Onoda: un soldato giapponese per trent'anni nella giungla
Due cineasti europei su Hiroo Onoda
Il 18 maggio scorso c’è stata la proiezione del film ONODA – 10.000 notti nella giungla (2021) di Arthur Harari presso l’Istituto francese di Napoli (una prima nazionale, in collaborazione con l’associazione L’Altro Giappone). Il film è stato presentato l’anno scorso al festival di Cannes come film di apertura della sezione Un certain regard e narra la storia (o parte di essa) di Hiroo Onoda (1922 – 2014), un ex soldato giapponese che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale rimase a “combattere” per ben 29 anni nella giungla dell’Isola di Lubang nelle Filippine, prima di tornare in patria nel 1974. Per una curiosa coincidenza, un altro cineasta europeo peso massimo, Werner Herzog, sempre l’anno scorso ha pubblicato un libro su Onoda, Il crepuscolo del mondo (in tedesco da Carl Hanser Verlag, in Italia da Feltrinelli). Cosa li ha spinti entrambi a girare un film e a scrivere un libro su questo personaggio che sì, certamente è fuori dal comune, ma così lontano da loro, e perché proprio oggi?
Chi era Hiroo Onoda?
Sento il dovere di spendere due parole su Hiroo Onoda a beneficio del pubblico italiano, per spiegare chi era. Nato nel 1922 nella prefettura di Wakayama come quartogenito di un politico locale, Hiroo era un ragazzo dallo spirito molto indipendente e insofferente all’autorità (in questo caso paterna), tanto da scappare di casa a 17 anni per lavorare in una società di import-export a Wuhan, in Cina.
A 20 anni si arruolò nell’esercito aspirando a diventare pilota di caccia, ma si rivelò non idoneo perché soffriva di acrofobia. Fu invece reclutato in un istituto di élite per futuri agenti d’intelligence, la Scuola militare Nakano a Tokyo, dove si insegnava lo spionaggio e le tattiche della guerriglia, perché già conosceva bene il cinese e l’inglese. Rispetto a tutte le altre accademie militari dell’epoca, questa scuola era veramente eccezionale: lo spirito era incredibilmente liberale e vi si parlava di tutto, era possibile criticare i vertici militari e addirittura discutere lo status dell’Imperatore, a quel tempo ancora considerato una divinità. In un regime di stampo fascista con un senso di gerarchia assoluto qual era il Giappone all’epoca, e per giunta nel pieno di una guerra, era un ambiente più unico che raro, anzi, impensabile. Vi si incoraggiava l’iniziativa personale e la capacità di ragionare dei cadetti, piuttosto che imprimere nelle loro teste che si deve obbedire ciecamente agli ordini.
Si insegnava che il primo dovere era di sopravvivere, a tutti i costi. A quei cadetti fu proibito di uccidersi, fu ordinato di farsi piuttosto prigionieri per sopravvivere in modo da poter fare il doppio gioco e continuare a servire il Paese. Tutto ciò era esattamente il contrario a quanto veniva inculcato in altri ambienti militari. Di solito un giovane cadetto giapponese si sentiva ripetere fino alla nausea che un buon soldato si uccide onorevolmente piuttosto che arrendersi al nemico. “Sappiate che morire come un cane è un onore”, così dicevano gli istruttori. Invece Onoda, come i suoi compagni della Scuola Nakano, ricevette una formazione completamente diversa.
Venne mandato sull’isola di Lubang, da solo, per una missione segreta il 30 dicembre del 1944. Dopo di ciò, comincia la leggenda. La sua compagnia fu decimata dagli attacchi americani, ma Onoda formò un piccolo commando composto inizialmente di quattro elementi e continuò a “combattere” anche dopo la fine della guerra. E nonostante tutti i tentativi del governo giapponese di persuaderli che la guerra era finita, Onoda e compagni credettero che fosse una trappola degli americani e non uscirono allo scoperto. Nel corso degli anni Onoda perse due compagni (uno scappò per consegnarsi e l’altro rimase ucciso in uno scontro a fuoco), poi perse l’ultimo compagno Kozuka, ucciso dai militari filippini nel 1972, rimanendo da solo nella giungla per altri due anni prima di consegnarsi a sua volta nel marzo del 1974.
Quest’uomo aveva continuato a combattere una guerra che non esisteva più per ben 29 anni. E nonostante tutte le informazioni che captava. Il governo giapponese infatti distribuiva spesso nella giungla dei quotidiani giapponesi che Onoda e compagni ritrovavano e leggevano, quindi loro sapevano del nuovo corso che il paese stava intraprendendo, sapevano della democratizzazione e dello sviluppo economico, come pure del successo delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, sapevano dello shinkansen, il treno super veloce, e di tutte le altre meraviglie del dopoguerra. Avevano anche una radio, forse rubata, e ascoltavano le trasmissioni in giapponese. Ciò nonostante credettero che fosse tutto opera della propaganda americana per ingannarli. Vedevano passare le navi e gli aerei americani diretti verso altre guerre (Corea, Vietnam) e si convincevano sempre più che la guerra con il Giappone continuasse. Vivendo nascosto nella giungla subtropicale, nonostante tutte le informazioni a disposizione, Onoda si era creato una guerra inesistente nella sua testa.
Questa almeno è la versione ufficiale della vicenda, ma ci sorgono domande e dubbi soprattutto sapendo dove e come quel soldato era stato formato. Un uomo istruito a pensare sempre con la propria testa, ad analizzare le informazioni raccolte, avrebbe osservato ciecamente l’ordine di mantenere la posizione fino all’arrivo dell’esercito giapponese per 29 anni? Si dice che Onoda non avrebbe potuto “lasciare il campo” fino a quando un suo diretto superiore non gli avesse ordinato di smettere di combattere. Certo, così sembra un modello di soldato esemplare, perfetto, dalla fedeltà assoluta. La scena del “salvataggio” finale del 9 marzo 1974, in cui l’ex maggiore dell’esercito imperiale Masami Taniguchi (che a detta di alcuni osservatori non era affatto un suo diretto superiore) si reca sull’isola di Lubang per impartigli l’ordine di cessare la missione, sembra piuttosto una sceneggiata perfetta per salvare l’immagine del tenente Onoda, per raffigurarlo come un militare modello, fedele e impeccabile, e non come il feroce assassino che nei lunghi anni sull’isola aveva depredato e ucciso una trentina di persone e ferite un centinaio. C’è da dire che sin da subito diversi osservatori misero in dubbio la veridicità della versione ufficiale della vicenda Onoda, e ancora oggi, dopo la morte del protagonista, i buchi neri della verità storica rimangono tali.
Quando Onoda tornò in Giappone, dopo l’iniziale shock (fu come imbattersi con il passato traumatico della guerra che nessuno voleva ricordare) e la comprensibile febbre mediatica, tutti videro in lui il tradizionale modello dell’uomo giapponese, un vero samurai, di fronte al quale l’opinione pubblica dell’epoca si spaccò in due: da una parte chi l’accolse come una vittima della logica di guerra (o più precisamente vittima della propaganda, come ha sottolineato il giornalista Antonio Moscatello alla presentazione del film a Napoli) se non un vero eroe; dall’altra gli intellettuali di sinistra, che nell’entusiasmo per Onoda videro il pericolo del ritorno dello spirito militaristico. La destra cercò di strumentalizzare la figura di Onoda e la sinistra accusò Onoda di essere l’incarnazione del militarismo. Trovandosi, suo malgrado, in mezzo alle polemiche, solo un anno più tardi Onoda lasciò il Giappone rifugiandosi in Brasile, dove già viveva uno dei suoi fratelli, per aprire una grande fattoria nello stato del Mato Grosso.
A differenza di Shoichi Yokoi, l’altro soldato giapponese trovato a Guam nel 1972 dopo anni di vita nella giungla, che si ambientò subito nel Giappone moderno, Onoda non amò affatto la società giapponese del dopoguerra. Anche in Brasile preferiva frequentare gli immigrati nazionalisti nostalgici e negli anni successivi iniziò le sue attività come membro di spicco del Nippon Kaigi (letteralmente “Il Congresso Giapponese”), un’organizzazione nazionalista di estrema destra con principi francamente molto discutibili.
Al di là della vicenda storica, su cui permangono ancora molti misteri, anche e soprattutto per questa sua posizione politica estrema, Onoda è per noi giapponesi una figura molto controversa e difficile da trattare. Tanto è vero che a oggi ci sono stati diversi programmi televisivi (di taglio documentaristico o una fiction) su Onoda, o biografie (o un’autobiografia scritta da qualche ghost writer) che hanno sempre ribadito la versione ufficiale della faccenda, ma mai su di lui è stato fatto un film né scritto un romanzo a firma di un autore giapponese che cercasse di affrontare il nodo storico e verità scomoda che questa figura rappresenta.
L’uomo nella giungla
I due cineasti europei sembrano invece assolutamente incuranti di queste implicazioni storico-politiche, ed entrambi raffigurano Onoda esclusivamente nell’ambiente della giungla.
A parte poche scene iniziali che mostrano il giovane Onoda prima della sua partenza per Lubang, il film di Harari si svolge quasi interamente nella giungla e termina quando il soldato giapponese lascia l’isola filippina a bordo di un elicottero.
Lo stesso fa il libro di Herzog, che nelle prime due pagine ci rivela un curioso aneddoto: nel 1997, mentre metteva in scena a Tokyo l’opera lirica Chushingura di Shigeaki Saegusa, il regista rifiutò l’invito a corte trasmesso dall’Imperatore tramite lo stesso compositore, perché “non sapeva proprio di cosa avrebbero potuto parlare”; chiese invece e ottenne di poter incontrare Hiroo Onoda. Poi le pagine iniziano a descrivere con incredibili dettagli la giungla di Onoda. Proprio come se l’avesse vista in persona, percorrendo gli stessi sentieri accanto al soldato giapponese. Herzog stesso, nello scrivere, sembra meravigliarsi, “… è come se io stesso mi trovassi là…” Probabilmente, quelle descrizioni così dettagliate e così vivide della giungla vengono realmente dal suo vissuto, dai ricordi visivi delle sue personali esperienze nella giungla (Aguirre, furore di Dio, Fitzcarraldo). Sembra quasi che il regista tedesco avesse introdotto Onoda nella “sua” giungla, piuttosto che descrivere fedelmente la testimonianza del soldato giapponese. Le due giungle, quella di Onoda e quella di Herzog, sembrano mescolarsi tra i ghirigori dell’alfabeto sulle pagine.
La giungla come luogo mentale
Poi Herzog scrive: “La giungla rimane immobile, in paziente umiltà, in attesa che la messa solenne della pioggia venga celebrata fino alla fine”. Sembra di leggere qualche passaggio di Walden, vita nel bosco di Henry David Thoreau. La giungla di Onoda, per Herzog, è un luogo spirituale, un santuario quasi mentale. Ed è esattamente lo stesso anche nel film di Harari. Soprattutto nella parte finale, quando Onoda perde l’ultimo compagno Kozuka e rimane da solo, quella qualità spirituale della giungla diventa protagonista del film. Allo stesso tempo, la trasformazione del personaggio è straordinaria. Onoda diventa sempre di più “invisibile”, nel senso che diventa tutt’uno con la natura. Non sembra più avere una coscienza prettamente umana, sembra che viva in perfetta simbiosi con la natura e in una dimensione più onirica che reale. Anche Herzog fa riferimento a una dimensione onirica. “Sto sognando? O è tutto vero quello che sto vedendo in questo momento?”
Kanji Tsuda, l’attore che nel film interpreta Onoda maturo, rivela in un’intervista che Harari ha cercato di raccontare un uomo che vede la giungla come lo specchio del suo mondo interiore. L’attore stesso racconta di aver vissuto in quei giorni la giungla quasi come la proiezione della propria mente. Non c’era più il confine tra dentro e fuori, tra il sogno e la realtà. Nel finale del film sembra che un sogno a occhi aperti – una specie di sonnambulismo, come scrive Herzog nel libro – domini la mente di Onoda. Il regista, difatti, chiedeva a Tsuda di compiere ogni azione “come se fosse in sogno”.
Quando Onoda incontra il giovane avventuriero giapponese Norio Suzuki che viene a cercarlo nella giungla di Lubang per una iniziativa apparentemente tutta personale, la reazione di Onoda interpretato da Tsuda è tesa, ma stranamente lenta, come se non si trovasse veramente là, quasi fosse un “fantasma” – altro termine con cui Herzog descrive Onoda. Anche nella scena in cui Onoda riceve l’ordine di cessare il combattimento da parte del suo ex superiore Masami Taniguchi, la maniera in cui lui saluta Taniguchi è molto particolare. Tsuda aveva studiato appositamente la forma corretta del saluto militare, ma quando l’ha eseguito, Harari ha subito fermato la scena esclamando, “No, non così!”. Secondo Harari, Onoda in quel momento doveva essere rappresentato come un sonnambulo, e dunque così anche tutte le sue azioni.
La cosa più interessante del film, a mio avviso, è proprio questa interpretazione onirica che fa sparire il confine tra la dimensione umana e quella naturale. Onoda di Harari, come l’Onoda di Herzog, riacquista una dimensione più naturale dell’esistenza umana, dimensione che l’uomo “civile” moderno ha dimenticato da tanto tempo. Ma non si tratta di una invenzione dei due cineasti, lo stesso Onoda ne era consapevole; diceva che la lunga permanenza nella giungla aveva acuito ogni sua percezione sensoriale, fino a eguagliare quella degli animali. Sapeva cogliere ogni piccolo rumore e ne individuava immediatamente l’origine: animali, insetti, uccelli, vento, pioggia... Ormai era diventato parte integrante della giungla subtropicale.
Man of Thoreau
La figura di Onoda che Harari e Herzog descrivono nelle rispettive opere mi ricorda molto un termine utilizzato da Thoreau.
Thoreau utilizzava la parola man, contrapposta alla parola civil, per esprimere il concetto dell’essere umano profondamente connesso con la Natura, indipendente, che ha grande dignità e coscienza di sé, libero da qualsiasi controllo delle leggi artificiali create dagli uomini. Mentre con la parola civil (sia come sostantivo che come aggettivo) contraddistingueva la figura del cittadino come soggetto reso schiavo dal sistema politico economico istituzionale della sua epoca.
Qui il termine civil ha un’accezione decisamente negativa e molti di voi potrebbero stupirsene, poiché ci viene subito in mente quel suo famoso testo dal titolo Civil Disobedience (Disobbedinza Civile, 1849), il manifesto che ispirò Ghandi e Martin Luther King, dove il termine civil sembra avere un’accezione fortemente positiva. Una apparente contraddizione che l’antropologo-scrittore giapponese Ryuta Imafuku, grande esperto degli scritti di Thoreau, ritiene però di poter spiegare. Secondo Imafuku, infatti, ci sono motivi per credere che quel titolo sia postumo. Il termine Civil Disobedience compare solo nel 1866, quattro anni dopo la morte di Thoreau, inserito all’interno di un’antologia “Yankee in Canada, with Anti-Slavery and Reform Papers”, e che il vero titolo fosse in origine Resistance to Civil Government (Resistenza al governo civile), probabilmente proposto dall’autore stesso quando il testo uscì per la prima volta sul primo numero della rivista Esthethique Papers (maggio 1849).
Detto questo, credo di poter sostenere che Thoreau utilizzasse la parola civil per descrivere una preoccupante decadenza dell’esistenza umana, e ne abbiamo conferma anche in un altro suo libro, Camminare (1851): “Vorrei spendere una parola in favore della Natura, dell’assoluta libertà e dello stato selvaggio, contrapposti a una libertà e una cultura puramente civili (civil); vorrei considerare l’uomo come abitatore della Natura, come sua parte integrante, e non come membro della società”. Per Thoreau, civil significava un’umanità indebolita che ha perso i contatti con la Natura, mentre “l’abitatore della Natura” è quasi il sinonimo di man, colui che mantiene l’interezza della sua esistenza, libera e dignitosa. E a me sembra che i due cineasti, nel film l’uno e nel libro l’altro, abbiano voluto entrambi raffigurare Onoda come il man di Thoreau.
Nuovo sguardo sulla Storia: Onoda dei cineasti e indios di Salgado
Lo sguardo dei due cineasti europei non si sofferma sul piano storico-politico come avremmo fatto noi giapponesi. Non interessano le cosiddette verità storiche, né l’atteggiamento politico di Onoda, perché loro guardano oltre. Anzi, stanno proponendo una visione nuova per guardare la Storia. Gli storici hanno guardato sempre e solo le attività umane, la politica, l’economia, la cultura, anche la guerra… ma la Natura non è mai stata considerata come un attore della Storia, al massimo come sfondo del quadro. Né Paolo Mieli, né Alessandro Barbero ci parlano mai della Natura. Per gli storici, in generale, la Natura semplicemente non rientra nel loro interesse. Questo è parte dell’antropocentrismo. Invece i due cineasti, con la loro rappresentazione prorompente della giungla e la fortissima simbiosi tra la giungla e il personaggio, presentano la Natura come uno dei protagonisti della Storia. Si tratterebbe di un cambiamento paradigmatico non indifferente. Ci stanno insegnando un nuovo modo di guardare il mondo, in un certo senso come tutte le migliori opere di Nature Writing.
Ed è esattamente ciò che sta facendo in questi ultimi anni Sebastiaõ Salgado. Tutti abbiamo conosciuto Salgado per i suoi epici reportage sulla fame (Sahel, 1984-1986), sul lavoro manuale del mondo (La mano dell’uomo, 1986-1991), sulle immigrazioni (Exodus, 1993-1999), sulla guerra (Yugoslavia 1994-1995, Congo 1994, Rwanda 1995, ecc.)… tutti argomenti su scala globale. Ma come sappiamo anche dalla sua autobiografía e dal film di Wenders Il sale della terra, le esperienze di violenze della guerra lo hanno fatto ammalare gravemente, o meglio, gli hanno fatto perdere la speranza nel vivere. Scrive Salgado: “Quando sono andato via [dal Rwanda] non credevo più a niente. Non poteva esserci la salvezza per la specie umana. Non si poteva sopravvivere a una cosa simile. Non meritavamo più di vivere. Nessuno meritava di vivere”.
Eppure due nuovi grandi progetti, ideati come sempre insieme alla moglie Lelia, la riforestazione del terreno di famiglia che si era completamente inaridito (Istituto Terra) e il lavoro fotografico sulla Natura (Genesi, 2003-2013) l’hanno rigenerato. Questa epica impresa fotografica ha come protagonista assoluta la Natura: strepitosi paesaggi incontaminati di tutto il mondo, piante e animali, insieme a popolazioni che vivono ancora come tanti secoli fa in perfetta connessione con l’ambiente. Questi esseri umani sono i veri abitatori della Natura, i men of Thoreau.
Oggi l’obiettivo di Salgado, che prima inquadrava solo eventi umani, ha allargato il campo visivo e ha incluso nel quadro la Natura come assoluto protagonsita della Storia. Nella sua ultima mostra Amazzônia (tra l’altro ancora in corso al MAXXI a Roma), insieme ai paesaggi strepitosi della foresta tropicale, numerosissimi ritratti di indios d’Amazzonia si presentano ai nostri occhi non come “indigeni primitivi” ma come autentici man, portatori di grande dignità e di saperi che noi abbiamo perso.
Forse i due cineasti europei hanno preso in prestito la figura di Onoda non per parlare proprio di lui, ma come un pretesto per trovare uno sguardo simile a quello nuovo di Salgado, per poter rappresentare la Storia in una maniera completamente nuova, con la Natura tra i protagnisti.
Si ringrazia la Ascent film che ci ha concesso la riproduzione del manifesto e delle immagini del film ONODA – 10.000 notti nella giungla (2021) di Arthur Harari