Non arare, non usare concimi, non considerare nemici gli insetti / La saggezza dell’agricoltore

24 Ottobre 2016

L’ultimo giorno di marzo di quest’anno sono andato in un villaggio a sud di Nara per incontrare Yoshikazu Kawaguchi, il più autorevole agricoltore giapponese che pratica l’agricoltura naturale. Come forse qualcuno di voi saprà, si tratta di un metodo di coltivazione elaborato da Masanobu Fukuoka, autore de La Rivoluzione di un filo di paglia. Il primo che mi parlò di Fukuoka e della sua rivoluzionaria tecnica fu Gilles Clément, uno dei paesaggisti francesi più conosciuti (ma lui preferisce definirsi semplicemente “giardiniere”), teorico del “giardino in movimento”, del “giardino planetario” e del “terzo paesaggio”, quando andai a incontrarlo nel suo atelier parigino alcuni anni fa. Subito dopo mi procurai il libro di Fukuoka e lo lessi, ma al di là di quella lettura non avevo mai conosciuta nessuno che praticasse quel metodo, né tantomeno avevo avuto occasione di osservare dal vivo i campi coltivati in quel modo. Probabilmente io, che ho i pollici poco verdi, non ero ancora pronto ad approfondire l’argomento. Qualche anno più tardi, in una conferenza a Tokyo, mi è capitato di assistere alla proiezione di un breve video che illustrava il lavoro di Kawaguchi. Non sono partito subito per Nara, ma sapevo già che un giorno sarei andato a conoscerlo. 

 

Yoshikazu Kawaguchi

 

L’agricoltura è un’attività antichissima, nata in diverse zone indipendenti della Terra più di 10.000 anni fa. L’avvento dell’agricoltura contribuì a una crescita demografica ed economica fino ad allora mai conosciute dalla specie umana, permettendoci di abbandonare la vita nomade e dando avvio alla nascita delle civiltà. Sebbene abbia a che fare con le piante, paradossalmente è un’attività prettamente umana e tecnica: possiamo dire che l’allontanamento dell’uomo dalla natura ebbe inizio molto probabilmente con l’avvento dell’agricoltura stessa. Nel corso della storia ha conosciuto diverse forme e tecniche, ma fu il Novecento a industrializzare l’agricoltura con i suoi macchinari, l’uso intensivo di prodotti chimici, la monocoltura e le specie geneticamente selezionate, vale a dire tutte le componenti principali della cosiddetta Rivoluzione Verde introdotta dopo la Seconda Guerra Mondiale in molte zone povere del pianeta, allo scopo dichiarato di risolvere il problema delle carestie. Per contro, su questo tipo di agricoltura meccanico-chimica, oggi di gran lunga la più diffusa, ci sono anche forti critiche che le ascrivono perdita della biodiversità, dipendenza dai combustibili fossili, inquinamento, degrado del suolo, diminuzione drastica della popolazione agricola e via dicendo.

 

L’edizione italiana de La rivoluzione del filo di paglia di Masanobu Fukuoka

 

Da qui sono nate diverse forme di agricoltura più sostenibili, come l’agricoltura biologica, l’agricoltura biodinamica di Rudolf Steiner, la permacultura di Bill Mollison e David Holmgren, e anche l’agricoltura naturale di Fukuoka che, come vedremo più avanti, è una tra le forme più radicali, se non la più radicale, e la più sostenibile.

Torniamo al nostro incontro. Da Nara prendiamo un treno locale che percorre un tratto a binario unico attraverso un paesaggio rurale. Scendiamo in una minuscola stazione nei pressi di un famoso mausoleo imperiale del IV secolo. Anticamente, questa regione era chiamata Yamato e fu la culla della civiltà giapponese. Non a caso dal 2009 sono in corso gli scavi di un sito archeologico di grande importanza che giace in parte sotto gli stessi campi della famiglia Kawaguchi. Camminando per qualche centinaio di metri lungo una stradina in mezzo a poche case e negozi, arriviamo a casa sua. Il signor Kawaguchi, vestito di samue blu, l’abito tradizionale da lavoro che lo si vede indossare in tutte le fotografie che lo ritraggono, ci aspetta molto gentilmente sulla strada, davanti a casa sua.

 

Kawaguchi illustra il suo metodo con appunti e fotografie.

 

Sapendo che di recente aveva avuto problemi di salute, prima di iniziare a intervistarlo gli chiediamo quanto tempo ci possa dedicare. Con nostra sorpresa dice: “Oggi sono tutto per voi, non vi preoccupate”. Noto subito che ha una parlata in giapponese giovanile e molto cortese. (Nella lingua giapponese, per rivolgersi al proprio interlocutore è possibile scegliere una forma tra le tante di “io” per definire il proprio atteggiamento verso l’altro: cordiale, indifferente, aggressivo, femminile, macho, anziano, giovanile, ecc. E la desinenza della frase può esprimere il grado di cortesia.) Nel corso della mattinata, in una grande sala normalmente utilizzata per i corsi di agricoltura naturale, Kawaguchi risponde a tutte le nostre domande e dopo pranzo, nel pomeriggio, ci porta a vedere i suoi campi per poi tornare nella sala precedente, per chiudere l’incontro. 

 

Kawaguchi ci mostra un passaggio importante in una pagina dell’antico libro di medicina cinese (edizione giapponese) sul quale ha iniziato a studiare da solo 38 anni fa. In questo momento sta ultimando il primo dei quattro volumi che intende scrivere sulla medicina cinese.

 

Conversione radicale obbligata 

 

Kawaguchi, oggi 76enne, è nato in una famiglia di contadini e dopo la prematura scomparsa del padre, terminata la scuola media, cominciò a lavorare nei campi con la madre per aiutare la famiglia. Dopo aver lavorato più di vent’anni, sempre utilizzando prodotti chimici (concimi e pesticidi), si ammalò gravemente. Era la fine degli anni Settanta e anche in Giappone era molto sentito il problema dell’inquinamento ambientale. Fu il libro Fukugō osen (Contaminazione complessa) di Sawako Ariyoshi (1975), una Primavera silenziosa giapponese, a convincerlo a cambiare radicalmente il suo modo di coltivare e anche di vivere. “Leggendo quel libro, ebbi davvero paura”, racconta oggi Kawaguchi, che non riuscì nemmeno a finirlo.

 

Kawaguchi di fronte al suo campo di daikon (ravanello bianco). Il raccolto è già avvenuto, le piante che restano sono ora in piena fioritura per poter più tardi raccogliere i semi. Apparentemente il campo sembra poco curato, ma in realtà è molto attentamente seguito.

 

All’epoca erano già noti il metodo di Fukuoka (Shizen Nōhō) e quello di Heiji Fujii (Ten-nen Nōhō), entrambi traducibili in italiano come “agricoltura naturale”. Kawaguchi si mise a studiare questi metodi e a praticarli sui suoi campi, ma inizialmente fu un fallimento totale. Tanti anni di pratica agricola chimica e meccanica avevano reso sterile il suo terreno, che non rispondeva subito al metodo naturale. Dovette aspettare tre anni prima di avere un’accettabile raccolto di riso, e addirittura dieci anni per gli ortaggi. Ovviamente nel frattempo non aveva alcun reddito. Non oso immaginare quanto fosse difficile resistere alla situazione e alle critiche per mantenere la via scelta, avendo una famiglia con tre bambini piccoli. Ma lui ricorda quegli anni come un periodo felice. “Eravamo poveri, ma felici”. La sua incredibile serenità derivava in parte dalla convinzione assoluta della giustezza della decisione presa, ma soprattutto dal fatto che era riuscito a liberarsi dal terrore dei prodotti chimici: “Mai più avrei potuto tornare in quell’inferno”. 

 

Tra le piante di rapa (da mangiare in inverno) aveva seminato a fine autunno i semi di pisello. I piccoli fasci di paglia di riso che si vedono appesi serviranno da sostegno alle piante rampicanti. I fiori gialli in primo piano sono piante di rapa lasciate andare in semenza. Quelli arancione sono fiori di croco. In fondo a destra si intravedono i fiori di colza per la produzione di olio, la macchia gialla in fondo a sinistra sono fiori di narciso per abbellire il campo. I suoi campi sono sempre pieni di biodiversità.

 

Allo stesso tempo, Kawaguchi cominciò a studiare da solo anche l’antica medicina cinese, perché nessun medico sapeva come guarirlo. E oggi, dopo 38 anni, viene considerato anche un grande maestro della medicina cinese. Lui dice che tra la medicina che pratica e l’agricoltura naturale ci sono molte corrispondenze. Entrambe seguono gli stessi principi della natura.

 

Principi

 

A differenza dei quattro principi del metodo di Fukuoka, ispirati al concetto Zen di MUI – ovvero “non fare” (non arare/non concimare/non usare pesticidi/non diserbare) – i principi fondamentali secondo Kawaguchi sono tre: 

 

1. Non arare.

2. Non introdurre alcun concime - nemmeno quello biologico - nel terreno.

3. Non considerare nemici gli insetti e le erbe selvatiche.

 

Il rifiuto dell’aratura è il punto più fondamentale e radicale del metodo di Fukuoka. Noi tendiamo a pensare che arare il terreno o vangare l’orto sia una cosa normale da fare solo perché l’abbiamo sempre visto fare, ma non fa parte del modo in cui funziona la natura. Del resto sappiamo che non tutte le forme di agricoltura hanno usato l’aratura. Gli Indiani d’America, per esempio, non aravano i loro campi. Kawaguchi racconta di essersene convinto subito. Aveva intuito, con le sue già ventennali esperienze da agricoltore, che era giusto: da sempre osservava l’ottima qualità del suolo laddove il terreno non era mai stato ribaltato, per esempio ai margini dei campi. 

 

Accanto alla fila di piante di pisello aveva da poco seminato la scorzonera. Prima di seminare, ha tagliato le erbe che potevano eventualmente disturbare la crescita delle nuove piante. Poi, con una piccola zappa, ha rimosso leggermente un sottile strato di terra per posare i semi che ha poi coperto con lo stesso terriccio, ricoprendo il tutto con le erbe tagliate per mantenere l’umidità. Tutto quello che cresce sul campo è utile alla coltura e rimane sul campo.

 

Quasi tutti i contadini, però, credono che sia indispensabile arare ogni anno i loro campi. In effetti, lo fanno quasi tutti. L’aratura consiste nel rovesciare il terreno, ritenendo di creare in questo modo un ambiente più ospitale alle piante, condizioni favorevoli al riscaldamento del suolo, all’inserimento dei concimi, ai movimenti dell’acqua, al soffocamento dei semi delle piante selvatiche e all’espansione delle radici. 

Tuttavia, rovesciando il terreno, esponiamo all’aria e al sole l’humus e tutti i suoi microrganismi aerobici e anaerobici, i veri “coltivatori” che alimentano le piante, facendoli morire. Ogni volta che ribaltiamo le zolle, in pratica noi azzeriamo la capacità della terra di alimentare le piante. In altre parole, provochiamo una sorta di semi-desertificazione, interrompendo periodicamente il meccanismo di autoregolazione insito nel suolo. E proprio per compensare questo deficit (da noi stessi causato) ricorriamo a un “doping”, cioè all’uso del concime. 

 

Kawaguchi ci mostra il terreno dove pianterà l’anguria da raccogliere in estate. Sul bordo a destra del bancale crescono le piante di fragola. In fondo si vedono i fiori gialli di colza giapponese. Anche qui la biodiversità è sempre presente. 

 

È molto simile all’atteggiamento della medicina allopatica occidentale, basata sul paradigma meccanicistico, che non considera molto la capacità di autoguarigione del corpo e cerca un rimedio alla malattia somministrando farmaci. Così come questa medicina ha difficoltà a riconoscere il nostro corpo come un organismo olistico dove scorre la vita, preferendo dividerlo in tanti comparti separati quasi fossero componenti di una macchina, anche la maggior parte dei contadini ha difficoltà a considerare il terreno come un’entità vitale. Henry David Thoreau, già a metà dell’Ottocento, notava questa “non vita” della terra coltivata rispetto a quella selvatica del bosco.

 

Kawaguchi in piedi in mezzo alle sue piante di porro. A destra crescono le cipolle. Il terreno è sempre ricoperto dalla paglia che fa da pacciamatura.

 

Arando i campi e introducendovi fertilizzante non prodotto dal suolo stesso, secondo i sostenitori dell’agricoltura naturale non facciamo altro che impedirgli di fare quello che è perfettamente in grado di fare: alimentare la vita. È come se considerassimo il campo come una fabbrica, dove senza approvvigionamento esterno di risorse materiali ed energetiche non accade nulla. Difatti, proprio seguendo questa visione, l’agricoltura in molte regioni del mondo è stata industrializzata a partire dalla seconda metà del Novecento. Persino l’agricoltura biologica, permettendo l’introduzione nel terreno di concimi biologici prodotti altrove, segue sempre lo stesso paradigma dell’agricoltura meccanico-chimica, quindi, a sentire Kawaguchi, non è una pratica che rispetti veramente i principi della natura.

L’agricoltura naturale, al contrario, si fida e si affida alla capacità del terreno e delle piante, e riproduce quanto più fedelmente le condizioni naturali nei campi. In questo è molto vicina all’idea di Gilles Clément, che si affida alla creatività delle piante cercando di ridurre al minimo l’intervento umano. Il vero autore dei suoi giardini, dice Clément, non è il giardiniere o il paesaggista, ma la collaborazione tra la natura e l’uomo, dove l’uomo fa quasi da assistente. Un rapporto simile tra uomo e natura si ritrova nell’agricoltura naturale. 

 

Allo stesso modo, come la salvaguardia della biodiversità è fondamentale per Clément, lo è anche per l’agricoltura naturale. Questo metodo rifiuta infatti la monocoltura, praticando la coltivazione di piante diverse una accanto all’altra nella stessa unità di terreno. Inoltre non elimina mai a priori alcun insetto, alcuna erba selvatica. Kawaguchi dice che non esistono né “erbe infestanti” né “insetti nocivi”, i quali sono solo concetti umani, “perché in natura non ci sono né buoni né cattivi”. Ritroviamo lo stesso principio nella medicina orientale antica. Kawaguchi però, a differenza di Fukuoka, non dice di non diserbare mai, anzi taglia le erbe selvatiche con il suo inseparabile falcetto seghettato, ma solo laddove è indispensabile perché potrebbero impedire la crescita delle sue pianticelle ancora piccole. Le erbe tagliate poi non vengono eliminate, ma lasciate sul terreno a marcire. 

 

 

Illustrazione tratta dal manuale Yoshikazu no Shizen Nō Kyōshitsu (La scuola dell’agricoltura naturale di Yoshikazu Kawaguchi) che spiega l’importanza di “seguire” le caratteristiche del terreno per decidere cosa coltivare. Non siamo noi a decidere cosa coltivare, ma è il terreno a indicarcelo. 

 

Non usando pesticidi, arrivano anche gli insetti considerati dannosi alle piante. Ma arrivano anche altri animali e insetti antagonisti. In Giappone i coltivatori di riso temono particolarmente i cicadellidi, ma se anche questi insetti mangiassero un po’ di foglie della pianta di riso, la loro moltiplicazione sarebbe controllata dalla presenza di ragni (presenti grazie all’assenza dei pesticidi). E i cadaveri degli stessi insetti, così come le erbe tagliate, contribuiranno all’arricchimento del terreno. 

E difatti lo strato superiore dei campi di Kawaguchi è costituito da questi corpi morti, vegetali e animali. Mentre visitiamo i suoi campi, a un certo punto l’anziano agricoltore si accovaccia e solleva un pezzo di terra per farci vedere l’humus che lui chiama, appunto, “strato di cadaveri” (nakigara no sō). Sono circa 20 cm di spessore di terra scura e morbidissima. È impressionante. Al di sotto, uno spesso strato di argilla molto friabile e poroso, ottimo per la diffusione di ossigeno e acqua. Quei 20 cm di terra nera e grassa rappresentano la storia di 38 anni di pratica di agricoltura naturale. Dice Kawaguchi: “Il terreno è un palcoscenico di vita e di morte, di vegetali e animali che si ripetono e si accumulano”.

 

È il “palcoscenico della fertilità”, dove l’uomo deve lasciare che i suoi attori si esprimano al meglio, spontaneamente. In altre parole, Kawaguchi insegna che bisogna affidarsi alla creatività della natura, seguire il più possibile le regole della natura e non quelle fissate dall’uomo. Kawaguchi ripete sempre: seguire, affidarsi e accompagnare. Bisogna seguire i principi della natura e affidarsi alle sue capacità. L’uomo non deve cercare di fare troppo: “È sbagliato pensare di dover arricchire il suolo, preparare un suolo fertile. Il suolo si fa da solo”. Ma allo stesso tempo, ammonisce Kawaguchi, bisogna accompagnare attentamente l’intero processo, seguire il clima, le condizioni dei campi, e le caratteristiche delle piante che si decide di coltivare. Quindi, anche se s’interviene il meno possibile, il processo è sapientemente accompagnato con grande flessibilità. Solo allora, dice, si ottiene un buon risultato.

L’agricoltura naturale, che comporta che il lavoro sia interamente eseguito a mano, sembra molto più faticosa e meno efficiente dell’agricoltura oggi prevalente. Ma Kawaguchi fa notare che “in realtà risparmiamo il tempo e il lavoro che servirebbero per arare, concimare e spruzzare pesticidi”. Infatti, una volta avviata l’attività, questo metodo richiede molto meno tempo rispetto al metodo consueto. Nel periodo della nostra visita, avvenuta nel mese di marzo, Kawaguchi lavorava solo quattro ore al giorno sui campi (ha solo una giovane aiutante), ma va detto che oggi ha a coltura appena 2500㎡, che comunque gli bastano sia per la sussistenza della famiglia che per la scuola di agricoltura.

 

Dopo aver lasciato riposare per due anni questa parte del campo, prima impiegata a risaia, Kawaguchi ha costruito i bancali e ha tagliato le erbe selvatiche cresciute. Ha poi ricoperto con esse i bancali, dove ha appena piantato le patate.

 

Se consideriamo anche il tempo e le risorse materiali ed energetiche necessari a produrre macchinari e prodotti chimici, oltre all’inquinamento prodotto da tali processi, il discorso è ancora più convincente: l’agricoltura naturale richiede complessivamente meno tempo, meno energie e meno materiali, ed è molto più sostenibile (si calcola che l’agricoltura meccanico-chimica spenda fino a dieci calorie per produrne una).

Per quanto riguarda la resa, Kawaguchi sostiene che i suoi campi hanno più o meno la stessa resa quantitativa dell’agricoltura convenzionale, ma la qualità dei suoi prodotti e la vitalità in essi contenuta sono di gran lunga superiori. 

 

La terra insegna

 

Dopo dieci anni dalla sua conversione all’agricoltura naturale, Kawaguchi ha cominciato a insegnare questo metodo a quanti erano interessati. Dal 1991, in una zona rurale a terrazzamenti tra la provincia di Nara e quella di Mie, tiene regolarmente dei corsi in modo non istituzionale. È una specie di “libera scuola” senza statuto né regole, chiamata Akame Shizen Nō Juku (Scuola di agricoltura naturale di Akame). Ognuno partecipa e collabora con la propria competenza e responsabilità. Per la maggior parte i partecipanti non sono agricoltori professionali, sono invece spesso cittadini sensibili alle questioni ambientali. Dopo i corsi c’è chi torna a casa e inizia a fare l’orto, chi decide di andare a vivere in campagna, e anche chi comincia a fare l’agricoltore. Ma la libertà è fondamentale. Kawaguchi dichiara di non voler diventare il guru dell’agricoltura naturale, né di voler costituire una comunità autoreferenziale. Chiede a ciascuno dei partecipanti di essere autonomo, non dipendente da questi corsi, di avere libera iniziativa nella vita e il coraggio di fare quello che vuole. Non esalta l’agricoltura naturale, si limita a trasmettere come funziona il metodo. Non cerca di convincere nessuno a praticarla se già non ne è convinto. Anzi, a volte, se si accorge che la persona interessata non è portata, cerca di dissuaderla. 

L’esperienza di questi corsi condotti da Kawaguchi sembra dare a molti l’opportunità di comprendere qualcosa di più profondo che non una tecnica agraria.

 

Kawaguchi tiene una lezione di agricoltura naturale presso la Akame Shizen Nō Juku (Scuola di agricoltura naturale di Akame).

 

L’insegnamento di Kawaguchi si estende spesso a dimensioni filosofiche. Poiché in questi corsi si è necessariamente in stretto contatto fisico e mentale con la natura, con il suo ciclo di vita e di morte, si ha la grande possibilità di capire profondamente le leggi della natura che, secondo Kawaguchi, costituirebbero “la via della vita”, la dimensione più fondamentale. Se la segui bene, la natura ti dà tutte le possibilità per vivere, ma allo stesso tempo l’uomo ha su di sé tutta la responsabilità di sfruttarne l’opportunità. Questa è la dimensione della “via dell’uomo”, che contiene la dimensione etica. E se perseveri, trovi la tua “via personale”, puoi capire esattamente cosa vuoi fare della tua vita. 

Le tre vie (via della natura, via dell’uomo, via personale) di cui parla Kawaguchi, ricordano molto le tre ecologie di cui parla Félix Guattari – ecologia nell’ambiente naturale, ecologia nell’ambiente sociale, ecologia nell’ambiente mentale delle singole persone – ma facendo capire in maniera ancora più concreta come le tre dimensioni siano organicamente connesse tra loro e soprattutto quanto sia fondamentale rispettare le leggi della natura, quelle che Thoreau chiamava “leggi superiori”. Queste leggi superiori sono essenziali anche nella dimensione umana, ma non corrispondono sempre alle nostre norme sociali: permettono anche di uccidere, nel senso che vivere significa ricevere la vita uccidendo altre vite. Siamo vivi grazie alle vite tolte.

 

Niente cadaveri, niente vita. Sembra un’affermazione esagerata, ma è solo reale. Semplicemente, la nostra società moderna è fatta in modo che i suoi cittadini non affrontino questo fatto potenzialmente traumatico. In realtà, ogni singolo essere vivente vive e sopravvive grazie al fatto che uccide (anche indirettamente) altre forme vitali, animali o vegetali che siano. È un atto fondamentale, “bello e solenne”, dice Kawaguchi. Sarebbe molto importante ricordarsi di ringraziare la vita che ogni giorno noi prendiamo per sopravvivere, piuttosto che ignorare questa dimensione “selvaggia” della vita che è spesso nascosta sotto il cellofan dei supermercati. Bisognerebbe recuperarne la consapevolezza, e la pratica dell’agricoltura naturale è in questo molto efficace, a cominciare dal termine “strato di cadaveri”. 

 

Natura, etica, bellezza

 

Abbiamo detto “bella e solenne”, ma per Kawaguchi la componente della bellezza ha sempre avuto una grande importanza. Da giovane sognava di diventare artista. Disegnava, dipingeva e scolpiva. Ancora oggi possiamo ammirare nel suo giardino una sua scultura giovanile, un nudo femminile a grandezza naturale. Accanto alla quotidiana attività agricola, ha frequentato la scuola d’arte, ha trovato il tempo per visitare le mostre, i musei, i templi. Ha un’ampia conoscenza dell’arte moderna, ma sa distinguere anche le qualità delle importanti sculture buddhiste antiche. Anche se ora non dipinge più, penso che in un certo senso pratichi l’agricoltura come un atto artistico. Ovviamente la sua poetica non risponde solo all’estetica, fatto culturale, ma ha radici profonde che scendono fin nella natura. Possiamo forse dire che la sua poetica è composta dalle leggi della natura, dell’etica e della bellezza. Di nuovo le tre dimensioni: natura, società e mente, che sono profondamente connesse dentro questa straordinaria figura di agricoltore. 

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