Speciale

Un verso, la poesia su doppiozero / Giuseppe Ungaretti. Mi tengo a quest’albero mutilato

31 Dicembre 2017

Ci sono alcuni versi, in tutte le lingue, che sembrano vivere di luce propria. E sembrano compendiare nel loro breve respiro la vita del prisma cui appartengono: frammenti che raccolgono e custodiscono nel loro scrigno, integro, il suonosenso della poesia dalla quale provengono. Con un solo verso un poeta può mostrare il doppio nodo che lo lega al proprio tempo e al tempo che non c’è, all’accadere e all’impossibile. In un verso, in un solo verso, un poeta può rivelare il suo sguardo, in grado di rivolgersi all’enigma che è il proprio cielo interiore e al movimento delle costellazioni, alla lingua del sentire e del patire di cui diceva Leopardi e all’alfabeto degli astri di cui diceva Mallarmé. Un verso, un solo verso, può essere il cristallo in cui si specchiano gli altri versi che compongono un testo. Per questo da un verso, da un solo verso, possiamo muovere all’ascolto dell’intera poesia.

 

È il verso che apre la poesia I fiumi, di Ungaretti. Il titolo ha, come per gli altri testi poetici di Il porto sepolto, un sottotitolo relativo al luogo e alla data di composizione: in questo caso, Cotici il 16 agosto 1916. Un titolo, un luogo, una data: la poesia come parola che accoglie la situazione, ovvero la fisicità del tempo e la visibilità dello spazio, ed è a partire da questa presenza che prende movimento il sentire, oltre che la pronuncia del sé. Che può essere un sé tumultuante o quieto o indecifrato. Cotici è località prossima a San Michele del Carso, teatro di guerra, dunque di trincee, di notti insonni, di assalti nel fumo del fuoco nemico e amico, di caduti, di feriti. Questi e altri versi del Porto sepolto sono scritti, come racconterà il fante Ungaretti, su foglietti: “cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute”, ma anche, come dirà ancora, “pezzetti di carta strappati agli involucri delle pallottole”. Foglietti conservati via via nel tascapane, e consegnati un giorno al giovane tenente Ettore Serra (fu costui, in una licenza, a stampare quei versi, a Udine, sul finire del 1916, in un’edizione di 80 esemplari). Nella successiva guerra mondiale, nel corso della Resistenza, un altro poeta, René Char, nel maquis in Provenza, scriverà anch’egli i suoi versi su foglietti casuali: nascosti, prima della notturna partenza in volo per l’Algeria, negli anfratti di un muretto a secco, i versi saranno poi recuperati, e avranno il titolo di Feuillets d’Ypnos. Li tradurrà in italiano Vittorio Sereni.

 

Il primo verso di I fiumi, Mi tengo a quest’albero mutilato, apre la scena della desolazione, la scena del terreno di guerra, con il disegno di due figure congiunte, appoggiate l’una all’altra in un prima o in un dopo della furia bellica, in una sorta di momentanea sospensione del tempo tragico, che però manderà via via, lungo i versi, i suoi cupi bagliori. Due figure, dicevo: il mi che delinea la presenza di un corpo – il corpo che prende la parola – e l’albero che si mostra nella sua nudità offesa, nella sua mutilazione, corpo d’albero che in quanto anch’egli vivente è dalla guerra ferito, come altri corpi umani che sono fuori dalla scena. Un appoggio – tenersi a un albero – ma anche una solidarietà con un elemento della natura che qui, in questo suo mostrarsi ad apertura di scena, raccoglie come in un emblema il dolore della guerra, il dolore di tutti i corpi dilaniati o feriti nella guerra. Il mi e il questo di un primo verso endecasillabo rinviano a un altro primo verso del poeta più amato da Ungaretti, quel Leopardi che insieme a Mallarmé è stato all’origine della stessa vocazione alla poesia: “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”. Sia il mi sia il questo, un riflessivo e un deittico, come è accaduto nell'Infinito leopardiano, si rifrangeranno come un’onda nel resto della poesia, a dire sia la presenza corporale da cui muove la parola poetica sia la presenza forte e la prossimità del visibile da cui muove il rapporto con l’oltre. In Leopardi questo oltre è l’odissea di una rappresentazione impossibile, e tuttavia tentata, dell’infinito nel pensiero; in Ungaretti questo oltre è l’altrove che nel vuoto del sentire spalancatosi col tragico prende la forma dell’appartenenza a quel che è lontano e che, inattingibile, è memoria e figura sensibile: i propri fiumi, ai quali è un fiume prossimo, il fiume della guerra, l’Isonzo, a rinviare.

 

Il suono del primo verso dà rilievo alla presenza dell’albero, posto al centro: l’accento sulla quinta (la a di albero), ritenuto perlomeno inconsueto dalla tradizione dell’endecasillabo, mostra subito che sulla misura metrica prevale il ritmo, e questo in relazione con un dire che dà alla parola la sua evidenza di segno: segno di un’interiorità immaginativa e riflessiva. Ma ecco la strofa cui appartiene il verso:

 

Mi tengo a quest’albero mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima o dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

 

©Gianfranco Gallucci, Craco (2013).

 

Il “mutilato” è seguito, nel nuovo verso, da un altro participio, “abbandonato”, riferito al soggetto che parla: per tutta la poesia il tempo verbale del compimento designa un movimento verso la quiete, verso lo stare o il riposare, che è sottrazione, o desiderio di sottrazione, al tumulto incessante e distruttivo dell’agire bellico (“disteso”, “riposato”, “accoccolato”, “chinato”, ecc.). Alla guerra che è cancellazione del vivente, della sua percezione, e della singolarità corporea e senziente – le ultime pagine di Der Zauberberg di Thomas Mann descrivono con grande efficacia questa abolizione dell’umano nell’assalto che muove dalla trincea –, alla guerra la poesia oppone un corpo che riconosce e nomina il proprio sentire, i propri gesti, e leva lo sguardo sulla scena e sul paesaggio: qui, un notturno lunare che illumina non le rovine ma un amaramente fantasticato circo “prima o dopo lo spettacolo”. In questa scena il racconto del poeta nomina le azioni che indicano, con lentezza d’abbandono, il ritrovamento del proprio corpo, la ripresa della percezione di sé, sottratta, per poco, alla gelida e delirante astrazione della guerra. Una percezione che muove dalla contiguità con la natura: una descensio, un’abolizione dell’io, un farsi reliquia e sasso, che dischiudono la sacralità di una ritrovata appartenenza di sé come vivente nella vita del fiume. All’opposto di quel che accade nella poesia di D’Annunzio, in cui il vivente è di volta in volta affermazione di un io panico che mima la metamorfosi (“d’arborea vita viventi”), in Ungaretti il senso del vivente è attinto a partire dall’abbandono dell’io in una temporanea quiete (una sorta di Gelassenheit, direbbe un lettore in vena di filosofare), ed è per questo che il ritrovamento di sé, nel circo desolato che è la dolina, è raffigurato con il passo magico dell’acrobata sull’acqua:

 

Stamani mi sono disteso

in un’urna d’acqua

e come una reliquia

ho riposato

 

L’Isonzo scorrendo

mi levigava

come un suo sasso

 

Ho tirato su

le mie quattr’ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull’acqua

 

Un fiume, un corpo: il soldato ha dimesso i suoi “panni /sudici di guerra”, si è chinato e disposto “come un beduino /…a ricevere il sole”, ha tentato la consegna di sé alla percezione di un’armonia con l’elemento naturale, si è lasciato accarezzare, anzi intridere, dalle “occulte / mani” del fiume. Ed è questa resa, questa collaborazione con la natura – per sospendere, almeno per poco, il tragico della guerra – che apre la teca della memoria e libera il sentimento del legame, ma anche mette in moto un nostos fantastico che è ritrovamento delle radici, dell’infanzia, della giovinezza: “Ho ripassato / le epoche / della mia vita // Questi sono / i miei fiumi”. Le mani di un fiume sul corpo di un soldato sottratto al delirio della guerra hanno “regalato” la felicità (“la rara /felicità”) di un rammemorare che è un trascorrere di nomi – nomi di fiumi – percepito come succedersi di stagioni e insieme di segni lasciati sulla pelle del proprio sentire. L’anafora, la ripetizione del “questo”, inaugura la litania dell’appartenenza, la declinazione della memoria, la scansione del tempo, del tempo nominato nell’intimo della propria singolarità: “Questo è il Serchio”, “Questo è il Nilo”, “Questa è la Senna”. Il tempo immemoriale dell’origine legato alla terra (“gente mia campagnola”), il tempo dell’infanzia (“ardere d’inconsapevolezza”), il tempo della giovinezza, che è tempo di un cammino difficile verso la conoscenza di sé (“e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto”).

Il “questo” dell’albero mutilato, quella sua presenza che nella desolazione della dolina era emblema della ferita, del vivente ferito, ha aperto la catena dei deittici che portano altre figure, quelle dei fiumi, e, con i fiumi, le morte stagioni. “Questi sono i miei fiumi /contati nell’Isonzo”: il trascorrere dell’acqua sul corpo liberato dai panni del soldato è l’onda di una memoria che è esperienza di una nostalgia (“Questa è la mia nostalgia”), cioè esperienza del dolore per un ritorno impossibile (nostosalgos). E, allo stesso tempo, ritrovamento, nella parola della poesia – nella sua energia che dà presenza e vita – di un sé che, sottratto al furore e all’astrazione violenta della guerra, è relazione di un vivente con il vivente della natura e con il vivente che pulsa in ogni gesto, o parola, rammemorante.

 

Un verso:

Ugo Foscolo. Né più mai toccherò le sacre sponde

Dante. L'amor che move il sole e le altre stelle

Giacomo Leopardi. Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi

Charles Baudelaire. Un lampo... poi la notte! Bellezza fuggitiva

Francesco Petrarca. Erano i capei d'oro a l'aura sparsi

Eugenio Montale. Spesso il male di vivere ho incontrato

Stéphane Mallarmé. La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri

John Keats. Una cosa bella è una gioia per sempre

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