Autori senza diritto
Il feudalesimo del nostro tempo
In teoria, il diritto d'autore ha l'obiettivo di garantire ai creatori di contenuti, oltre che la paternità delle opere, un giusto compenso per la loro creatività e il loro lavoro. Invece, come notano David Bellos e Alexandre Montagu all'inizio del Capitalismo della creatività. Passato, presente e futuro del diritto d'autore (Marsilio, 2024), “le poche multinazionali che detengono il controllo di gran parte delle proprietà intellettuali di qualche pregio dominano la scena mondiale. (…) Al giorno d'oggi sei delle più grandi aziende del globo – Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Meta e Disney, ognuna con una valutazione del capitale più alta del PIL di molti Paesi – sono costituite quasi interamente dalla proprietà e dal controllo del materiale protetto da copyright, in gran parte sotto forma di contenuti quali film e canzoni (Disney, Amazon), in parte come registrazione di progetti o brevetti (Apple e Microsoft) e per lo più sotto forma di software per computer (Alphabet, Meta). L'impero della proprietà intellettuale è il dominio feudale del nostro tempo” (p. 16-17).
La situazione riguarda anche l'editoria: “La maggioranza dei libri che escono oggi in tutto il mondo è pubblicata da editori che fanno parte di una delle sei multinazionali dei media con sede a Berlino, Stoccarda, Stoccolma, Parigi, Milano e Madrid” (p. 252). In realtà, il Global 50 Publishing Ranking (il report annuale sulle aziende editoriali più redditizie del pianeta, compilato dal 2007 da Ruediger Wischenbart Content and Consulting, che tiene conto sia dei libri, compresa la scolastica, sia delle pubblicazioni universitarie) presenta per il 2024 uno scenario diverso (vedi l'illustrazione). La sostanza non cambia: il mercato dei contenuti editoriali è in buona parte appannaggio di poche multinazionali.
Lavoro culturale e globalizzazione
Nel frattempo, “il reddito che gli scrittori traggono dal proprio lavoro è andato precipitando in quegli stessi decenni in cui il diritto d'autore è stato ampiamente esteso di ambito, ampiezza e durata” (p. 60). E le royalties che le piattaforme di streaming pagano ai musicisti sono irrisorie.
Oggi, come sa benissimo chi lavora nel settore culturale e creativo, i proventi derivanti dal diritto d'autore vanno solo in piccola parte a scrittori, musicisti, fotografi, illustratori, registi, designer... Naturalmente ci sono le superstar, ma in generale “mai, nel corso della storia umana, così tanta gente è stata pagata così poco per produrre così tanto” (p. 61). I contenuti che ciascuno di noi immette ogni giorno in rete e sui social ci vengono sistematicamente espropriati. Con un'aggravante, inserita nel Communication Decency Act del 1990, che avrebbe dovuto limitare comunicazioni improprie, dalla pornografia ai contenuti oltraggiosi, dalle violazioni del copyright alle fake news: le responsabilità civili e penali non ricadono sulle piattaforme, ma sui loro utenti (p. 223).
In gioco ci sono somme gigantesche, soprattutto in un'economia globalizzata: “Cinquant'anni fa, lo scambio di licenze sulla proprietà intellettuale fra un Paese e l'altro muoveva, a quanto risulta, poco meno di un miliardo di dollari l'anno in tutto il mondo. Nel 2021 quella cifra aveva superato i 500 miliardi” (p. 271). Con l'avvertenza che “oltre un quarto dei pagamenti per le licenze sulla proprietà intellettuale in tutto il mondo vola verso gli Stati Uniti”, mentre da quel paese esce solo un decimo di quella somma (p. 273): è questa la vera egemonia culturale del XXI secolo (anche se c'è chi sostiene che il soft power americano si stia incrinando).
L'irresistibile ascesa del diritto d'autore
Bellos e Montagu raccontano il progressivo e spesso tortuoso allargamento del copyright. Nel 1710, quando venne promulgato lo Statuto della Regina Anna, erano tutelati solo i libri. Poi la regolamentazione si è allargata alla musica e alle immagini (prima alle incisioni e poi alle fotografie), ma anche alla stampa dei tessuti (un prodotto industriale) e al cinema (che non è una creazione individuale, ma una creazione collettiva). A essere coperto non è solo e tanto il diritto d'autore, ma la “proprietà intellettuale”: il titolare non è più solo e tanto il creatore, ma il suo datore di lavoro (dal 1909). Non si protegge “tanto 'la creatività originale', quanto l'impegno e il denaro investito dall'editore” (p. 176).
Dal 1976, sulla base delle modifiche alla legislazione approvate dal Congresso USA, sono protette da copyright anche le opere “espresse con parole, numeri e altri simboli o segnali verbali e numerici (…) a prescindere dalla natura degli oggetti materiali (…) che li contengono”, ovvero il software (pp. 207-209).
La legislazione sul copyright ha ormai conquistato l'intero pianeta, spesso sulla base di quelli che vengono definiti “sofismi verbali” (p. 277). Nel 1886 solo nove paesi sottoscrissero la Convenzione di Berna. Oggi “solo pochi stati, per lo più di piccole dimensioni, rimangono al di fuori della legislazione internazionale” sulla materia (p. 136). Nel 2003 si è adeguata persino la Corea del Nord.
In questo allargamento progressivo non mancano zone grigie. Per esempio, nel 2007 Viacom (un conglomerato che produceva e distribuiva contenuti audiovisivi) chiese a YouTube un risarcimento di “non meno di un miliardo di dollari” per violazione del copyright. La contesa venne risolta in sede extragiudiziale e i termini dell'accordo non sono mai stati resi pubblici: dunque nessuno ha stabilito se quello che fa YouTube è legale o no, e di conseguenza “quasi nessuno sa dire quando stia violando un copyright e quando no” (p. 226-227). Ma chi osa far causa a un gigante dell'economia e della comunicazione globale?
È anche aumentata a dismisura la durata della tutela. Il copyright nel 1710 copriva 21 anni per le opere esistenti (mentre per quelle nuove erano 14 anni più altri 14). Attualmente sono 70 anni dalla morte dell'autore (e gli autori possono essere più d'uno): un'opera giovanile creata da un genio precoce e longevo può essere esclusa dal pubblico dominio per molto più di un secolo...
Il diritto d'immagine e la fine della realtà
La problematica è stata resa ancora più complessa dalla crescente tutela del diritto d'immagine, che riguarda persone e cose (dunque anche opere d'arte, monumenti, paesaggi...), ma anche personaggi come Paperino. Da un lato si moltiplicano le immagini sui social, sulla spinta del narcisismo e del voyeurismo di massa. Dall'altro si stabiliscono regole sempre più stringenti, anche per tutelare la privacy. Persino girare un documentario impone ormai di rimuovere dall'inquadratura qualunque oggetto potenzialmente coperto da copyright o con brand visibili: così si altera la realtà che si vorrebbe documentare. È curioso il destino degli edifici: la Piramide del Louvre dell'archistar Ieoh Ming Pei è tutelata dal diritto d'immagine in Francia, ma non negli USA (p. 257).
L'impatto del digitale e dell'IA sull'industria culturale
Il diritto d'autore si basa su un paradosso: “Ogni cosa resa pubblica dalla pubblicazione diventa proprietà pubblica nel modo più ovvio e irreversibile eppure il copyright la rende nuovamente privata” (p. 26). Con l'avvento della rete, il copyright sembrava destinato a essere spazzato via, grazie alla possibilità di copiare e condividere a costo pressoché nullo qualunque contenuto digitale. L'impatto è stato devastante per tutti i settori dell'industria culturale, ma le reazioni e gli effetti a lungo termine sono stati diversi, a seconda della tipologia di prodotto e delle strategie adottate dai singoli settori, come racconta Amanda D. Lotz in Pirati, cannibali e guerre dello streaming. I media in trasformazione (Einaudi, 2022). Evitando facili generalizzazioni e concentrandosi su industria discografica, informazione, cinema e televisione, Lodz mostra come sono state ridefinite le funzioni dei soggetti che operano nell'industria culturale: sempre meno produttori di beni fisici (le opere), sempre più fornitori di servizi. Le reazioni (e le strategie di sopravvivenza) sono state diverse: sono emersi nuovi players (piattaforme come Netflix o Spotify), alcuni soggetti hanno resistito (le reti generaliste, alcune case di produzione cinematografica), mentre interi settori sono stati marginalizzati (riviste, giornali, case discografiche...).
È cambiata radicalmente la distribuzione del profitti, con i motori di ricerca e i social che monopolizzano i proventi pubblicitari che derivano contenuti che non producono direttamente.
La morte della cultura di massa?
Le conseguenze dell'espansionismo del copyright e del dominio delle grandi piattaforme sono inquietanti anche perché hanno un impatto anche sui contenuti, come suggerisce Vanni Codeluppi. Il titolo del suo pamphlet decreta addirittura La morte della cultura di massa (Carocci, 2024). L'offerta è sempre più segmentata: “Netflix ha creato una categorizzazione (…) che negli Stati Uniti è arrivata a contenere più di 75.000 sottogeneri”. Il pubblico viene accuratamente profilato ed eterodiretto: “Netflix ha dichiarato che circa l'80% dei contenuti guardati viene scelto dagli abbonati in base ai suggerimenti ricevuti dall'algoritmo dell'azienda” (p. 60). Avere per obiettivo questi microtarget rende difficile, secondo Codeluppi, la creazione di prodotti di qualità, perché porta al “ridimensionamento del ruolo svolto sul piano dell'espressione”. Emblematica l'involuzione dell'hip hop, dove viene “indebolita la parte melodica della musica e anche il testo, anziché essere cantato, è stato trasformato in un canto che è scarsamente espressivo” (pp. 76-77). Dunque, grazie anche all'“elevato livello di produttività che caratterizza il mondo digitale” (p. 96), siamo sommersi da opere esteticamente sempre più povere e scarsamente innovative, che soddisfano gusti predeterminati dalle scelte effettuate in passato. Il 30 ottobre 2024 la “Süddeutsche Zeitung” ha annunciato che case editrici e librerie tedesche avranno a disposizione il software Demand-sens (commercializzato dalla Media Control di Baden), in grado di prevedere le vendite di qualunque libro con una precisione dell'85% (e in alcuni casi del 99%) sulla base di pochissime informazioni sul testo, mettendole a confronto con 5 miliardi di dati: a Demand-sens bastano 1,3 secondi per calcolare se un testo sarà abbastanza redditizio, e dunque pubblicabile.
Questo mosaico di nicchie non riesce più a “sincronizzare – sul piano temporale ed emozionale – la vita della società, dando origine a uno spazio collettivo adatto al confronto culturale, e contribuire, nel contempo, alla crescita del livello di maturità delle persone” (p. 55). L'alternativa è la polarizzazione delle posizioni, per creare dibattito ed engagement.
Oltre il copyright
Come ammettono Bellos e Montagu, le alternative al copyright (dal copyleft all'open source, e soprattutto le licenze Creative Commons) seppur animate da ottime intenzioni, non sono risolutive: danno l'impressione di agire fuori dalla legge sul diritto d'autore, ma non possono intervenire sulle leggi stesse, che dunque prevalgono (p. 270).
Una delle proposte conclusive del Capitalismo della creatività, ovvero abolire i diritti di traduzione, ha diversi pro e contro. Un'altra proposta – la riduzione della protezione post mortem – sarebbe certamente ragionevole e utile. Si potrebbe anche pensare di limitare la tutela delle aziende a favore di quella dei creatori: anche perché né Disney né Google fallirebbero nel giro di poche settimane.
Riformare alcuni aspetti delle norme in vigore è una misura di buonsenso, che però di scontra con consolidati e fortissimi interessi economici. Ma questo non risolve i nodi principali: i ricavi che derivano dalla diffusione di “contenuti originali” non va più ai creatori. Né quando vendono le loro opere, visto che le royalties che incassano dalle piattaforme sono ridicole, nella stragrande maggioranza dei casi. Né quando le loro opere vengono utilizzate dai motori di ricerca e dai social, che incassano i ricavi pubblicitari lasciando solo le briciole agli autori e agli editori (e di fatto privatizzando un bene comune). Né adesso, quando masse enormi di testi, immagini, suoni, video, vengono utilizzate per addestrare le intelligenze artificiali, con programmi di frantumazione e ricomposizione dei contenuti, che richiedono investimenti (e apporti energetici) giganteschi. Per “allenarsi”, si nutrono di banche dati che contengono materiali ideati e prodotti da altri soggetti e in vario modo disponibili (come l'archivio di Doppiozero): individui e aziende vengono di fatto espropriati delle opere che hanno pubblicato e reso disponibili. I colossi che gestiscono i progetti di IA “privatizzano” e monetizzano contenuti, senza riconoscere alcun diritto agli autori. Oltretutto, man mano che l'infosfera verrà colonizzata dai prodotti della IA (sempre più uguali a sé stessi), i prodotti umani original diverranno sempre più rari preziosi.
Diritto d'autore, democrazia e tecnofascismo
I mezzi di comunicazione di massa avevano creato la cultura che Vanni Codeluppi rimpiange: i feuilleton e i romanzi nell'Ottocento, il cinema, la radio e la televisione, ma anche il jazz e il progressive rock, nel Novecento... In una società frammentata e frettolosa (sia sul versante della produzione sia su quello della fruizione) questa cultura “nazionalpopolare” e di buon livello qualitativo (che pare sinonimo di complessità) sembra scomparsa, affogata dalla marea di sottoprodotti semplicistici e targettizzati. L'“interesse pubblico”, notano Bellos e Montagu, è diventato l'“interesse del pubblico”: l'intrattenimento domina un mercato manipolato dagli algoritmi con cui vengono ordinate le segnalazioni (dai motori di ricerca o dalle piattaforme), sulla base di parametri segreti e incontrollabili.
Nell'era moderna, la diffusione del diritto d'autore – sgradita a tutti i regimi totalitari – aveva dato ai creatori la possibilità di vivere del proprio lavoro, senza dipendere da governanti, mecenati o sponsor. Comprare un giornale, un libro o un disco, pagare il biglietto di un cinema o di un teatro, era un elemento di democrazia. In uno scenario pluralista, il pubblico “votava” per i soggetti o i progetti di cui si condividevano i valori (o l'ideologia). Così è nata l'opinione pubblica.
Oggi lo spazio pubblico della discussione democratica è stato privatizzato da pochi soggetti: il caso di Twitter-X acquistato da Elon Musk come megafono per le sue idee è solo il caso più evidente. La maggior parte dei proventi delle opere dell'ingegno viene incamerata da poche aziende, in buona parte possedute da super-ricchi con un'agenda politica ormai evidente. Lo spazio di democrazia è ridotto drasticamente, con pochi, tardivi e inefficaci meccanismi di controllo dei singoli stati (o dell'Unione Europea).
L'originalità di qualunque opera è sempre relativa. Siamo tutti nani sulle spalle di giganti. Ogni creazione si appoggia su un'infinita serie di creazioni precedenti: questo articolo non riprende solo i concetti dei tre libri di cui parla, ma si basa anche su molto altro materiale.
Inoltre, insinuano maligni Bellos e Montagu, le norme sul copyright si basano sul presupposto che scrittori e artisti vengano spinti a produrre dagli incentivi economici perché sono insieme pigri e assetati di denaro (p. 67). In realtà, le motivazioni che spingono a creare contenuti originali non si limitano all'avidità o, più modestamente, alla necessità di procurarsi un reddito dignitoso. Le righe che state leggendo, faticosamente assemblate, non comportano alcun compenso per il loro autore – ahimè... I creatori fanno quello che fanno “perché non possono far altro”.
La creatività è uno degli elementi essenziali del benessere di una società, e uno degli ingredienti fondamentali della sua evoluzione, anche nella contraddittorietà degli esiti. Espropriare da eventuali proventi chi ne è il veicolo (a cominciare da scrittori, artisti, musicisti...) è ingiusto e sul lungo periodo controproducente. Ora che sono state tacitamente ridisegnate le funzioni e le modalità di funzionamento dell'industria dei media e della cultura, queste norme difficilmente raggiungono gli obiettivi per cui erano nate, ovvero garantire ai creatori il giusto compenso. Il diritto d'autore rischia così di diventare una demagogica foglia di fico per nascondere il passaggio verso le “democrazie illiberali”, rese possibili dal tecnofascismo.