The Underground Railroad / Sui binari della libertà

15 Luglio 2021

Non sappiamo precisamente quando cominciò. Non sappiamo bene quando e dove finirà. Lo schiavismo è la forma storica dell’ideologia razzista. Il setting della crudeltà pineale dell’uomo: istintiva, arcaica. Da quando esiste una clava che spacca una testa esiste il primo sottomesso, il primo uomo privato della sua libertà e della sua dignità, condannato al dolore fisico e morale, alla disperazione e alla rassegnazione, alla rabbia e alla fuga, alla caccia e al definitivo tormento, al morire come alternativa all’impazzire.

Il 25 giugno 2021 un giudice ha condannato l'ex agente di polizia di Minneapolis USA, Derek Chauvin, bianco, a 22 anni e mezzo di carcere per l'omicidio di George Floyd durante un arresto il 20 aprile 2020: omicidio involontario di secondo grado, omicidio di terzo grado e omicidio colposo di secondo grado nella morte di Floyd, afroamericano. «È la sentenza più pesante mai inflitta a un ex agente di polizia per l'uso illegale della forza negli Stati Uniti» ha detto ai giornalisti il procuratore generale del Minnesota, Keith Ellison. Da quell’omicidio, lento e intenzionale, ripreso dallo smartphone di un passante, si scatenò il potente movimento di protesta mondiale per i diritti civili Black Lives Matter. Ma… ma è abbastanza? È una equa sentenza? Fa giustizia? Placa gli animi? No. Carolyn Pawlenty, madre di Derek Chauvin, durante il processo ha detto al giudice che suo figlio è un «uomo tranquillo, premuroso, onorevole e altruista; ha un grande cuore.

 

L’identità di mio figlio è stata ridotta a quella di un razzista». Prima della sentenza Chauvin si è rivolto ai famigliari di Floyd, facendo le sue condoglianze, augurando loro, un giorno, di ritrovare la pace. La figlia di Floyd ha sette anni, dopo la sentenza in un video ha detto che il papà le manca, che le preparava la colazione ogni mattina e le faceva lavare bene i denti. Un famigliare, furioso, ha dichiarato che se un poliziotto nero avesse soffocato un cittadino bianco sarebbe stato condannato a morte. Ma il comunicato ufficiale della Floyd’s family scrive il bilancio storico di un anno di dolore e di rabbia: «Abbiamo bisogno di questa sentenza per inaugurare una nuova era di responsabilità che trasformi il modo in cui i neri vengono trattati dalla polizia. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno che il Senato degli Stati Uniti approvi il “George Floyd Justice in Policing Act” senza ulteriori indugi». Il Presidente degli Stati Uniti, bianco e democratico, ha detto che – pur non avendo studiato nei dettagli gli atti – questa gli pare una giusta sentenza.

 

 

L’anno di Black Lives Matter ha dato una grande visibilità alla corrente degli studi afroamericani, al documentarismo afroamericano, alla letteratura afroamericana, al cinema afroamericano. Ha riportato alla memoria un autore e attivista fondamentale come James Baldwin, trasferitosi nel 1970 nella meno violenta Francia, a Saint-Paul-de-Vence, così come aveva fatto Josephine Baker, divenendo poi anche massona nell’Ordine misto del Droit Humain, fondato in Francia a fine Ottocento da George Martin e Marie Deraismes. Lì Baldwin morì nel 1987.

 

Nel 1947, dopo la sua creazione, l’agenzia ONU Unesco convocò un gruppo di esperti internazionali (etnologi, sociologi, genetisti, antropologi e biologi) per definire se esista, o cosa sia, il concetto culturale di “razza”; i risultati della ricerca furono pubblicati in un fascicolo dal titolo Qu’est-ce qu’une race? Quindi? Cos’è la razza? Niente, quasi niente. La razza umana è una sola. E cosa è cambiato da quando l’Organizzazione delle Nazioni Unite con la Dichiarazione Universale dei diritti umani ha proclamato nel 1948 come si dovrebbe comportare l’umanità? Non molto, o molto lentamente qualcosa; gli imperialismi non sono più militari dagli anni Sessanta (in India grazie al satygraha di Gandhi dal 1947), ma in tutto il mondo ancora oggi restano genocidi interetnici (nell’ex Jugoslavia ancora negli anni Novanta, in Cina ancora oggi con i campi di “rieducazione” degli Uiguri islamici) e i migranti sono trattenuti anche dall’Unione Europea il più possibile fuori dai propri confini, concentrati in campi profughi dalle condizioni invivibili.

 

 

Einaudi ha appena tradotto il saggio storico di Aurélia Michel, francese e bianca, Il bianco e il negro (trad. it. Einaudi, 2021): nella sua prefazione fa riferimento, per la diffusione di una consapevolezza mondiale contro razzismo e nuovo schiavismo (adulti sottopagati e sfruttati sino alla morte sul lavoro, minorenni ancora in miniera in vari Stati…) a una serie tv e a due film: Radici (tratta dal romanzo di Alex Haley), Django Unchained di Quentin Tarantino, 12 anni schiavo di Steve McQueen tratto dall’autobiografia del fuggitivo Solomon Northup del 1853; poco ottimista sulla situazione mondiale attuale, Michel scrive: «La conoscenza storica che oggi abbiamo rispetto all’insieme di questo processo ci deve permettere di rendere intelligibile quello che potremmo chiamare, molto semplicemente, ”ordine bianco”. Erede dell’Ancien Régime cristiano in Europa e del suo sviluppo atlantico moderno, esso si sviluppa a partire dai Lumi e dalla Rivoluzione francese. Si tratta di un ordine sociale, economico, militare, politico, ideologico fondato sull’autorità dell’individuo maschio di origine europea e – citando a caso in mezzo ai suoi tanti attributi – sul suo desiderio di libertà, di famiglia, di proprietà e di patria.

 

Sempre minacciato, vulnerabile, questo ordine si è difeso, con tutte le forze, contro i suoi detrattori e soprattutto contro le sue stesse contraddizioni, in particolare nella sua promozione di una società egalitaria e democratica. La razza fa parte dei suoi argomenti». Come? Proprio l’illuminismo francese che ispirato dalla massoneria ribalta aristocrazia e clero cattolico nel 1789 è il fondamento del suprematismo bianco? Sì. Proprio quei massoni americani legati all’illuminismo francese, i Padri della Nazione americana Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin non inserirono nella Dichiarazione di indipendenza dal Regno Unito del 1776 l’abolizione della schiavitù: Franklin la voleva, Jefferson no, perché era un tagliateste giacobino ma soprattutto un possidente terriero della Virginia padrone di schiavi afroamericani; George Washington, il primo presidente degli Stati Uniti d’America nel 1789, aveva schiavi afroamericani e strappava loro i denti per farne le sue dentiere, avendo tutti i propri denti guasti. C’è una scena molto bella della serie tv HBO John Adams di Tom Hooper prodotta da Tom Hanks vista su Sky Atlantic in Italia nel maggio 2021, con uno straordinario Paul Giamatti nei panni del protagonista mediatore tra Franklin e Jefferson, che racconta come i tre giunsero a un compromesso.

 

 

Un “nuovissimo” della regia afroamericana è Barry Jenkins: suo è Moonlight, plurinominato agli Oscar nel 2016. Jenkins, che oggi ha 42 anni, è apertamente impegnato nel movimento per i diritti civili e LGBTIA+ e parlando di quel film ha raccontato come volesse finalmente asserire una estetica del corpo afro, che “al chiarore della luna è blu”, desiderabile, stupendo, opera d’arte da contemplare e desiderare. Jenkins, originario di un quartiere povero di Miami, ha la capacità di creare un linguaggio filmico che sa rallentare sino all’ipnosi di chi guarda le emozioni dei suoi personaggi; riesce a tracciarle, a colorarle anche potentemente nella fotografia. Sa far spiccare le ali a una narrazione realistica per portarla nell’inconscio dei ricordi, dei traumi, dei sogni, sino a rappresentare la sincronicità caotica del nostro sentire, che rimescola passato e presente in un tumulto che solo nello storytelling lungo del personaggio arriva alla sua metacognizione. Jenkins ha quindi affrontato ora un “nuovissimo” della letteratura afroamericana, Colson Whitehead, che nel 2016 ha pubblicato The Underground Railroad (trad. it. Martina Testa, La ferrovia sotterranea, ed. SUR), proprio allegorizzando in “vera” ferrovia sotterranea le tormentose vie di fuga dagli stati schiavisti verso il Nord-Est abolizionista nei decenni precedenti la Guerra Civile 1861-1865, e gli emendamenti costituzionali antischiavisti che costarono la vita al Presidente Lincoln nel 1865.

 

 

La complex tv Amazon Prime (programmata in Usa e nel mondo da maggio 2021, prodotta da Brad Pitt, con il teleplay super di Jacqueline Hoyt) è il frutto di questo incontro folgorante di due autori che si sono parlati e stimati, con Whitehead che ha lasciato mano libera a Jenkins per tutte le innovazioni narrative che girando la serie gli divenivano necessarie. Cora è la ragazzina-donna protagonista (la interpreta Thuso Mbedu), in fuga dall’incubo di una piantagione in Georgia. Il suo antagonista, il cacciatore di fuggitivi Ridgeway (Joel Edgerton), è un personaggio paradigmatico, perché nel suo vissuto di adolescente c’è la radice paradossale della sua ferocia suprematista: è figlio di un fabbro, un brav’uomo che ha fatto sua la spiritualità dei nativoamericani, che ha liberato i suoi schiavi trasformandoli in miti lavoranti, che cerca disperatamente di educare al Grande Spirito il figlio orfano di madre, che cresce invece sentendosi quello sbagliato, il senza cuore che vale per il padre meno dei “negri buoni”; è così che dopo un flashback magistrale e choccante capiamo che la sua crudeltà prima di diventare ideologica e attiva era un vissuto di non-stimato dal padre. Più volte nel romanzo e nella serie Ridgeway proclama la sua agghiacciante programmatica ferocia “politica”, che definisce the “American imperative”: «Se i negri dovessero avere la loro libertà, non sarebbero in catene. Se l'uomo rosso avesse dovuto mantenere la sua terra, sarebbe ancora sua. Se l'uomo bianco non fosse destinato a conquistare questo nuovo mondo, non lo possiederebbe adesso».

 

 

Salite in carrozza, vi prego, sulla memorabile Ferrovia sotterranea: alla stazione di arrivo troverete Cora ancora in viaggio, ma dovrete sedervi e aspettare che probabilmente Sky acquisti e ci proponga il nuovo capitolo HBO delle narrazioni afroamericane della storia terribilmente dolorosa di milioni di innocenti, che dura da sei secoli: la docu-serie Exterminate All the Brutes, quattro puntate terrificanti trasmesse negli USA nell’aprile 2021, scritte e dirette da Raoul Peck (già regista di I Am Not Your Negro, 2016, tratto dal racconto postumo Remember This House di James Baldwin) e tratte da tre libri: Exterminate All the Brutes di Sven Lindqvist, An Indigenous Peoples’ History of the United States di Roxanne Dunbar-Ortiz’s  e Silencing the Past. Exterminate All the Brutes di Michel-Rolph Trouillot. Il 7 aprile Peck ha detto a Lisa Wong Macabasco del “Guardian”: «Volevo dimostrare che in realtà il razzismo degli Stati Uniti è solo la continuazione di una lunga storia di dominazione eurocentrica. Se le parole di Baldwin non sono sufficienti per capire di cosa si tratta, cos'altro può?».

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