Taccuino estivo 2. Copertino
Dietro il Castello di Copertino – un bastione angioino sorto intorno a una precedente torre sveva e a sua volta circondato da una severa fortezza cinquecentesca, con fossato e pontile – si apre la via che porta al mare: dopo poche curve la strada corre diritta verso le cale sabbiose e le scogliere di Sant’Isidoro. Quando, ragazzi, si andava al mare in bicicletta, dopo alcuni chilometri appariva la striscia del mare e poi, dagli ultimi dossi, la torre saracena alta sugli scogli. Di là dalla torre, il profilo dell’isoletta che avremmo raggiunto a nuoto, sostando sulla sua riva di sabbia bianchissima. Tutt’intorno le acque trasparenti. In lontananza il blu del golfo, con la linea di cobalto all’orizzonte.
La via del mare, percorsa poi tante volte in auto, era fino a qualche anno fa una riga d’asfalto che tagliava un manto fitto, selvosissimo, di ulivi. Le chiome folte sovrastavano tronchi nodosi che sulla terra rossa disegnavano geometrie d’ombra. Si arrivava al mare, insomma, attraversando un altro mare, un mare verde cupo che s’inargentava quando un vento ne agitava il fogliame. Se nei meriggi estivi si sostava in qualche campo prendendo una delle stradine che portavano a una masseria, e fiancheggiando muretti di pietra viva, si era subito avvolti dalla fortissima monodia delle cicale.
Da qualche anno quel mare di ulivi è una selva di scheletri arborei, con tronchi che sono monconi bruciati, con rami secchi spezzati che penzolano sospesi nel vuoto, con basi nodose annerite dal fuoco. Lungo le coste del Salento e nelle piane dell’interno e sulle serre – come sono chiamate qui le alture – quelle che un tempo erano distese foltissime di ulivi sono ora trasformate in immensi cimiteri vegetali.
Gli ulivi che ti accompagnavano, immensi, se andavi da Martano verso Otranto o se percorrevi la piana che precede la costa di Ugento, gli ulivi secolari che si allineavano, giganteschi, lungo le vie che portano verso Melendugno, quelli millenari di Strudà, i campi di ulivi in cui ogni albero antichissimo poteva talvolta giungere a produrre fino a un quintale di olio, i vetusti nodosissimi ulivi che incontravi quando in bicicletta raggiungevi nei pomeriggi estivi il paese di San Donato, di là dalla strada provinciale Lecce-Gallipoli, sono ora, tutti, figure cadaveriche di un paesaggio infernale.
Le piante maestose che sorgevano fuori Copertino, dietro la chiesa cinquecentesca della Grottella – addossata al convento francescano dove un frate divenuto santo visse la sua esperienza di ascesi e di levitazione – sono anch’esse resti spettrali di un antico, perduto rigoglio. Sulla strada che si apre tra quegli ulivi mi accadeva talvolta, e ancora mi accade, di camminare nei ritorni estivi, al mattino o al tramonto (ci fu anche un’estate in cui su un album provai a disegnare a matita e con pastelli quelle solenni forme arboree).
Il batterio Xylella fastidiosa, diffusosi nel Salento in modo inarrestabile a partire dal 2015, penetrando nei vasi linfatici della pianta e moltiplicandosi, ha via via disseccato le chiome, e nell’arco di pochi anni, con un contagio epidemico, ha distrutto forma e struttura degli alberi. Dopo aver proceduto nella devastazione con il ritmo di venticinque chilometri in un anno, ha rallentato poi da Ostuni in su, perché un accorto monitoraggio finalmente è intervenuto per isolare le aree di piantagioni malate. Il batterio, giunto su una pianta di caffè dal Costarica, ha colpito inesorabilmente varietà di ulivi come l’ogliarola e la cellina, che erano le varietà diffuse nella provincia di Lecce.
Ora la divaricazione tra il paesaggio della memoria e il paesaggio reale è diventata grandissima. Il contrasto acuisce la pena. Ma per chi si trova a percorrere queste strade non avendo la memoria dell’altro, splendente paesaggio, il visibile si mostra nella forma di uno sterminio che ha lasciato dappertutto i suoi desolati segni.
Da lontano la voce del mare sembra levare il suo compianto per l’immensa devastazione. Poche e confuse le voci di coloro che, in nome della “tutela del paesaggio” prevista dalla nostra Costituzione, articolo 9, potevano intervenire in tempo e con forza per arginare la distruzione. Alla ricerca compiuta con solerzia da botanici e agronomi, intesa a individuare cause e rimedi, non è seguita una cura politica che con piani immediati limitasse i danni e proponesse soluzioni.
Così ogni agricoltore ha tentato una sua via: chi ha potato innestando sul tronco altre varietà, chi ha tagliato chioma e rami lasciando crescere intorno al tronco nuovi polloni, chi ha bruciato le piante più infette fidando nella salvezza delle altre, chi ha espiantato l’intero campo puntando sulle provvidenze governative per il reimpianto, chi si è chiuso nel lutto per l’estinzione, senza alcuna speranza. Incredibile come la distruzione di un paesaggio – che è allo stesso tempo distruzione di un’economia e di una cultura contadina – non sia diventata una questione politica di rilevanza nazionale.