Speciale
Un verso, la poesia su doppiozero / Giorgio Caproni. Per lei voglio rime chiare
Il verso appartiene alla sezione Versi livornesi del libro poetico Il seme del piangere (1950-1958), che si apre con la dedica a mia madre, Anna Picchi. E la madre abita tutti i versi, il loro movimento da canzone provenzale e stilnovista, la loro luce, il loro tempo insieme irreale e pulsante di forte, visiva presenza. Una madre fidanzata, Annina, che il figlio, da una lontananza di anni e di epoca, grazie all’incantamento delle rime e dell’“anima leggera”, che è messaggera d’amore, può seguire nelle sue apparizioni livornesi: da passante, nelle uscite mattutine, al ricamo, in bicicletta, tra le amiche, nella sua stanza, nel giorno del fidanzamento, alla stazione in attesa della partenza, nel giorno delle nozze, nel tempo infine della sua sparizione. Forse il più bel canzoniere d’amore del Novecento italiano, che porta i modi stilnovisti verso una levità musicale unita a una grazia tutta corporea: figurazione affettiva di una lontananza che appartiene profondamente pur nella sua assenza, che sorride da una prossimità fatta d’aria, che guarda di là dal velo della sparizione. Presenza che solleva nel suo passo d’ombra il profumo di un’epoca, e sta nel verso, nel suo suono, nelle sue cadenze, come nella casa propriamente sua. La madre per il poeta vive nella lingua, che è la sua “forma vera”, il suo respiro. Per questo i versi della poesia che comincia “Per lei voglio rime chiare”, col titolo esplicitamente dedicatario Per lei, pur non essendo tra i più intimi, pur non dicendo di lei, della sua figura leggera e sorridente, se non indirettamente, sono collocati nel cuore del canzoniere, e sono come l’esposizione di una tavolozza di colori: una sosta, per il lettore, nella stanza del poeta, in mezzo agli strumenti della sua arte compositiva. Ecco il testo:
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
In questa stanza del poeta possiamo scorgere alcuni modi di una poetica che di per sé, per via della sua energia e ricchezza, rischia di infrangere ogni avvicinamento interpretativo. Come ricordava René Char, un poeta amato e tradotto da Caproni, a proposito di Rimbaud : costui, diceva Char, brise, spezza, infrange, ogni interprete. La stessa cosa può accadere per la poesia di Caproni. E questo perché si tratta di una poesia “per legame musaico armonizzata”: ogni poesia, certo, lo è, ma questa definizione che Dante usa nel Convivio, per dire della tessitura musicale del senso, del nodo suonosenso che rende azzardata ogni trasmutazione in altra lingua, riferita alla poesia di Caproni ha una sua quasi letterale evidenza. Perché per Caproni il suono è musica del pensiero, e il pensiero vive nel suo risuonare. E anche – come accade soprattutto dal Congedo del viaggiatore cerimonioso in poi, cioè dai versi degli anni Sessanta fino ai versi postumi di Res amissa – quando il senso si spinge fino al paradosso, all’estremo, alla propria dissolvenza, proprio allora il suono rende quel senso trasparente, leggero, e lo trattiene nella musica di un dire che salva dal vuoto.
Per via di questa musica del senso la rima, per Caproni, è anima della lingua poetica. Da una parte, la rima ha dinanzi lo specchio della tradizione poetica e davanti a quello specchio può essere diretta, obliqua, anamorfica, sghemba, con effetti antifrastici e ironici, in un dialogo assiduo e talvolta festoso con il “tesoro” della nostra lingua (miracolosamente qui coincidono sapere letterario e semplicità, ricchezza linguistica e frugalità). Dall’altra parte, la rima opera una discesa verso l’incantamento infantile, verso la meraviglia dei sensi, verso il baudelairiano “vert paradis des amours enfantines” (che lunga, bella, “fantastica scherma” ha tenuto a più riprese il traduttore Caproni con i Fiori del male!). E questa doppia disposizione dinanzi alla rima, non solo nei Versicoli del Controcaproni, dà al dire poetico un’onda di risonanza che apre una fuga del senso, una dissipazione per dir così metafisica del senso. Pensiamo, tra tanti, ai suoni sui quali si posa, o riposa, o scontra, o spegne, la parola Dio e i suoi contorni (un esempio: “Uno dei tanti, anch’io. / Un albero fulminato dalla fuga di Dio”). L’ateologia poetica di Caproni è anche una questione musicale.
“Per lei voglio rime chiare”. La lingua del poeta è lingua materna, lingua, per questo, di silenzi, o di canto, lingua soprattutto vocalica. E la rima è danza di vocali. Ci sono passi dello Zibaldone di Leopardi molto belli sulle vocali, su come dovevano essere sentite dagli antichi (“animavano, per così dire, tutta la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come il sangue nelle vene degli animali”). Le vocali per Caproni hanno colore, forma, peso. Ma la sua poesia ha fatto sempre un uso sobrio e dolcemente ironico del ventaglio cromatico e visionario proprio delle “voyelles” di Rimbaud, e di ogni loro riverbero simbolista. Le “rime chiare” corrispondono alle “bianche vocali” dei ragazzi (“Sogna le bianche vocali / dei gridi dei ragazzi, e l’aria/ che le dilata…”, in Träumerei ). E non sono separabili, le vocali, quanto a effetti di suonosenso, dall’immagine che portano con sé, incastonate come sono in una parola. Ecco, in una poesia del 1955, riportata come appendice nel Passaggio di Enea, alcuni versi : “Ma io ero da me via, / e di passaggio a Bari, / piangevo in quell’albania / di gabbiani – di ali”. La terra che è di là dal mare, di fronte, l’Albania, suggerisce il sostantivo albania, un biancore lampeggiante d’ali che crea un’irradiazione sonora sul senso, come accade alla parola albatros nella famosa poesia di Baudelaire.
“Per lei voglio rime chiare”. Le vocali, le rime : il musicale della poesia. Ecco, in Res amissa, ancora sulla rima, questa volta in riferimento alla moglie Rina :
Mia rima
sempre in me battente…
Fonda e dolce…
Quasi
– in me – flautoclarinescente.
È con la musica della lingua che nei Versi livornesi il figlio “fidanzato” dà figura di presenza alla madre Annina e prega la propria anima, come il poeta stilnovista pregava la canzone, ad andare in bicicletta a Livorno, tra la gente, per incontrare lei, la ragazza che va in bicicletta per le strade della città :
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno…
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
…
accòstati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Nella tenue dolcezza di questo canzoniere trema l’antica la luce dei poeti provenzali : rivediamo la lauzeta di Bertrant de Ventadorn (“Can vei la lauzeta mover /de joi sas alas contra· l rai…”).
Ma con questa stessa lingua Caproni, in tutto il suo cammino, da Come un’allegoria (1932-1935) in poi, si interroga sul vuoto che circonda la nostra conoscenza del mondo, il nostro sapere, sulla Bestia che abita la storia e il nostro stesso sentire, sul tragico, sull’insidia assidua del nulla, sulla sua minaccia. Ma se quel nulla in un poeta come Paul Celan, poeta della rima dolorosa (schmerzliche Reim), si mostra fin nel cuore della rosa, fiorisce come rosa, è rosadinessuno, die Niemandsrose, in Caproni quel nulla sale verso la lingua lasciando nelle sue parole come un’orma, che è trasparenza, suono nella trasparenza.
La lingua non cancella la ferita, la vita è vita ferita, ma alcune presenze ci accompagnano, ci appartengono, vivono con noi in un loro “altro” respiro : il dono riposto da qualche parte e tuttavia esistente in noi, il tempo che, pur incenerito, agostinianamente si fa presenza nella parola-ricordo, e crea così uno stato di nostalgia senza nostos, senza ritorno, e tuttavia nostalgia.
Esile, fragile, presenza, ma presenza, che la poesia accoglie nel suono della sua musica.
Un verso:
Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde
Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle
Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi
Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva
Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato
Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri
John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre
Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest'albero mutilato
Antonio Machado. Viandante, non c'è cammino
Giovanni Pascoli. Come l'aratro in mezzo alla maggese
Torquato Tasso. O belle a gli occhi miei tende latine!
Paul Celan. Laudato tu sia, Nessuno
Mario Luzi. Vola alta, parola, cresci in profondità
Friedrich Hölderlin. Chi pensa il più profondo, ama il più vivo
Juan Ramón Jiménez. Madre, dimentico qualcosa, ma non mi ricordo…