Taccuino estivo 5. Paesaggio
Nella macchia, dove l’intrico di cardi spinosi, di lentischi, di mortelle cominciava a diradarsi, si apriva una radura rigata da un rivolo d’acqua azzurrino. Ho seguito, le spalle alla scogliera marina, il piccolo corso d’acqua fino a che non si è allargato in un laghetto: gli argini di terra rossa sormontati da cespugli di mirto e di corbezzoli si riflettevano nel piccolo specchio fluttuando nell’azzurro che ora era più cupo. Poi il piccolo corso d’acqua riprendeva il suo cammino: l’ho seguito fino a quando non si è perso, assorbito non più dalla macchia ma da un terreno sassoso che era ombreggiato da alti pinastri, da carrubi, da eucalipti.
Dove il tratturo si cancellava, si poteva scorgere tra il fitto del fogliame ancora una linea di mare, con le scaglie di luce e l’isola che mostrava la riga bianca di sabbia dinanzi al nero della scogliera. Cercando la via del ritorno ho visto rilucere tra gli alberi un sentiero: l’ho raggiunto e ho visto che fiancheggiava un nuovo rivolo d’acqua: i sassi sul suo fondo biancheggiavano, nei piccoli argini la creta aveva arabeschi e crepe, e c’era un rumore nello scorrere dell’acqua che somigliava al truglìo che fa il mare sulla lingua di sabbia e di conchiglie.
La Lagoa era caduta nell’ombra: l’acqua era una superficie grigionera su cui trascorrevano piccoli lampi: s’era levata la luna sopra la linea dei palmeti. Un profumo forte, di petali carnosi schiacciati nelle mani, era portato sulla riva da un vento che si era levato dopo il crepuscolo: si mescolava al profumo delle orchidee che a cespugli sorgevano intorno ai tronchi delle palme.
Due amache oscillavano vuote tra i miei occhi e la riva. Si sentiva lo sciabordio dell’acqua, si mescolava al suono che faceva il vento nel folto delle mangrovie che scendevano dalla collina fino a lambire la riva. Sopra le acque, nel cielo già annerito, restava una striscia di rosso. Sulla linea di sabbia, che cominciava ad affondare nel buio, apparve, in lontananza, una piccola figura scura.
Seguivo il suo movimento: avvicinandosi la figura si ingrandiva, si definiva anche nel colore, si schiariva. Un ibis alto, solitario, camminava piano lungo la riva. Il bianco del piumaggio via via usciva dallo scuro, il passo era quieto, sicuro. Mi passò davanti, solenne, astratto nella sua serale bellezza, proseguì lungo la riva fino a ridiventare una piccola figura scura confusa con il promontorio che si affacciava all’inarcarsi della striscia di sabbia.
All’apparenza era un borgo fortificato: una decina di torrioni circondavano lungo alte pareti le strade e le case. Sotto ogni torrione un arco per il libero passaggio: non c’erano tracce di antiche porte. Ma ci si accorgeva subito che le torri non erano difensive. In alto ciascuna aveva come una specola: da lì si poteva osservare il cielo notturno. Infatti da una finestrella sporgeva il tubo ottico di un telescopio. Il disegno delle strade era semplice: le vie che partivano dalle porte erano a loro volta attraversate da cerchi concentrici: in certi incroci si apriva una piazzetta con una fontana, circondata da alti alberi, ogni volta diversa per forma e grandezza.
Le fontane erano il luogo di ritrovo per gli abitanti: tutt’intorno una grande animazione. Le case avevano epoche diverse, colori diversi, tutte con tetti rossi e balconi con fiori, terrazze chiare dalle quali pendevano buganvillee e altri rampicanti fioriti. In una delle piazze c’era per terra una grande Rosa dei venti, composta da pietre di colori diversi, porfidi, travertini, graniti, ardesie. Dalla porta più a Nord – lo appresi da un passante – partiva la via del mare, da quella più a Sud la via dei giardini. Da Est la via delle colline, da Ovest la via del deserto.
Ero sulla costa Sud della grande isola greca. Il fiume, verdazzurro, scorreva tra due schiere di palme alte, composte, dai ventagli pieni di un cielo pomeridiano privo di nuvole. Scendeva da un aspro retroterra rupestre e andava verso la riva del mare. Lungo gli argini, all’ombra delle palme, alti papiri salivano dalle acque. Poco prima di giungere al mare il fiume piegava costeggiando per un tratto la riva, non più scortato da palme e da papiri: anche i suoi argini erano di sabbia, ora. Scorreva a lato della linea del mare, del suo biancheggiare tra tappeti di conchiglie. Il fiume, il mare: una prossimità quieta, con uno scambio di musiche, e un riverbero reciproco di colori. Di fronte il blu delle acque correva con scaglie di luce verso il suo orizzonte.
Ripenso a questi luoghi visti, custoditi con cura nel tumulto della distrazione che è il quotidiano vedere, ed è il viaggiare: forse quel che chiamiamo paesaggio non è che il sovrapporsi di un velo leggero sopra quel che è dinanzi al nostro sguardo. Un velo tessuto con i fili colorati e lucenti di quello che abbiamo visto e preservato nell’affezione, e nella memoria.
O forse è proprio questa l’essenza del paesaggio. Un’essenza che ha il suo fondamento nel confine leggero dove quel che abbiamo visto si fa contiguo a quel che abbiamo sognato. Dove il ricordo si sfrangia nel desiderio. E la bellezza non è che la mescolanza del visibile con l’assente.
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