I corpi, le vittime, la pace
In questi giorni il tragico dell’epoca ha il volto dell’orrore e della vendetta: la violenza terroristica di Hamas e l’implacabile distruzione di vite e di città e villaggi in terra palestinese perpetrata senza sosta dall’esercito israeliano. Dinanzi a questa presenza del tragico, che ci coinvolge e interroga, uno sguardo che si pretende politico tende a distrarre dalla prima, evidentissima, realtà che conta: i corpi di chi è colpito da morte, o è ferito, o è costretto alla fuga, privato violentemente di quel poco che ancora può avere il nome di vita. Uno sguardo che si dice politico, e che finisce con l’informare e formare l’opinione che diciamo pubblica, tende ad allontanare questi corpi – siano essi già consegnati alla morte o gettati nel vortice della distruzione – per mettere in primo piano le relazioni internazionali, le appartenenze, le implicazioni geopolitiche, gli schieramenti. Le stesse immagini televisive della distruzione, nel loro rapido succedersi e nel loro posarsi su una moltitudine, possono appannare il dramma della singolarità: ogni corpo individuo, con un suo nome, con una sua storia, con i suoi legami e i suoi desideri, è vittima della distruzione. L’insidia dell’astrazione talvolta può operare togliendo alla pietà la sua propria natura, quella di non avere collocazione di parte, perché prossima alla verità dei corpi, al loro respiro, al loro sentire. È invece da questa presenza corporea della vittima, una presenza singolarmente definita, che può muovere sia l’indignazione contro le forme di potere che portano alla distruzione delle vite umane sia la ricerca delle cause, queste sì politiche, che hanno preparato giorno dopo giorno la scena del disastro.
È questo nesso tra indignazione e critica delle forme violente di potere il fondamento di quella domanda di pace che non è terreno dove si accampano le “anime belle” – definizione che ha come fonte una visione astratta e insieme tecnica della politica – ma è affermazione di un’idea della politica che sia in grado di porre al centro la vita dell’uomo, e la vita della natura che è tutt’uno con la vita dell’uomo. Questa presenza dei corpi individui – con il loro sentire, con i loro desideri, con le loro affezioni – può essere fondamento di una politica che riprenda in considerazione, all’altezza della nostra epoca, l’antica umanistica “dignità dell’uomo”. Era la presenza fisica dei corpi, nel loro dolore e nel tragico della loro sparizione, che aveva in mente Piero Calamandrei quando diceva che la Costituzione italiana nasceva da “un popolo di morti”: si trattava, con la Costituzione, di disegnare le linee di un altro mondo possibile. Altro da quello che attraverso la guerra aveva allestito la scena tragica di quel “popolo di morti”.
A fondamento della domanda di pace c’è, dunque, un’idea della politica che si pone al servizio della “dignità umana”, e per questo è premurosa di ogni forma dialogica e diplomatica che possa servire a interrompere gli atti di guerra. E c’è, allo stesso tempo, un’idea della politica che cerca prima di ogni cosa di edificare e proteggere le forme del vivere civile (“l’onesto e il retto / conversar cittadino” di cui diceva l’ultimo Leopardi della Ginestra). Una politica così intesa, che ha presenti quelle che possiamo chiamare “lezioni della storia”, è attenta a evitare tutte le forme che finiscono, prima o poi, con innescare processi di violenza e di distruzione. Vorrei sostare un momento soltanto su due di queste forme, pericolose per la civile convivenza: la sacralizzazione del confine e la crescente produzione di armi.
Una storia antropologica del confine racconta la progressiva trasformazione di una linea difensiva in una linea generatrice di conflitti, di incursioni e violenze. È accaduto spesso che i confini siano stati rafforzati da muri. Una critica del confine, un alleggerimento della sua funzione divisoria ed escludente era stata avviata nel Novecento dalle generazioni che sono cresciute nel secondo dopoguerra dando vigore a progetti non di recinzione ma di scambio, non di separazione ma di condivisione, non di steccati ma di passaggi. All’opposto le guerre muovono da una sacralizzazione del confine. Che diventa facilmente un altare sul quale si offrono in sacrificio, dalle due parti in conflitto, i propri cittadini, per lo più giovani. L’enfasi patriottarda trova in questa offerta sacrificale alimento per le proprie mitologie identitarie.
Anche la produzione di armi non può che avere un esito consentaneo alla propria ragion d’essere: la distruzione di vite umane attraverso le guerre e le altre forme di cinica violenza come il terrorismo (dal punto di osservazione che pone al centro il corpo del vivente non c’è distinzione tra guerra e terrore). Quando un Paese decide di aumentare le spese militari, e dunque la produzione e l’acquisto di armi, fa un passo in avanti sulla via dei possibili conflitti, anche se questi conflitti non lo riguardano nell’immediato. Per limitare lo sguardo all’Italia, nel 2022 le importazioni di armi sono molto aumentate nei confronti dell’anno precedente e le esportazioni hanno raggiunto la cifra di 5, 3 miliardi in un solo anno (segno di un’industria delle armi floridissima). Accanto al commercio delle armi si tiene alta la soglia delle spese militari nel bilancio. È assai difficile attribuire a questa sconvolgente produzione di armi e agli investimenti in armi – a tutto svantaggio delle spese per la sanità e per l’istruzione – un compito benefico ai fini della civile convivenza. E anche chi si rassicura attribuendo alle armi una funzione deterrente nei confronti di malintenzionati probabili aggressori, deve prendere atto che tutte le guerre in corso si servono di armi prodotte in Paesi “civili” e “pacifici”.
C’è infine da dire che la critica del confine e la critica delle armi sono un passaggio necessario per affrontare la prima drammatica urgenza, che è quella di salvare il salvabile della terra che ci ospita, della sua geografia, della sua residua armonia.