Taccuino estivo 3. Salento

28 Luglio 2022

Quinto Ennio, il poeta latino che primo usò il verso esametro, diceva di possedere tre anime (“tria corda”): una greca, una romana, una osca. Il poeta degli Annales era nato a Rudiae, oggi parco archeologico a tre chilometri da Lecce: costeggiavo la zona degli scavi ogni volta che dal mio paese raggiungevo la città percorrendo la vecchia strada; accadeva anche, in anni lontani, che andassi talvolta in bicicletta, affrontando la salita che proprio all’altezza delle rovine di Rudiae chiedeva al ciclista più di uno scatto.

Anche se non era certissimo che fosse proprio quella la Rudiae di Ennio, l’espressione “tria corda”, riferita a tre lingue, a tre culture, che convivono in una sola esperienza di vita e di scrittura, mi veniva spesso in mente quando sfioravo quell’area archeologica, che ora si è arricchita di un bell’anfiteatro romano portato alla luce di recente dall’amico Francesco D’Andria. L’estate scorsa m’è accaduto una sera di leggere miei versi in quell’anfiteatro: è sempre sorprendente l’annodarsi destinale dei fili in un’esistenza. 

Tria corda, ovvero compresenza di culture diverse: mediterraneità modulata per lingue e miti e saperi. Relazione costante tra la radice e l’altrove. Una coralità che il Salento ha sempre alimentato: anche nei rapporti tra la molteplicità dei dialetti romanzi e la koiné linguistica dei paesi che intorno a Calimera fanno parte della Grecìa.

L’articolatissima mappa dei dialetti parlati nella penisola salentina, ordinata e definita dal lungo lavoro di ricerca del filologo tedesco Gerhard Rohlfs, autore di un poderoso Dizionario dei dialetti salentini, disegna il terreno, in un’area geografica ristretta, di reti comuni e insieme di molte differenze: differenze di fonesi, di morfologia, di strutture espressive.

A questa meravigliosa geografia linguistica corrisponde la ricchezza delle tradizioni popolari, sulle cui manifestazioni ci sono i segni della grecità, della cultura messapica e poi latina, della presenza basiliana, dei lasciti che vengono dai passaggi di Svevi, Normanni, Angioini, Aragonesi, e soprattutto della civiltà urbanistica e architettonica secentesca, cioè del barocco. 

Mettendosi in ascolto di questo retroterra di culture e tradizioni, Ernesto De Martino svolse le indagini intorno al rituale della taranta: La Terra del rimorso è un bellissimo libro di ricerca antropologica che nel descrivere forme, ritmi, musiche e implicazioni psichiche e sociali di un fenomeno singolare come quello del tarantismo, ha presente i tanti riverberi che giungono da una cultura mediterranea. Una cultura che è anzitutto rispondersi di conoscenze, tradizioni, tracce. Dialogo, ibridazione, intreccio, ripresa: è questo il tumulto vivente e inventivo cui diamo il nome di cultura. 

Espressioni come “identità del luogo” o “carattere di un popolo” sono astrazioni. Appartenere a una terra vuol dire stare in un tempo e in uno spazio di risonanze, di incroci, di sovrapposizioni. Per questo l’ideologia, e la stessa geografia, dei confini appartengono alla storia dei poteri – facili, dunque, a colorarsi di esaltata sacralità – e non alla cultura e all’attitudine delle comunità umane, alla cui storia è più proprio il transito, il movimento, lo scambio. 

Le “tre anime” di Ennio sono figura, dunque, della irriducibilità di una cultura a un’unica dimensione, e allo stesso tempo indicazione di come quel che diciamo proprio è fatto di compresenze, di relazioni con l’alterità. Questo nel Salento accade anche con le testimonianze dell’arte. Che dialogano, tutte, con storie e culture altre. Così è del meraviglioso pavimento a mosaico della Cattedrale di Otranto, nel quale l’affabulazione dei bestiari e la materia di Bretagna si fa contigua all’allegoria patristica greca, e miti e raffigurazioni dell’Occidente si dispongono a lato di emblemi propri della cultura mediterranea. Un racconto luminoso dispiega intorno all’Albero della vita un sapere che unisce dottrina e sogno, zodiaco celeste e ritmo delle stagioni. 

Così è delle cripte bizantine e chiese basiliane disseminate nelle campagne: l’eleganza astratta e sottile di sante dell’area mediterranea orientale come Cristina, Marina, Anastasia, Caterina d’Alessandria si dispone accanto alle raffigurazioni di scene evangeliche che giungono da un figurativismo nordico. E le assidue presenze angeliche, solenni o fiammeggianti, dicono di un dialogo ininterrotto di questa terra con le isole greche, con la chiesa di Santa Sofia nell’antica Costantinopoli e con tutta l’Asia minore. E anche quando, sul finire del XIV secolo alla cultura basiliana comincia a sovrapporsi una cultura francescana, come accade meravigliosamente nella Basilica di Santa Caterina a Galatina, l’arte figurativa si alimenta dei rapporti con le grandi esperienze artistiche di Assisi e di Padova. 

Quanto al barocco, che mostra nei paesi le sue forme fantasiose, leggere, offerte ai giochi della luce e dell’ombra, artisti e scalpellini hanno dato levità a una pietra che si piega all’invenzione di forme bizzarre, chimeriche, dolenti, grottesche. Il barocco salentino, con una sua propria impronta, è in dialogo con quello napoletano e quello andaluso. Le corti, i patii, le logge, i balconi, le piazzette danno forma a un’idea teatrale del vivere in comune, della presenza all’aperto, del rapporto necessario con la luce e con l’ombra, con il loro rispondersi lungo il giorno.

Ma c’è, in alcune campagne salentine, una forma scultorea arcaica che più di ogni altra testimonia del rapporto con l’altrove, perché quell’altrove con cui è in dialogo è nientemeno che il cielo, il cielo diurno e notturno. Dico dei menhir, che si possono incontrare in particolare nelle campagne di Giurdignano, intorno a Cursi, a Martano e a Carpignano, spesso sui margini di vecchie strade, di là dai muretti a secco: sembrano aspettare il levarsi della luna per esplorare nella notte le regioni del cielo. Alte stele di pietra innalzate da uomini che sapevano leggere l’alfabeto delle stelle, interrogare il significato delle costellazioni, del loro movimento, lungo il succedersi delle stagioni, e nel rinnovarsi delle semine e dei raccolti. Era per questo rapporto con il celeste che spesso i menhir diventavano luogo di rito. 

La pietra levata verso il cielo: l’uomo offre il cuore della sua terra all’imperscrutabile. La fragilità terrestre vuole stringere un patto con l’enigma che la sovrasta. E con lo stupore della campagna che è intorno.

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