Prometeo, Steve Jobs e altri creativi

23 Aprile 2024

Da creatori a creativi

L'atto creativo – la capacità di dare forma a qualcosa che prima non esisteva – avvicina l'uomo a Dio. O forse, come insinua Simone Weil, questa aspirazione è solo autoinganno. Tuttavia quest'illusione ha ispirato e continua a ispirare generazioni di artisti e scienziati, e affascina gli ammiratori di quella scintilla indefinibile che ogni volta sposta il confine del possibile.

Ma cosa succede alla creatività ora che i “creatori” sono diventati “creativi”, dopo un passaggio che appare irreversibile? Cosa resta del genio solitario, quando si confonde in una folla di lavoratori della conoscenza, spesso precari e sottopagati? Che succede alla creatività quando la facoltà è ridotta a funzione, al servizio delle “industrie culturali e creative” e del loro apporto al PIL, così significativo e dunque irrinunciabile? E cosa succederà alla folla dei creativi e delle creative, quando l'intelligenza artificiale si farà carico dei molti dei loro compiti?

In Anime creative. Da Prometeo a Steve Jobs (Il Mulino, 2024), Paolo Perulli si interroga sul futuro dell'umano, a partire dalla consapevolezza che non “appena viene industrializzata, la creatività muore” (p. 11). La sua prospettiva allarga dunque la riflessione sulle arti (e di riflesso sulla scienza), oltre che alla psicologia, anche alle loro relazioni con la società e con l'economia.

Il Rinascimento: genio solitario e capitale cognitivo

Con il Romanticismo si è affermata l'idea del genio solitario e incompreso, che si contrappone alla normalità borghese e la mette in crisi. Ma questa prospettiva cancella il rapporto con il tessuto in cui sviluppa le sue doti, con il laboratorio, la rete di saperi e relazioni, l'intelligenza collettiva, il contesto culturale, sociale ed economico in cui opera. Perulli sottolinea che il contesto da cui emerge questo “aristocratico della piazza” (come lo definisce Ortega y Gasset) è la città. Sono le botteghe e il mercato del lusso di Firenze e Milano, che con il loro “artigianato artistico” furono il brodo di coltura del Rinascimento. Poi arrivarono metropoli come Parigi (nell'Ottocento) e New York (nel Novecento), che furono capitali culturali globali, grandi attrattori di giovani talenti ma anche officine competitive e spietate. Fino all'Ottocento esistevano regole da infrangere (il canone, l'accademia), dopo Picasso ogni artista ha dovuto darsi il proprio codice. 

A dettare la linea era la fiducia nel progresso, l'illusione che la storia abbia un senso, o almeno una direzione che noi esseri umani possiamo e dobbiamo plasmare con la nostra creatività e le nostre azioni. Dunque i creatori sono anche dei distruttori, sulla scia di Prometeo e Faust. Smascherano i sogni dei padri come menzogne e le combattono per affermare nuove verità (p. 31). Il genio opera, come il capitalismo, una “distruzione creativa”: infrange le norme tramandate per aprire nuovi orizzonti, a volte con effetti non previsti (o solo rimossi): basti pensare alle ricadute del progresso tecnologico sull'ambiente. 

Parigi: creatività e progresso

In un appassionato capitolo, Perulli traccia una galleria dei “giganti” del Novecento, da Picasso a Walt Disney, passando (tra gli altri) da Schönberg e dalla Scuola di Francoforte, dal Bauhaus e da Kelsen, da Steinberg a Warhol... Senza dimenticare Coco Chanel, perché nella moda “l'evoluzione umana trova il suo laboratorio creativo” (p. 114). 

L'ideologia del progresso e la fede illuministica nella ragione ci hanno regalato le avanguardie politiche e artistiche del Novecento. Ma queste speranze sono crollate con la Shoah e il Gulag, Hiroshima e Nagasaki (e definitivamente affondate dalla crisi climatica). Anche l'ideologia della “fine della storia”, con la sua promessa di una pace e prosperità democratica, capitalista e universale, si è rivelata una trappola: la bestialità e il sadismo degli uomini ingorgano i telegiornali, con le loro ombre nere. Ma se non vediamo più il progresso, di cui la creatività è stata il propellente e l'emblema, perde senso anche la capacità anticipatrice degli artisti, la loro visionarietà profetica (p. 92).

New York: la classe creativa nell'orizzonte del capitalismo 

Il passaggio del testimone da Parigi a New York – grazie soprattutto all'esilio americano di molti intellettuali in fuga dal nazismo – segna per Perulli un altro passaggio epocale.

La cultura europea, insieme elitaria e avanguardista (e ideologica), incontra la società industriale americana, che “produceva nel suo seno una miriade di individui creativi, di classe media e medioalta” (p. 163) (e pragmatica), dalla “personalità aperta, non autoritaria, autointeressata” e dunque democratica, che “accetta gli altri, è aperta a nuove esperienze, idee e impulsi, è capace di rispondere all'autorità costituita; è tollerante verso le differenze e l'ambiguità, capace di riconoscere e controllare le proprie emozioni”. Questo stereotipo “sarà ripreso quasi alla lettera dall'immagine della classe creativa americana”, commenta Perulli (p. 54): gli imprenditori che animano il capitalismo descritti da Schumpeter e i creativi scoperti da Richard Florida, che sono spesso imprenditori di sé stessi, sono (o dovrebbero essere) urbani, tecnologici, tolleranti. Sulla scia di questa “rivoluzione creativa” nelle metropoli del pianeta si affolla ormai un nuovo ceto creativo, che cerca formazione, incontri, emozioni e occasioni di lavoro e di successo. Ma con un'ambiguità lacerante. 

Il paradosso del successo

Per la sua stessa natura, il creativo è un outsider in cerca di novità e libertà, ma anche del successo. Ma quando il successo lo premia, se i suoi valori (etici e politici, oltre che estetici) creano valore (economico), l'outsider diventa parte dell'establishment, che magari criticava ferocemente (p. 47). Gli artisti “sovversivi” che negli anni '60 e '70 “sollevavano argomenti che disturbano la classe media”, con la loro popolarità “preparano il consumo di massa nelle suo nuove forme” (p. 79). Oggi “sembra che il successo si sia trasformato in prodotti di consumo banali o in illusioni di un pubblico rassegnato”, in un sistema digitale “dominato da pochi gruppi globali” (p. 157). Non c'è scampo: ormai tutta la produzione artistica è trasformata dalla forma merce (p.69). 

Oltretutto la competizione è sempre più feroce: tanto più esteso è il mercato, tanti più numerosi saranno i creativi. I quali, per di più, non riescono a diventare “classe” in grado di difendere i propri diritti. Come spiega Floridia, i creativi “non hanno acquisito una responsabilità che li ponga al centro della vita politica, Non si impegnano in azioni collettive”. Sono “aperti, liberal, progressisti”, ma non diventano una “classe”: il “continuo turnover individuale, l'esasperata mobilità sociale e geografica” impedisce la formazione di una visione collettiva (p. 164).

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La California: il digitale e l'intelligenza artificiale

Con l'impatto delle tecnologie digitali e l'avvento delle piattaforme, il baricentro si è spostato in California. Nel paradiso dei poeti e degli ingegneri (era la visione di Steve Jobs), la creatività sta cambiando di nuovo natura. Il ceto creativo è stato espropriato dai mezzi di produzione e diffusione. L'avvento dell'intelligenza artificiale rischia di renderlo obsoleto, così come è accaduto con le macchine agricole e i fertilizzanti chimici, che hanno drasticamente ridotto il numero dei contadini, e con l'automazione e i robot, che hanno sostituito gli operai nelle grandi fabbriche. 

Perulli identifica tre trasformazioni: la scomposizione delle unità cognitive (prima il codice binario e adesso i token) “hanno prodotto un aumento esponenziale della produzione e circolazione delle conoscenze”, aprendo democraticamente l'acceso a chiunque, sia dal lato della produzione sia da quello della fruizione. A questa prima trasformazione hanno dato forma organizzativa le grandi piattaforme digitali, che per una larga percentuale della popolazione mondiale sono ormai “lo strumento autoregolato indispensabile per quasi ogni operazione della vita quotidiana”. Queste piattaforme autocratiche estraggono valore dal capitale cognitivo degli utenti (a cominciare dal “sapere diffuso” dei creativi). L'avvento degli algoritmi che collegano gli schemi in conoscenze, proiettandoci in un mondo postumano, espropriano i creativi dei loro prodotti per elaborarli autonomamente, ma senza alcuna autentica creatività, e anzi riflettendo e amplificando i bias delle basi dati e i pregiudizi inconsci dei loro creatori (pp. 165-166). Per la sua stessa natura, l'intelligenza artificiale generativa è reazionaria: se predice il futuro, lo fa a partire esclusivamente dai dati accumulati nel passato. È lecito pensare, ipotizza Perulli, che questi modelli “siano destinati a inaridire l'intelligenza umana e a smentire la cura, la sollecitudine è all'origine della parola curiosità” (p. 166).

Della crisi della creatività si era occupato alla svolta del millennio George Steiner: “Non abbiamo più inizi […] una stanchezza profonda caratterizza lo spirito della nostra epoca” (Grammatiche della creazione, Garzanti, 2003, pp. 7-8). Il diffondersi della tecnica, che si è insinuata nel cuore stesso della cultura occidentale, ha alterato il rapporto tra creatività e invenzione: “L’arte non può più rivaleggiare con la technē dell’ingegnere. L’invenzione è identificata come la modalità primaria della creazione del mondo moderno” (Ivi, p. 301). 

Insegnare la creatività?

Il rapporto tra l'individuo eccezionale e la società investe il nodo della democrazia, come sta dimostrando la parabola di due “superuomini” come Elon Musk e Jeff Bezos, che stanno ammassando fortune gigantesche e un potere superiore a quello di molti Stati.

Il problema della creatività è dunque (anche) un problema politico. Tuttavia per i creativi “è difficile immaginare un ruolo di 'classe' generale. Dovrebbe essere rimessa in discussione l'attuale distribuzione dei diritti di proprietà nelle filiere produttive” (Anime creative, p. 167). 

Un secondo fronte riguarda la natura profonda della creatività, quella che l'eterno ritorno all'uguale degli algoritmi pare negare. Il creativo connette, mette in relazione ciò che è separato, si nutre di scambi di conoscenze (p. 67). Si pone in rapporto dialettico con la società in cui vive, ne è lo spirito critico (e spesso ne paga il prezzo, fino al sacrificio della vita). C’è un'affinità profonda tra il creativo e lo straniero (p. 61). La grande creatività novecentesca è stata nutrita dall'esilio. 

Ma lo spirito critico dovrebbe farci capire che il canone della creatività è stato monopolizzato nel passato quasi esclusivamente da maschi occidentali bianchi (lo sono anche i signori delle piattaforme). Ovviamente se alla base della creatività c'è il dialogo con l'Altro, si tratta di rifondarne le basi a partire da un diverso sistema di relazioni. 

“Il canone creativo che qui si ricerca non è trasmissione di un sapere fisso, è invenzione di un metodo universale” (p. 94), azzarda Perulli (con il rischio che questo canone diventi una melassa mainstream in cui si stemperano tutte le differenze). Si tratta in ogni caso di mettere in crisi almeno alcuni dei fondamenti di un meccanismo creativo spesso predatorio e coloniale, che per molti aspetti sta portando l'umanità in un vicolo cieco, dalla crisi ambientale alle minacce di guerra totale.

Soprattutto manca negli algoritmi e nell'Intelligenza Artificiale il radicamento nel corpo: buona parte della creatività umana nasce dal rapporto tra la materialità del nostro corpo e l'ambiente in cui vive e opera. Come ha scritto Friedrich Nietzsche: “E coloro che sono stati visti ballare sono stati considerati pazzi da coloro che non potevano sentire la musica".

Algoritmi, trascendenza e psichedelia

Come suggeriva George Steiner, l'autentica poiesis dovrebbe metterci in contatto con la dimensione spirituale e trascendente, con gli strati più profondi dell'io – perché anche questo è la creatività, aldilà degli imperativi del capitalismo: “C’è un impegno esplicito con la trascendenza in un Eschilo, in un Dante, in un Bach o in un Dostoevskij” (Grammatiche della creazione, cit., p. 307). Perulli indica una scorciatoia: “Per sfuggire all'algoritmo che si sostituisce a noi umani, solo l'illuminazione psichedelica può darci piena libertà” (Anime creative, p. 132). L'estate scorsa “la Repubblica-High Tech” ha raccontato che “Elon Musk prende ketamina. Sergey Brin funghi allucinogeni. Alcuni degli investitori più attivi in Silicon Valley fanno feste a base di psichedelici. Tutti mossi dalla convinzione (...) che l’assunzione di queste sostanze contribuisca in qualche modo ad allargare le potenzialità del cervello, della percezione e, in qualche modo, dell’intelligenza umana”.  

Anche i programmi di intelligenza artificiale soffrono di allucinazioni, ma non lo sanno. Gli algoritmi non hanno il senso dell'ironia. Il calcolo delle probabilità che li governa non sa che cosa sono la libertà, la curiosità, la creatività.

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