Taccuino estivo 8. Dietro il paesaggio
Sugli ultimi fogli di questo taccuino estivo voglio dire non più dei luoghi, ma di una domanda che, mentre siamo intenti a osservare un paesaggio, o quando camminiamo in una città o su un sentiero, ci può venire incontro. Una domanda che qualche volta può arrivare con il vento di un’improvvisa distrazione: che cosa accade in questo momento altrove, di là da questa cornice? Se l’attenzione è il movimento che ci fa prossimi al visibile, e all’udibile, ponendoci in relazione con quel che diciamo presenza, la distrazione può essere intesa come il movimento che ci mette in relazione con quel che è assente, ma che vive altrove, nel tumulto del suo accadere.
Sia che ci abbandoniamo all’osservazione di quel che è dinanzi a noi – paesaggio campestre o urbano, orizzonte marino o metropolitano – sia che siamo nel vivo di un incontro, o di un’azione, l’altrove tende a ritrarsi nella sua indeterminatezza, nella sua intransitabile lontananza. Eppure richiamarne l’esistenza può dare allo sguardo una misura e una prospettiva che trattengono dall’identificazione assoluta con il qui e ora. E possono collocare il nostro vedere, o sentire, o interrogare, in un respiro che ci fa prossimi a tutto quel che è vivente.
La prima presenza che tendiamo lungo il giorno a rimuovere è l’orizzonte cosmico in cui siamo, con le ellissi dei corpi celesti, le vicissitudini di deflagrazioni e nascite stellari, anelli di gas e polveri, fuga di galassie, incendi abissali, buchi neri, insomma l’accadere tumultuoso di un oltreconfine che è l’al di là della nostra idea semplice di tempo, della nostra idea di spazio, e di cui le bellissime immagini inviate questa estate dal James Webb Space Telescope ci hanno offerto una prima figurazione: soglia per dislocare l’immaginazione verso l’azzardo. Il “granel di sabbia” che è la nostra Terra sta dentro questo universo in gran parte ancora inesplorato. E il nostro qui e ora è circondato da questi sconfinati, ignoti mondi.
Ma c’è un cerchio più prossimo a noi, che stenta a farsi presenza assidua e interrogante, nonostante la sua drammaticità: lo stato di questo pianeta Terra che abitiamo, con i ghiacciai che si ritirano e scompaiono, con il gas serra che non attenua i suoi effetti, con le deforestazioni in corso, la desertificazione, la siccità, e tutto quel che da molti anni le scienze ci dicono sulle condizioni dei mari, dei fiumi, delle coste, e che stenta a farsi sostanza prima di una visione politica e fondamento necessario e urgentissimo di scelte pubbliche. E tuttavia accade che il visibile, la provvisoria armonia di un paesaggio, il dialogo della luce con le ombre su una collina, i cieli spalancati su una pianura, ci chiamino a un sentire che per un istante rinvia o esclude la drammaticità di quel che non si mostra con immediatezza e prossimità.
E ci sono altri motivi che la distrazione dal paesaggio ci fa incontrare: situazioni dalle quali muovono domande forti, domande alle quali non diamo risposte.
Come altre estati, anche questa ha, di là dal nostro orizzonte, guerre in corso. Una di queste guerre è in Europa. Un’assuefazione al tragico rinvia alcune domande essenziali. Com’è possibile che dinanzi alla distruzione di vite e di città, dinanzi all’orrore quotidiano, non prenda voce e forza una critica della guerra in quanto tale, non si allarghi la consapevolezza che la produzione di armi, i nazionalismi, l’ideologia dell’appartenenza a un suolo e a un confine, l’identificazione degli stati con le potenze militari, continueranno a generare guerre? Com’è possibile che si assista quasi con rassegnazione al fatto che le speranze del secondo dopoguerra vengano dissipate e rese vane? Erano, quelle speranze, fiducia che il disarmo avrebbe via via preso campo, che i confini avrebbero perso la loro sanguinosa sacralità, che la pietà sarebbe sfuggita alla logica dello schieramento e avrebbe avuto per oggetto il dolore di ogni vivente.
E ancora, di là dalla cornice, ci sono poi terre da cui giungono, spesso nell’indifferenza diffusa, immagini di una sofferenza che ormai non chiama più verso l’indignazione, tanto sfocata appare la loro rappresentazione: è quel che accade frequentemente nella striscia di Gaza, quel che accade ai tanti profughi siriani e yemeniti, alle donne in Afghanistan, a molte popolazioni dell’Africa.
Infine, di là dalla cornice del paesaggio, in un mostrarsi più ravvicinato e attuale, c’è la scena politica italiana. Con le elezioni imminenti e gli schieramenti e le parole d’ordine. E il sospetto che neppure questa volta quel che più conta – la gravità della situazione ambientale, le diseguaglianze sociali, il lavoro giovanile, la sanità, l’istruzione e la ricerca – riusciranno a diventare fuoco della discussione, dei progetti, delle scelte.
Dietro il paesaggio ritroviamo il nesso che ci lega agli altri viventi e a tutto quel che è vivente. Ed è proprio questo nesso che proietta sul visibile, sulla sua bellezza, un’ombra, una velatura. Nello stesso tempo in cui il fulgore dell’apparire, dispiegato dinanzi a noi, si fa figura di armonia. Di un’armonia che di là dalla cornice di fatto non esiste. Mancanza che tuttavia è principio del nostro interrogare, del nostro cercare.
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