Un grande scrittore / Mircea Cartarescu, evadere dalla realtà

28 Maggio 2021

"Ci siamo ripresi lentamente, come da un viaggio mistico o eroinico, siamo crollati in noi stessi (...) consunti e devastati": potrebbe essere questa, rubata a Mircea Cartarescu, l'espressione giusta per descrivere il senso di stordimento che si prova alla fine delle novecentotrentasette pagine del suo romanzo Solenoide (Il Saggiatore, 2021). Lui la scrive quasi in fondo, dopo nove pagine scioccanti, che riportano solo la parola "aiuto!". Un grido unanime che sembrava "essere esploso da un milione di trachee, come dalle canne d'organo della sofferenza umana". Sfogliarle nove volte e leggere solo questa invocazione "aiuto!" fa l'effetto paradossale di un intervallo che, invece di dare tregua all'angoscia che il protagonista trasferisce implacabile sui lettori, la rende materiale, ripetendo duemilaquattrocentottanta volte "l'unica parola che accoglie in sé tutto il fallimento della nostra solitudine", un coro grandioso "che unificava in un pulsare unanime l'uomo e la donna, lo schiavo e l'uomo libero, il ricco e il povero, il creativo e l'inetto, l'onesto e l'infame, lo scrittore e il lettore". E leggerle, di seguito, come si leggerebbero le righe che raccontano la storia, invece di saltarle, provoca lo stesso straniamento di Shelley Duvall nel film di Stanley Kubrick Shining (1980), quando, in un crescendo di terrore, scopre che Jack Nicholson aveva scritto, nel voluminoso manoscritto lasciato sul tavolo, soltanto la frase "il mattino ha l'oro in bocca". 

 

Tra lo scrittore e il lettore di Solenoide deve stabilirsi, da subito, un patto. Lo stesso che gli spettatori stipularono con Luca Ronconi, quando decisero di assistere dall'inizio alla fine alle dodici ore della sua messinscena di Ignorabimus di Arno Holz (1986), o con Andy Warhol, quando guardarono l'inquadratura fissa sull'Empire State Building per otto ore e cinque minuti, nel 1965. Per non parlare di quando decisero di affrontare le grandi imprese letterarie di Proust, Dostoevskij, Musil, Joyce: opere nelle quali il rallentamento dei tempi, il ritornare continuo dell'autore sui propri passi, il procedimento dell'accumulo, la rottura della regolarità sintattica, la complessità che niente concede allo svolgimento lineare della trama, ritrovano una miracolosa unità nella mente del lettore. A patto che il lettore sia disposto a stare al gioco di chi vorrebbe che vestisse piuttosto competenze da studioso, rinunciando a considerare il romanzo, l'opera teatrale, il film come un'occasione di godibile intrattenimento.

"Libro amato e inutile a un tempo, tu non rispondi ad alcuna domanda" avverte Cartarescu, scegliendo come esergo le parole del poeta romeno Tudor Arghezi (1880-1967), uno dei più grandi del novecento. Resistendo alla tentazione di definire Solenoide il romanzo di un "visionario" (termine invero molto usato in proposito, il libro è del 2015 ed esce in ritardo in Italia, dopo varie traduzioni nel mondo.

 

Quella italiana è resa mirabilmente da Bruno Mazzoni), è semmai alla letteratura steampunk, se proprio vogliamo costringerla in un "genere", che quest'opera monumentale rinvia. L'ingegneria meccanica che sottende al titolo, lo accomuna a quei filoni di narrativa fantastica che descrivono un mondo anacronistico, dove enormi apparati magnetici sono addirittura in grado di modificare l'orbita della luna o, come accade qui, di far levitare l'intera città di Bucarest, fino a innalzarla nel cielo, spinta dall'energia di cinque solenoidi, "che circondavano il sesto, molto più potente". Nella descrizione di Cartarescu, il solenoide è "una grossa bobina di spesso cavo di rame, ingrassato e luccicante, attorcigliato in maniera sofisticata, difficile da descrivere, come delle trecce femminili di colore rosso, raccolte a chignon in cima alla testa". Eterni e indistruttibili, i solenoidi "sono incastrati nella struttura della realtà, piuttosto che nelle fondamenta delle città", e spingono Bucarest nell'etere, sospesa al di sopra "della buca infernale che aveva sempre celato, come una crosta su una piaga purulenta". Sembra Il Castello errante di Howl, nel film di Hayao Myazaki (2004), tratto dal romanzo fantasy di Diana Wynne Jones (1986), ma qui Bucarest è piuttosto un intrico di condotti come fossero vene e arterie che confluiscono in un tubo centrale "l'aorta del dolore, il canale collettore della sofferenza umana" e rimane sospesa tra le nuvole come una "medusa fluttuante". 

 

Non si può che restare ammirati dallo sforzo, anche muscolare, che Mircea Cartarescu ha compiuto nello scrivere questo perturbante romanzo. Infinite sono le piste che propone al lettore, conducendolo in un universo senza pace, esemplificato nella Bucarest alla fine degli anni '70, che descrive nella sua "grandezza malinconica" come "il più spaventoso termitaio (...), la più brutta, la più triste, la più miserevole (...), museo del decadimento di ogni cosa, città della rovina, delle malattie, dei calcinacci e della ruggine. (...) Come Brasilia, ma in maniera ben più profonda, Bucarest era nata su un tavolo da disegno (...), uno spazio costruito a immagine e somiglianza dei suoi abitanti (...) dove si continuavano a produrre, in un silenzio e un isolamento sovrumano, la paura e la pena, l'infelicità e l'agonia, la malinconia e il tormento della nostra vita in terra".

 

Occupata da edifici in rovina, dominata dal colore verde, "il tedio entusiasmante del verde", dal verde oliva della sala professori della scuola dove il protagonista insegna, al giallo-verde "come il veleno di un serpente" di un tramonto, Bucarest circonda la vita disgraziata del nostro, con un'infanzia infelice alle spalle, un fratello gemello morto, una madre che lo vestiva da bambina, nell'odore persistente di muffa della penicillina che gli iniettavano bucandolo con spaventose siringhe manovrate da infermiere grasse, infliggendogli patimenti come sulla "poltrona dentistica", sulla quale era costretto a sedersi per sottoporsi al lavorio del trapano e che diventerà modello di ogni tortura, e sulla quale Irina, la compagna, partorirà  la loro bambina, che chiameranno Irina come la madre. Sarà lei, con il suo pianto di neonata, l'unica a far sentire al padre "improvvisamente, con una forza straordinaria, la realtà", come se la sua onda d'urto lo avesse colpito "in pieno volto".

 

"Se fossi stato scrittore" è il leit motiv, ripetuto molte volte, di questa confessione destinata a chi può accettare di leggere un libro sapendo di non poterlo fare "comodamente, mangiando un panino, durante una pausa in sala professori, o in tram, tornando a casa". Solenoide chiede al lettore lo stesso sforzo di volontà che Cartarescu ha compiuto scrivendo questo affresco grandioso, che allude all'universo concentrazionario dominato dal comunismo rumeno, dal quale non si può far altro che immaginare "piani di fuga", poiché nessuno crede più agli eroi proletari, al loro ardore anacronistico e alla lotta di classe "di cui adesso ridono persino le galline" (Ceausescu – in verità mai citato nel libro – al potere in Romania dal 1967, sarà deposto e ucciso soltanto nel 1989, dieci anni dopo la data in cui si svolge la storia raccontata in Solenoide, dal 1975 ai primi anni '80). Ma, nella scuola n. 86 della periferia di Bucarest dove insegna il protagonista, nella paura e nell'obbedienza alla burocrazia politica, si continua ad assegnare ai bambini il premio per "l'Ateo migliore", molto ambìto "perché consisteva in una radiolina a transistor, con una bellissima custodia di pelle marrone". 

 

 

"Se avessi voluto scrivere letteratura", ripete; dice anche: "scrivo solo per me, nell'incredibile solitudine della mia vita", guidato da Holderlin nel componimento del suo primo poema, quando aveva vent'anni, e programmaticamente intitolato La caduta, il professore (io narrante dell'autore), si commuove fino alle lacrime leggendo, da bambino, per quattro ore di fila, The Gladfly, il "tafano", di Ethel Lilian Voynich (1909) e si felicita con se stesso "per non essere diventato scrittore" evitando un'illusione che gli avrebbe nascosto il vero senso della vita. Ma a scrivere evidentemente non rinuncia, sedotto da uno stereotipo, impersonato secondo lui da George Peppard in Colazione da Tiffany: chiederà a sua madre di fargli lo stesso maglione dolce vita con il collo rovesciato che Peppard indossava nel film. La cultura del piccolo professore di romeno è così vasta e coincide con quella di Mircea Cartarescu, accademico in varie università, anche straniere: come se questo romanzo volesse contenere l'Akasha, la memoria universale supposta dall'antroposofia, per conservare tutti i gesti fatti e tutte le parole dette dall'uomo e "tutte le sfumature di verde mai viste dall'occhio composito di una cavalletta". Dopo aver letto decine di migliaia di libri non è possibile non chiedersi "dov'è stata la mia vita in tutto questo tempo?".

 

La scrittura consuma la vita e il cervello come l'eroina, la letteratura è un museo dalle porte illusorie ed è troppe volte un'eclissi della mente e del corpo di colui che scrive. Strindberg, Hamsun, Camus, Mann, Dante, Lautréamont, Kafka naturalmente (pidocchi e altri insetti popolano il romanzo, fino a che con l'aiuto del suo solenoide il bibliotecario Palamar costringerà il protagonista a prendere possesso del corpo di un acaro), Rousseau, Boole, Lewis Carroll, Edwin Abbott, Erodoto, fino a un inaspettato Guido Piovene, di cui il protagonista legge Le stelle fredde, compaiono citati nel libro. Ma Cartarescu svela chi ha illuminato il suo "essere interiore" in un capitolo dantesco, in cui racconta di un gruppo di adepti ad una setta mistica che organizzano una manifestazione all'Obitorio dell'Istituto di Medicina Legale. Lì, un "Virgil" li istiga a protestare, "Protestate, protestate contro la coscienza sepolta nella carne!" e loro innalzano cartelli con su scritto: "Perché viviamo? Com'è possibile che esistiamo? Chi ha permesso questo scandalo e questa ingiustizia? Questo orrore e questo abominio?". Un viaggio nel regno dei morti dove a un certo punto Virgil comincia a elencare i nomi dei "santi e degli illuminati" della specie umana, da Platone a Lao Tze, e poi, tra gli altri, Gesù, Pitagora e Dante, Saffo e Sei Shonagon, Shakespeare e Tycho Brahe, Michelangelo e Leonardo, Newton e Volta, Bach e Mozart, Rembrandt e Vermeer, Milton e Darwin, Wittgenstein, Freud, Proust, Rilke, Einstein, Nikola Tesla, James Clerck Maxwell, il fisico che elaborò la prima teoria moderna dell'elettromagnetismo, Gottlob Frege e George Cantor, Joyce e Canetti, Virginia Woolf, De Chirico, Max Ernst e Frida Kahlo, Faulkner, Ezra Pound, Carl Orff, Chaplin e Murnau, Tarkovskij e Fellini. "Con migliaia di altri geni che hanno formato, deformato e di nuovo formato la nostra mente (...) vengo davanti a te con l'intero lascito delle civiltà (...). Ti basta? Ti basterà mai? Sarai mai sufficientemente sazia? Porterai mai via la tua ombra dalle nostre vite?".

 

Ma la Donna Ciclopica, gigantesca statua della Dannazione, a cui Virgil aveva rivolto la sua promessa di dono ("Vengo da te con i miei libri e le mie invenzioni, con le mie poesie e le mie tabelle, con la mia matematica e la mia fisica, con la mia musica e la mia architettura, con l'astronomia e la mia storia...") alza un piede e lo schiaccia. Il Virgil che aveva orchestrato la ribellione al grido di "Abbasso la morte!", "La sofferenza è un peccato!", "Non vogliamo morire!" termina il suo viaggio "ridotto a un liquido giallo e rosso" che usciva "da sotto la pianta del suo piede, lanciando le sue gocce disgustose lontano, sul pavimento e sui nostri vestiti". Nei cadaveri esposti all'obitorio, il professore riconoscerà tanti "se stesso", nelle varie età della vita, mentre Bucarest resta al di là della civiltà, una necropoli in attesa dell'arrivo di un grande corpo cosmico "che la rad[a] al suolo".

Nel romanzo si intrecciano le storie di Ispas, il custode della scuola, sparito o rapito, del bibliotecario Palamar, di Stefana, la prima moglie del protagonista, di Nicolae Minovici (1868-1941), medico, esperto nell'autosoffocamento e campione mondiale di impiccagione controllata, e di Cathy, "una farfalla esotica in mezzo a delle tarme", il primo e unico spiraglio di frivolezza e di colore nell'atmosfera verdognola e malata che pervade il libro.

 

Cathy, "l'oggetto più incantevole dell'universo" è la professoressa di chimica che insegna senza aver bisogno di lavorare e "trascorre le sue ore di lezione raccontando ai bambini, come se gli narrasse una fiaba, della sua villa (...), delle sue undici stanze, della sua mobilia Renaissance, delle decine di vasi di cristallo di Boemia (...) e passa bruscamente da Chanel, Coty, Lancôme, Giorgio Armani e Dior ad altri nomi, altrettanto sconosciuti ai bambini: fluoro, cromo, bromo, iodio". Un lungo capitolo è dedicato a Nicolas Vaschide (1874-1907), psicologo romeno che si interessò di metapsichica e occultismo: l'autore ha messo a dura prova il lettore cento pagine prima, raccontandogli per filo e per segno una trentina di sogni, così minuziosamente descritti, così ricchi di particolari  che avrebbero fatto felici Freud e Vaschide ma avrebbero provocato l'invidia di Alfred Hitchcock, che raccontava a Truffaut di non riuscire mai a ricordare al mattino le eccezionali sceneggiature, perfette e compiute, che sognava. Allora mise un foglietto e una matita sul comodino, per fissarle subito, la notte, ma, svegliandosi, l'architettura perfetta della storia che aveva sognato appariva annotata così: "ragazzo si innamora di una ragazza". Non è il caso del protagonista di Solenoide che i sogni se li ricorda tutti, e li riferisce con pedante, e per il lettore scoraggiante, precisione. 

 

I sogni del professore di Cartarescu sono di tre tipologie (come il cuore: di ferro, di piombo e di cristallo, l'unico "vero"): i somnium o phantasma, prodotti dalla nostra anima mondana, admonitio o chrematismos, i sogni in cui ci incontriamo con i morti o con "terrificanti ragni che invadono e foderano di seta i sotterranei della tua mente (...) estasi e incubo uniti a volte nei sogni di accoppiamenti agonici"; infine gli orama, i sogni essenziali, i sogni supremi che si svelano all'anima "con una chiarezza allucinante" e che finiscono per essere il "piano di evasione" cui ogni essere umano tende. 

Nella povertà del regime comunista romeno di metà anni '70 si impone la moda del cubo di Rubik e "nel grigio verdastro della sala professori, i cubi rigirati tra le mani livide, sono come delle sordide meraviglie, come dei fiori modesti, di campo, che danno tuttavia luce, magicamente, sotto i cieli bassi, opprimenti. Le povere maestre perdevano anche quel poco di lucidità che avevano, appresso a questi cubi di plastica, diventati sudici e appiccicosi". Mentre il paradosso assurdo del comunismo che imponeva il dovere patriottico del riciclo dei rifiuti, faceva sì che "su tre fabbriche di carta, due producevano cartastraccia per le scuole. Le fabbriche di birra, di olio e di conserve, preferivano vendere le bottiglie e i barattoli vuoti, poiché ora valevano di più dei prodotti confezionati". Cosa si può fare se non cercare di fuggire da questa realtà senza senso? Cartarescu sceglie il pessimismo cosmico del suo connazionale Cioran: anni di dittatura e di cultura totalitaria hanno azzerato in lui qualunque forma di ribellione, l'unica fuga possibile è nella scrittura.

 

Il piano di evasione dalla realtà si compie anche per il lettore: il tempo di lettura di questa cappella sistina della tragedia umana, consegnatoci in una lingua ricca ma piana, impreziosita da vocaboli sofisticati (esuvia, succino, coclee, clorotico) non coincide con quello, che deve essere stato lunghissimo, della scrittura, apparentemente naturalistica ma che travalica e supera i limiti del naturalismo. Perché, come dice l'autore-protagonista, cosciente di comprendere tutto senza poter fare nulla, "la tela del quadro non va sovraccaricata di colori – è già abbastanza greve nel suo intreccio immacolato di fibre ma strappata, come ha fatto Fontana, nell'unico, esasperato gesto di liberazione". 

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