Elogio del pastore

15 Novembre 2011

Sono sempre più rari i frammenti di paesaggio italiano che vedono il pastore come elemento fondamentale o anche solo caratteristico.

Nel suo inarrestabile rarefarsi, l’attività economica della pastorizia sta scomparendo giorno per giorno e la figura del pastore sembra essere diventata quasi una metafora, nonostante sia stata una delle prime della nostra civiltà.

 

L’Antico Testamento ha nella storia di Caino - agricoltore - e Abele - pastore - il racconto di un dramma, quello di una società agricola e sedentaria che soppianta e violenta quella antica dedita all’allevamento degli animali e ad una vita nomade. È la prima testimonianza letteraria della più grande rivoluzione che l’umanità abbia vissuto. Da allora le tende scure degli Ebrei, le tende scure dei pastori, saranno per quel popolo un ricordo e una nostalgia, l’era dei primi patriarchi, avvertita come la vera vita. La vita nomade, ogni giorno su rotte e cammini diversi, sotto il sole, attraverso ostacoli sempre differenti e la mappa del mondo da inventare passo dopo passo. Il cammino, il sole, il riposo insieme a quello degli animali e un cibo frugale fatto di erbaggi, di pane scuro e di formaggio di pecora quale nutrimento essenziale.

Dopo ci sarà solo un altro mondo. L’aratro e la zappa porteranno una maggiore certezza del presente e dei luoghi, porteranno la vita stanziale nel villaggio e nelle città, porteranno un’alimentazione basata sulle dolci farine in ogni giorno dell’anno.

 

Mia madre dice che non ricorda ai tempi di suo nonno mai nessuno che morisse idiota, mai nessuno reso ipotente da un cervello che si svuotava. Era sempre il fisico quello che cedeva, anche nei grandi vecchi; ancora sconosciuti gli anni dell’Alzheimer.

I grandi vecchi che mia madre ha conosciuto erano quasi tutti pastori. Certo un centinaio non è un campione enorme, certo la vita media due generazioni prima era più corta; gli ultraottantenni erano più rari ma tutti conservavano il senno, mantenevano identità di uomo e di essere umano. Ricordi di una bambina negli anni ‘40 del secolo scorso, dentro a qualche possibile verità ancora da decifrare.

 

A volte, il tempo ha bruschi cambi di velocità e poco rimane di quel che è stato. Gli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, in tutto l’occidente, con intensità e tempi solo leggermente differiti da nazione a nazione, sono passati alla storia come gli anni dei baby boomers, generazione esplosa sull’onda di un altro boom, quello economico, prima generazione nata e cresciuta completamente urbanizzata, meccanizzata, ipernutrita, completamente civilizzata (nel senso della civitas cioè di colui che vive in città). Oggi quella generazione è attesa ad un appuntamento che non avrebbe immaginato negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, quando sentiva in tasca un destino di solo progresso e di benessere. Di quella generazione ora si dice che sarà la “Generazione Alzheimer”; lo sarà almeno nella progressione con cui l’epidemia - è già così nei numeri - avanza.

 

Il mestiere del pastore è una metafora ma anche l’ultimo esempio di un modello di vita per cui eravamo nati e in cui abbiamo vissuto per centinaia di migliaia di anni: mobili su un territorio sempre nuovo, vigili e, nell’attraversarlo, pronti a cogliere ogni possibilità che potesse offrire.

Rispetto a ciò, gli anni del benessere economico e dei baby boomers sono l’ultima cesura, netta.

Oggi, infatti, sembra esserci solo una vita possibile, fatta della certezza dei luoghi, la “mappa del mondo” quotidiana segnata dal tragitto casa-ufficio e tutti i servizi sotto il portone. Quasi dimenticati gli ormoni della scoperta e della fuga - rari e imprevedibili - come quelli del digiuno, della fame occasionale, quelli legati ad un rarefatto rapporto con le risorse alimentari; al loro posto quelli favoriti da un’ansia sottile e costante, come costante è il flusso di cibo, zuccheri e calorie con cui attraversiamo la vita.

Una rivoluzione, anche per le cellule che è andata accelerando….

 

Un pastore è un fossile vivente di altre ere.

Andava lento ma sicuro come gli antichi portatori di sale e forse per lo stesso loro sentiero. Era seguito e preceduto da capre e pecore a frotte. Andava lento ma andava…sparì fino alla cintola oltre il crinale, poi fino alle spalle, poi tutto quanto, S’inforrava dall’altra parte, nei gerbidi rocciosi, nelle macchie di lentischi”.

Nessun posto per lui se non in rarissimi frammenti di paesaggio italiano - vere e proprie vestigia di altre epoche - come troviamo nelle parole e nella poesia di Francesco Biamonti. Eppure resta l’ultimo esempio di una condizione esistenziale che abbiamo dimenticato ma che ha lasciato la sua eco nelle pieghe delle cellule oltre che in quelle del tempo.

Ma anche i fossili possono insegnarci qualcosa se solo si è in grado di decifrarne i segni, se solo si è capaci di ascoltarne i sussurri lontani.

Accade talvolta che i bisbigli abbiano le parole della scienza.

 

Primo sussurro.

È recente la notizia che la vitamina D3 ha dimostrato un’azione preventiva nei confronti dell’Alzheimer. La maggior fonte di approvvigionamento di questa vitamina resta la sintesi che avviene sulla pelle esposta al sole (la vitamina D3 è anche un ormone). Una vita condotta all’aria aperta è una delle migliori prevenzioni per la malattia.

 

Secondo sussurro.

Il latte vaccino - l’allevamento bovino è stato l’ultimo in ordine storico e i suoi formaggi sono quelli tipici delle civiltà contadine ed urbane - contiene circa 0,09 μg di Vit D3 ogni 100 ml; il latte di pecora circa il doppio, il triplo il latte di capra.

 

Un altro sussurro.

Uno studio presso la Mc Gill University in Canada ha recentemente messo in guardia dall’uso abitudinario dei navigatori satellitari per orientarsi. L’ippocampo, la parte del cervello che aiuta la navigazione spaziale, se poco stimolato finisce per mal funzionare, fino a casi limite che riguardano lo sviluppo di malattie degenerative, come il morbo di Alzheimer.

Verrebbe infatti meno il metodo orientativo geospaziale basato sulla memorizzazione di punti di riferimento sul terreno per disegnare una mappa mentale , richiamando quindi alla memoria i segnali. In definitiva, verrebbe meno quella funzione orientativa “creativa” che abbiamo utilizzato fin dall’origine della nostra specie e che utilizziamo ogni volta che ci troviamo in un posto nuovo. Con l’uso del navigatore si attiverebbe invece l’altra funzione orientativa dell’uomo basata sulla ripetitività di un percorso, alla lunga memorizzato senza più pensare a dove si sta andando.

 

Ambito accessorio il navigatore, ultimo gadget di una vita che porta a ripetere incessantemente gli stessi gesti e gli stessi itinerari. Ancora una volta tutto l’opposto rispetto alla vita per cui eravamo nati, sempre mobili sul territorio, ogni giorno un luogo diverso. Ambito accessorio il navigatore che spiana le strade come forse il cervello…

 

E allora che sia finalmente l’elogio del pastore se, della vita che sprofonda nella culla delle nostre origini, questo mestiere è l’ultima testimonianza. Almeno per quella parte di noi fatta di cellule, ormoni, organi e corpo, che ci sia un elogio del pastore senza l’aiuto di alcuna poesia.

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