? La sua preoccupazione è fondata: la destra giapponese da anni cerca di modificare la Costituzione per eliminare l’articolo 9 che ci vieta tassativamente di intraprendere qualsivoglia azione bellica.
In questi ultimi anni abbiamo assistito a una lunga serie di scandali davvero vergognosi che hanno segnato l’intero percorso dell’organizzazione olimpica. Tra accuse di corruzione e concorsi internazionali di progettazione dello stadio prima indetti e poi cancellati, il tentativo del governo di usare le Olimpiadi come mezzo per oscurare la memoria di Fukushima, le accuse di plagio e le dimissioni a catena, fino al suicidio oscuro di un funzionario del Comitato Olimpico giapponese pochi giorni prima dell’inizio dei Giochi, l'intera imbarazzante vicenda ha messo in luce alcuni aspetti estremamente degradati della società giapponese.
Parallelamente a tutto questo, l'ossessione dei governanti per le Olimpiadi ha fatto trascurare per più di un anno e mezzo le misure anti pandemia, mai applicate seriamente, con la campagna di vaccinazione partita in grande ritardo. Tutto ciò non si addice all'immagine del Giappone a cui siamo abituati, un paese super efficiente capace di organizzare tutto alla perfezione e più velocemente che in qualsiasi altra parte del mondo. Temo però che dovremmo presto abituarci a una nuova immagine del Giappone. Molti tra i giapponesi più attenti si sono già resi conto di avere di fronte una nuova realtà molto dura. Anche se la vita quotidiana non è stata immediatamente toccata come sarebbe avvenuto in caso di terremoto o tsunami, l'impatto si avverte attraverso gli strati sotterranei della società civile. Persino a me, un giapponese che vive all’estero, è arrivata la stessa sensazione profondamente disturbante. Dall'estate scorsa, molti messaggi ricevuti dai miei corrispondenti di Tokyo, Osaka, Kyoto e altre città, specialmente quelli coinvolti in ambiti culturali e artistici, lamentano la stessa cosa: "Il Giappone è diventato un paese davvero incapace”. "Temevo una pesante crisi ambientale dovuta al riscaldamento globale, ma sembra che questo paese possa crollare ancora prima”. "Se fossi più giovane, avrei preso in considerazione la possibilità di trasferirmi all’estero”.
Questa impressione diffusa di declino, condita da toni depressi, ha radici profonde. Si è solo resa definitivamente visibile una tendenza già conclamata. All'inizio di questo secolo, il vigore che il Giappone aveva dimostrato al mondo cominciava in alcuni campi già a mancare. Toyota nell'industria automobilistica, Sony nel settore degli apparecchi televisivi e stereofonici, Canon in quello delle apparecchiature fotografiche, erano rispettivamente gli attori dominanti nel mondo, ma dall'avvento dell'era informatica non ci sono più aziende giapponesi in grado di figurare alla pari con Apple, Google, Facebook o Amazon. Non perché non siamo geneticamente tagliati per l’informatica, ma perché il potere creativo della nazione nel suo insieme è in netto declino. Sicuramente è l'inevitabile eredità della Storia del Giappone che ha scelto, dopo la Guerra, di perseguire senza sosta lo sviluppo capitalista a spese degli aspetti culturali e sociali. E sarebbe ora che il popolo giapponese affrontasse di petto la questione, ma purtroppo, a giudicare dal recente dibattito sulle elezioni del premier giapponese, non c'è alcun segno di questo risveglio né nei leader del paese, né nei media e tantomeno nel cittadino comune.
A volte per comprendere meglio qualcosa bisogna allontanarsi, frapporre una certa distanza fra sé e la situazione da analizzare. Ne ho avuto la conferma di recente a Napoli: là infatti, nel capoluogo campano, ho sorprendentemente trovato una chiave di lettura per comprendere il disagio e l’inquietudine che sento crescere dentro di me.
Uno sguardo da lontano
Dal 29 settembre al 3 ottobre, presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli MANN, si è tenuta una rassegna molto interessante intitolata "L'Altro Giappone – RESISTERE⁄RINASCERE Uomo e Natura nella società giapponese contemporanea”: una esposizione densa di contenuti (15 film e 4 mostre) che offriva spunti per riflettere sullo stato socio-economico-politico-culturale del Giappone odierno, illuminando anche alcuni angoli ciechi della nostra società e della nostra identità, oggi appese entrambe su una soglia critica dove non possiamo che resistere per (possibilmente) rinascere.
La rassegna è organizzata da una validissima associazione culturale con sede a Napoli, denominata appunto L’Altro Giappone, composta da professionisti formatisi all’Università L’Orientale con l’obiettivo di offrire sguardi sulla cultura e sulla società giapponesi al di fuori di schemi stereotipati. Sono persone che conoscono molto bene la mia lingua e il mio paese e lo amano profondamente, ma a differenza di molti stranieri “tatamizzati” (innamorati acriticamente del Giappone) non lesinano critiche obiettive e persino severe quando servono.
Qui di seguito mi concentrerò in particolare sulla sezione cinematografica, alla quale ho partecipato come commentatore di due documentari.
Requiem per pagine mancanti della Storia
Sette film, circa la metà delle opere proiettate alla rassegna, sono legati alle vicende di vittime o di sopravvissuti alle catastrofi che hanno funestato la Storia giapponese dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. Sono tre documentari: WHO WON THE WAR (di Francesca Di Marco, 2020), YOMIGAERU (di Alessandro Trapani, 2019), KOI (di Lorenzo Squarcia, 2019) e quattro fiction: MINAMATA (di Andrew Levitas, 2020), MY MAN (di Kazuyoshi Kumakiri, 2014), DISTANCE (di Hirokazu Koreeda, 2001), e THE LAND OF HOPE (di Shion Sono, 2012).
A eccezione di MINAMATA di Andrew Levitas, incentrato sul clamoroso caso di minamata-byo, la terribile malattia causata dagli scarichi industriali contenenti mercurio sversati nel mare di fronte a Minamata, nel Kyushu, una vicenda portata alla luce nel 1971 dal fotoreporter americano Eugene Smith qui interpretato magnificamente da Johnny Depp, gli altri film raccontano vicende molto private e intime, frammenti di vita di cui né la politica né i media, né tantomeno gli storici si sarebbero mai occupati. Sono, per così dire, le "pagine mancanti della Storia", come ha scritto una volta un filosofo giapponese. Sono dei labirinti all’interno di un “libro difettoso”, interstizi sfuggiti perfino alla vista degli storici. Ma questi buchi neri dimenticati sono i luoghi dove si verifica la genesi della Storia ancora in gestazione.
Inoltre queste “pagine” non sono mancate per caso, spesso è lo Stato che le ha fatte “mancare” in un certo senso deliberatamente, relegando così le vittime sistematicamente all’oblio. Ognuno di questi film raccoglie una vita dimenticata, di qualche vittima o di qualche superstite, e la osserva da vicino, cerca di capire la vicenda con l’intento di onorarne la memoria con grande calore umano. È una specie di requiem visivo. Uno sguardo verso le memorie, verso la propria storia, che avevamo perso nella modernità per la fretta di andare sempre avanti, lo sguardo che oggi tutti i giapponesi dovrebbero recuperare. Questi film ci possono aiutare molto a riflettere e a scoprire gli strati invisibili che scorrono sotto la nostra Storia più recente.
L’esempio più significativo è il breve documentario di Francesca Di Marco WHO WON THE WAR. È un commovente ritratto della vita dell'83enne Takashi Tanemori, che da tanti anni vive negli Stati Uniti, raccontato con le sue stesse parole. L’uomo è un hibakusha, cioè un sopravvissuto alla bomba atomica.
Quando fu esplosa la bomba sul cielo di Hiroshima, quella mattina del 6 agosto 1945, Takashi Tanemori aveva otto anni e giocava con i compagni di scuola a nascondino, ad appena un chilometro di distanza dal punto zero, ma sopravvisse miracolosamente senza riportare gravi ferite. Sei membri della sua famiglia morirono quel giorno o nei mesi successivi, tranne una sorella più piccola. Negli otto anni seguenti Takashi sopravvisse per strada, chiedendo l'elemosina e rovistando nell’immondizia come tanti altri orfani dell’epoca, poi all'età di diciotto anni ottenne un visto e si trasferì negli Stati Uniti con l'intenzione di vendicare la morte dei suoi cari. Ma dopo aver sofferto molte avversità, tra cui l'essere sottoposto a esperimenti umani nel programma Atomic Bomb Casualty Commission (ABCC), finalmente fece pace con il suo passato dopo quarant'anni. In occasione di una manifestazione antinucleare a San Francisco, nel 1985, fu invitato a parlare. Aveva ancora intenzione di vomitare il suo odio contro gli americani, tuttavia, poco prima di salire sul palco, ebbe una sorta di epifania e si ricordò ciò che suo padre gli aveva detto molti anni prima: "Il modo migliore per vendicarsi di un nemico è perdonarlo”. Così, quel giorno chiese perdono in pubblico per le atrocità commesse dai soldati giapponesi durante la guerra e per la prima volta riuscì a dire: "Vi perdono, americani". Ricorda ancora commosso la sensazione liberatoria di quel momento, e da allora e ancora oggi è molto attivo come predicatore di pace e di perdono con il Silkworm Peace Institute da lui fondato. In patria, però, nessuno sa quasi nulla sulla vita straordinaria di Takashi Tanemori.
Questo film mi ha fatto subito pensare alla sentenza dell'Alta Corte di Hiroshima sul caso Pioggia nera, emessa solo a metà luglio di quest'anno. E poiché il governo ha rinunciato al ricorso, la sentenza può ora considerarsi definitiva. “Pioggia nera” è la pioggia di acqua densa e nera, carica di fuliggine e polveri radioattive, caduta tra i venti e i trenta minuti dopo l’esplosione atomica su una vasta area della città. Furono numerosissime le persone rimaste bagnate da quella pioggia o che bevvero l’acqua di pozzo contaminato da essa, o che mangiarono gli ortaggi bagnati quel giorno, e per la maggior parte si ammalarono e morirono. Tuttavia sembra che solo un sesto delle reali vittime della “pioggia nera” sia stato riconosciuto come tale, perché l’autorità aveva tracciato un’area molto più ristretta, praticamente includendo solo la zona dove la pioggia è caduta più intensamente.
Ci sono voluti 40 anni perché Takashi Tanemori si liberasse del suo rancore contro gli Stati Uniti per aver sganciato la bomba atomica sulla sua città, ma ci sono voluti 76 anni perché gli 84 querelanti della causa "pioggia nera", di cui 14 già deceduti, fossero riconosciuti come hibakusha. La bomba atomica esplose alle 8.15 del 6 agosto 1945, spazzando via all’istante decine di migliaia di persone, ma quell’istante è durato per decenni, e dura ancora oggi in varie forme per molti hibakusha, e sono tempi vergognosamente ben più lunghi di quanto siano umanamente accettabili.
Alla cerimonia commemorativa del 6 agosto di quest'anno, il premier Suga ha letto il suo discorso senza minimamente accorgersi che mancava una pagina (è sempre una “pagina mancante” che svela la verità!), diventando lo zimbello del mondo. Ma l’indifferenza arrogante sempre dimostrata dal moderno Stato giapponese nei confronti delle proprie vittime storiche, sintetizzata dalla figuraccia mondiale di Suga, non è altro che una qualità tecnico-capitalista, certamente non umana. E questa insensibilità tecnica dello Stato verso gli hibakusha si ritrova nelle più recenti esperienze delle vittime e dei superstiti di Fukushima e di altre zone colpite dal terremoto e dallo tsunami dell'11 marzo 2011.
KOI (2019) e YOMIGAERU (2019), di due cineasti italiani, sono entrambi documentari sulle zone del Tohoku colpite dal terremoto e dallo tsunami.
Il primo racconta quanto le ferite della catastrofe continuano a dolere attraverso le esperienze di tre persone: un marito che impara l’immersione subacquea per stare vicino alla moglie inghiottita dallo tsunami e mai ritrovata; un moto rider tatuato e i suoi amici che ancora oggi partono da Tokyo per fare volontariato nelle zone colpite per restituire qualche indizio di memoria alla gente sopravvissuta; e un abitante della regione pesantemente colpita dallo tsunami che cerca di preservare la memoria della loro comunità.
Il secondo racconta il viaggio di Giuseppe Bassi, un musicista jazz italiano di fama internazionale che, stanco di esibirsi sul grande palcoscenico, sceglie di "suonare per le persone" e interagisce con persone, animali e paesaggi intorno a Fukushima, ancora parzialmente radioattivi, attraverso le vibrazioni stesse del suo contrabbasso.
Questi atti cinematografici vogliono essere un vero requiem umano, cercando di conservare le memorie, i sentimenti e le emozioni di persone già ignorate dai "progetti di ricostruzione" proposti dalla politica, persone che altrimenti finirebbero silenziosamente sulle "pagine mancanti della Storia” che non vengono mai sfogliate da nessuno.
THE LAND OF HOPE (2012) di Shion Sono, una fiction girata sullo sfondo delle reali macerie all'indomani del terremoto e dello tsunami del 2011, è un film sulla tragedia di una famiglia che vive ai margini della zona di evacuazione. Quello che colpisce nel film è la violenza con cui il piano di evacuazione delle autorità, insieme alla paura, entra nella casa, nell’intimità delle persone, trasformandole, allontanandole le une dalle altre e portando alla fine i protagonisti, due vecchi coniugi, a compiere il suicidio. In effetti, dopo disastri di questa portata, molte persone anziane, anche se sopravvissute al sisma o allo tsunami, una volta separate dalla loro casa, dalla comunità, dagli affetti, dalle memorie, muoiono dallo sconforto. E il film illustra minuziosamente l’evoluzione psicologica dei personaggi coinvolti. Una vera anatomia psicologica delle persone costrette ad allontanarsi da ciò che formava la loro vita.
Due isole, due futuri
Le vite degli abitanti di due piccolissime isole, filmate nei due documentari DREAMING OF AN ISLAND (di Andrea Pellerani, 2021) e AOGASHIMA (di Hamish Campbell, 2018), sembrano metafore delle due prospettive estreme del futuro che attende il Giappone.
Il primo ritrae Ikeshima, una piccola isola al largo della costa di Nagasaki, che fino a poco tempo fa prosperava grazie all'estrazione del carbone. Nel suo periodo d'oro contava oltre 2000 abitanti, ma dopo che la miniera è stata abbandonata nel 2001 (ultima miniera a chiudere in Giappone), l'isola si è drasticamente spopolata. Ora sono rimasti poco più di 100 abitanti e molti edifici sono abbandonati e inghiottiti dalla vegetazione.
Lo stato attuale dell’isola sembra l’immagine in miniatura del futuro del Giappone, un paese con una popolazione piuttosto anziana, in netto calo demografico, con un'economia in declino (perché non ci saranno lavoratori a sostenerla), e con un futuro difficile da immaginare.
L’altro film raffigura invece Aogashima, una piccola isola di una bellezza mozzafiato con un vulcano quiescente, in mezzo all'Oceano Pacifico, a circa 400 km a sud di Tokyo. Ha una popolazione di 169 persone che vivono, però, con una visione e un modo di vivere molto diverso da quello degli abitanti di Ikeshima. Lontano dal consumismo, gli isolani conducono una vita molto slow, adattandosi con resilienza anche alla durezza della natura, e vivono con grande piacere la compagnia di altre persone. Il tutto con lo spirito di autosufficienza che deriva dalle risorse limitate dell'isola. Sarà improbabile che la maggior parte dei giapponesi adotti, almeno in un prossimo futuro, questo stile di vita, ma è sicuramente un modo felice e armonico di vivere nel mondo.