Taccuino estivo 4. Tra Torre dell’Alto e Torre Sant’Isidoro
Sono nato in un paese non lontano dal mare, e forse per questo nelle città in cui con più frequenza mi è accaduto di abitare – Milano, Parigi, Siena – ho sempre avvertito l’assenza di una riva marina, e del suo orizzonte, come una privazione acutissima: una mancanza simile a quella che prova colui che è in uno stato permanente di esilio. Molte le ragioni di questa percezione interiore di vuoto. Tra queste, il dover rinunciare a uno sguardo che si confronta con l’orizzonte avendo in mezzo il tumulto di luce e di colori, di potenza e di ignoto che è il mare, cioè una figura visibile, prossima, della lontananza. Un confronto che può favorire la tensione immaginativa, e dunque anche il rapporto con tutto quel che è oltre il visibile, il quotidiano, il possibile.
A distanza di tempo, potrei dire che forse è stato questo senso di mancanza a suggerirmi, nel corso degli anni Novanta, i temi di alcuni corsi universitari – che un tempo si dicevano monografici – riguardanti figure della lontananza, come il tema dell’addio, le rappresentazioni fisiche e poetiche del cielo (Dante, Galileo, Baudelaire), la nostalgia, le mitografie del mare nella narrazione e nella poesia. Passaggi, indugi, ricerche e letture che sono state poi all’origine del Trattato della lontananza.
Quanto al mare, alle sue mitografie e rappresentazioni, il proposito era di poter dedicare un intero saggio, l’Odissea aprendo un cammino che poteva proseguire tra le cartografie marine (anche fantastiche), le narrazioni dei navigatori, le storie di naufraghi, i versi di Coleridge e di Baudelaire, le scritture di Poe, di Melville, di Conrad e così via. Tra l’immagine dantesca, metafisica, de “lo gran mar dell’essere” e il mare che nell’ultimo verso del leopardiano Infinito si fa figura della poesia stessa, della sua dolcezza – rispondendo al limite del pensiero, che non può dire l’infinito – si poteva disporre la variegata e ricchissima sequenza delle rappresentazioni marine, sostando su qualcuna di esse, poetiche, narrative o figurative che fossero.
Ma abbandono le acque di questa letteraria traversata – ognuno potrà sulla scorta delle predilette letture avventurarvisi almeno per un tratto – e mi rivolgo a un’immagine prossima, insieme d’affezione e di memoria, che forse è all’origine dei miei ritorni sull’iconografia letteraria del mare. È un tratto di mare che va, nel golfo di Gallipoli, dalla Torre dell’Alto alla Torre di Sant’Isidoro e che si distende in un disegno di basse scogliere e cale sabbiose, di zone rimboschite e tappeti di rocce carsiche aride, bucherellate, grigie, sulle quali sin da bambini ci si abituava a camminare a piedi nudi.
Dinanzi alle arcuate linee costiere, la polifonia cromatica delle acque con le loro variazioni di blu e di cobalto e con le superfici, distese nelle cale, tremolanti in un fulgore di verde chiaro e di cilestrino. Qua e là, alcuni isolotti, e in lontananza, dove la linea del golfo chiude il suo arco, il faro dell’isola di Sant’Andrea, a lato del quale biancheggia Gallipoli. Di fronte, dove si immagina la costa calabra, il mare sconfinato, e la linea dell’orizzonte, che è anche la linea dei tramonti lunari e solari.
Se la Torre dell’Alto si leva su un piccolo promontorio, ed è l’avamposto di un tratto di costa rimboschito, la torre di Sant’Isidoro sorge su una bassa scogliera, di fronte a una piccola isola. Tra l’una e l’altra torre, dopo Porto Selvaggio c’è una torre diruta, Uluzzo, sotto la quale un declivio di pietroni e cardi spinosi finisce con scogli aggettanti sul mare: c’è stata qualche stagione giovanile in cui avevo l’abitudine, che ora mi pare inverosimile, di raggiungere quegli scogli per tuffarmi dall’alto nella trasparenza delle acque.
Lungo le rocce costiere più alte si possono vedere antri del paleolitico, studiati da archeologi, di là da essi, verso l’interno, la striscia della macchia di mirto, euforbia, timo, lentisco, corbezzolo, ginestra, annuncia la terra rossa coltivata. Dai trafori delle scogliere carsiche spesso escono correnti d’acqua dolce che come fiumi trascorrono per lunghi tratti con un colore più chiaro nel mare. Risalendo verso Torre Sant’Isidoro si incontrano altre cale sabbiose, con un retroterra petroso e di macchia: Conca del Capitano, Lido Frascone con le sue tamerici e l’isolotto antistante, raggiungibile a nuoto dalla riva, Lido dell’Ancora, le cui scogliere, per la lunga frequentazione, mi sono diventate familiari nelle loro traforate forme, talvolta zoomorfe, nei punti di approdo possibili per chi nuota, nel loro frastagliatissimo disegno.
L’istituzione del parco marino ha contribuito a preservare il paesaggio. Ma appena a ridosso della costa, dove erano nel frattempo arrivate le disinvolte mani di chi dai paesi dell’interno aveva voluto “la casa al mare”, la casualità alleata con l’abusivismo ha fatto il suo corso, seminando qua e là abitazioni fino a creare, a partire dagli anni Sessanta, alcuni scomposti agglomerati che vivono solo d’estate. E le due città costiere che delimitano l’arco descritto, Gallipoli da una parte e Porto Cesareo dall’altra, hanno subìto anch’esse quel che è accaduto dappertutto con la trasformazione del mare e del circostante ambiente in meta di consumo turistico: solo l’inverno può restituire qualcosa delle primitive integre immagini. Riappare allora, per dir così, l’anima propria del borgo di pescatori.
Il mare, anche qui, in questo tratto di costa, per il suo fascino e per la sua voce che ha variazioni tonali incredibili – Lu rusciu ti lu mare è il titolo di una delle più belle canzoni popolari salentine – si mostra come l’altro dalla vita dei paesi che popolano l’interno della penisola: nella cui storia gli addii delle migrazioni, la povertà, le difficoltà proprie delle terre del Sud, che hanno radici lontane e condizioni invariate, raccontano un affanno, e un dolore, che la bellezza del paesaggio non può lenire.
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