A chi appartiene la cultura?

21 Gennaio 2025

La cultura è di tutti è lo slogan con cui Paola Dubini, economista della cultura all'Università Bocconi, e Christian Greco, dal 2014 direttore del Museo Egizio di Torino, hanno intitolato il loro dialogo (Egea, 2024). “La cultura è di tutti” è anche un obiettivo politico, proprio perché la cultura non è di tutti, e in Italia meno che in altri paesi europei, visto che siamo agli ultimi posti nelle statistiche sulla partecipazione culturale. Ancora più inquietante è la progressiva marginalizzazione della cultura nella società del turbocapitalismo, che misura ogni attività sul ritorno economico, con gli algoritmi quantitativi che ormai regolano la maggior parte dei nostri consumi, anche quelli culturali (p. 117).

Merito di Paola Dubini, fin dalle prime pagine, è di mettere in luce alcuni snodi problematici per chi si confronta con lo stato della cultura, oggi.

Che cos'è la cultura

Il primo riguarda la definizione di cultura, che implica la possibile misurazione dei consumi e dell'impatto della partecipazione culturale. Molte statistiche si basano sui biglietti venduti, e dunque escludono gli eventi e le pratiche gratuite: per esempio vengono sottovalutati gli spettacoli di strada e i murales, ma anche la rete offre una infinità di contenuti culturali gratuiti.

Fermo restando che “la cultura è qualcosa che abbiamo ereditato e che ci impegniamo a trasferire alle generazioni future” (p. 39), Paola Dubini prende spunto dalla Convenzione UNESCO del 1972, che identifica i beni culturali come elementi necessari e fondamentali per lo sviluppo delle società, concentrandosi sui beni materiali (compreso il patrimonio naturale e il paesaggio) e dal 2003 anche su quelli immateriali. Questa impostazione privilegia il patrimonio e la tradizione – e dunque la conservazione – rispetto alle attività e all'innovazione.

Tradizionalmente, venivano considerati cultura i contenuti “alti”, il canone che si insegnava nelle scuole, nelle università, nelle accademie, nei conservatori, e questo tendeva a escludere sia le culture popolari sia la cultura pop. La cultura era l'elemento di distinzione, per dirla con Bourdieu, attraverso cui le élite costruivano e ostentavano la loro superiorità (p. 115).

C'è la prospettiva antropologica, ripresa nella sostanza dalla Convenzione di Faro del 2005, che definisce il patrimonio culturale “un gruppo di risorse ereditate dal passato che le persone identificano, indipendentemente da chi le possieda, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni in costante evoluzione. Include tutti gli aspetti dell'ambito che risulta dall'interazione tra persone e luoghi attraverso i tempi”. Ciascuno di noi è dunque “immerso” nella cultura, che è alla base della nostra identità, anche se questo “può portare a divisioni, forme di pregiudizio, esclusione ed emarginazione” (pp. 92-93). Da qualunque prospettiva, la definizione di cosa è cultura è un fatto politico.

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La cultura è dunque “di tutti”, perché è alla base delle interazioni sociali e costituisce le conoscenze e le esperienze da trasmettere alle future generazioni. È la prerogativa che caratterizza e distingue l'homo sapiens, almeno finché Frans de Waal non ha scoperto che anche alcuni gruppi di primati hanno sviluppano e tramandano una cultura, ma questo è un altro discorso (vedi La scimmia e l'arte del sushi. La cultura nell'uomo e negli altri animali, Garzanti, 2002). Da questa visione discende l'attenzione alla “cultura materiale” sottolineata da Christian Greco nella sua gestione museale, che vuole valorizzare “tutti gli aspetti visibili e concreti di una cultura, quali i manufatti provenienti da contesti abitativi, gli oggetti della vita quotidiana impiegati nelle attività lavorative, così come nella pratica religiosa e nelle attività produttive” (p. 20).

Un altro approccio, che si è sviluppato a partire dagli anni Ottanta, si è concentrato sull'ambito culturale e creativo come settore economico. Sono le professioni grazie alle quali “con la cultura si mangia”. Il comparto produce una parte significativa del PIL nazionale ed è caratterizzato “spesso per una concentrazione geografica e talvolta per una progressiva configurazione industriale a partire da caratteri artigianali e comunitari” (p. 63). Nel 2004 l'UNESCO ha introdotto la lista delle Città Creative, ovvero quelle che hanno fatto della creatività il motore del loro sviluppo. Ma il micidiale cortocircuito tra arte, cultura e capitale è sempre in agguato.

Cultura per tutti

Se la cultura è di tutti, dovrebbe essere accessibile a tutti. Ma democratizzare la cultura, si domanda Dubini, significa “abbassare il livello”? Ovvero moltiplicare i sottoprodotti di intrattenimento, basati su sollecitazioni elementari per i palati grossolani delle masse?

È anche possibile affrontare la questione da un altro punto di vista. Sono numerose le barriere che impediscono o rendono difficoltoso l'accesso alla cultura. In Italia – e non solo – diverse categorie di cittadini sono di fatto escluse dall'accesso alla cultura: per scarsa disponibilità economica e di tempo, per motivi geografici (la distanza dai presidi e dalle attività culturali), per difficoltà di ordine fisico (per esempio di udito o di vista, o nella mobilità)...

In un mondo sempre più globalizzato, è ancora difficile incontrare “nuovi cittadini” in luoghi ed eventi della cultura, da cui si sentono esclusi. Come nota Christian Greco, “il patrimonio culturale può dunque svolgere un ruolo fondamentale per rifugiati e immigrati che si trovino a vivere in un paese terzo, in almeno due modi. Da una parte può dimostrare come la storia degli immigrati recenti non sia un episodio isolato, ma sia invece parte di fenomeni naturali che sono avvenuti ripetutamente nel corso del tempo. E poi permette ai nuovi arrivati di familiarizzare con le radici del paese in cui hanno scelto di trasferirsi, rappresentando in tal modo una chiave interpretativa delle fondamenta della società in cui sono immersi” (pp. 94-95). Non a caso il direttore del Museo Egizio di Torino è bersagliato dalla destra per le sue pratiche di allargamento del pubblico, con particolare attenzione a chi proveniente proprio dall'Egitto.

Secondo Paola Dubini, dobbiamo innanzitutto “riconoscere la molteplicità delle forme in cui la cultura si dispiega (…) e moltiplicare le occasioni di sperimentazione” (p. 10). In altri termini, i target della cultura sono diversi e vanno dunque identificati e coinvolti con temi e linguaggi mirati, attraverso canali specifici: “quando un'azienda serve più pubblici presta molta attenzione a quali processi possono essere condivisi e quali vadano invece differenziati, in modo da garantire simultaneamente massima copertura di mercato e massima efficienza” (p. 2).

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Di chi è la cultura

Ma di chi è la cultura? Di chi l'ha prodotta, magari un paio di millenni fa? Di chi decide che cosa è cultura e che cosa non lo è? Di chi se ne ritiene depositario e custode esclusivo? Di chi la usa, dalle comunità etniche o religiose ai gruppi di fan? 
I beni culturali possono essere di proprietà pubblica o privata, oppure beni pubblici dati in concessione ai privati, per periodi più o meno lunghi, con vantaggi e svantaggi. Di recente il palazzo di Brera ha ospitato per una serata l'Estetista Cinica che promuoveva la sua linea cosmetica, suscitando feroci polemiche per la dissacrazione e commercializzazione di un tempio della cultura, nonostante l'affitto lucroso.

I musei europei e nordamericani conservano un'infinità di reperti rubati, trafugati, depredati dalle ex colonie (o da territori geopoliticamente meno potenti), musealizzati ed estetizzati, e dunque avulsi dal contesto e dalla funzione originari: dai marmi del Partenone che Lord Elgin portò al British Museum di Londra ai bronzi del Benin, dalle antichità egizie alla stele di Axum (sottratta nel 1937 e restituita dall'Italia all'Etiopia nel 2005). Ma qui si apre un'altra questione. La Venere di Cirene venne ritrovata dai soldati italiani nel 1913. Nel 2008 l'Italia restituì (giustamente) la statua alla Libia, ma nel 2015 se ne sono perse le tracce, in seguito alla travagliata situazione del paese africano. In generale, “nel caso di paesi che sono stati colonizzati il processo di riappropriazione è altrettanto importante del processo di restituzione” (Dubini, p. 107). Sono temi a cui il direttore del Museo Egizio è assai sensibile e la risposta non è semplice.

Altro snodo polemico esploso negli ultimi anni è l'appropriazione culturale, che si verifica quando elementi di una cultura (o sottocultura) vengono utilizzati da individui e gruppi (o aziende) che provengono da un'altra cultura, in genere quella dominante: oltretutto questa appropriazione offre spesso occasioni di lavoro e di guadagno. Come i graffiti di street art utilizzati nella pubblicità delle auto di lusso. Avverte Dubini: “Affermare che la cultura è di tutti significa non solo riconoscere che ciò che è cultura o patrimonio per qualcuno possa non esserlo per altri, ma accettare l'intrinseca complessità collegata al fatto che lo stesso patrimonio può essere letto in modo differente da persone diverse e che gruppi diversi di persone possono avanzare legittimamente pretese e richieste potenzialmente in conflitto tra loro” (p. 107).

Il controllo della cultura non è tuttavia solo questione di proprietà, di sfruttamento economico o di rispecchiamento identitario. Riguarda anche chi decide che cosa è cultura e che cosa non lo è, e dunque chi cura, gestisce e programma le istituzioni culturali. A decidere che cosa è “culturale” è stata (e in gran parte lo è ancora) un'élite ristretta, composta quasi esclusivamente da maschi bianchi occidentali (ovvero colonialisti) eterosessuali, in genere cresciuti in famiglie benestanti. A consumare prodotti culturali è stata ed è tuttora una minoranza della popolazione: due italiani su tre non leggono nemmeno un libro all'anno, e una minoranza ancora più ristretta frequenta teatri, sale da concerto e musei. La correlazione tra questi due aspetti – il profilo dei curatori e la partecipazione culturale – non è irrilevante. I meccanismi di esclusione e di autoesclusione sono assai variegati.

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A cosa serve la cultura

Dietro a queste considerazioni, si muove un altro interrogativo sulla funzione (e sull'utilità) della cultura. Al tema è dedicato il secondo numero della rivista del sito “Che fare”.

Per qualcuno, la cultura non serve a niente – e non deve servire a niente (“L'art pour l'art”), anche per garantirsi la libertà che la caratterizza, senza imporle obiettivi estrinseci. Ci sono la visione insieme mistica e politica del Principe Myskin nell'Idiota di Dostoevskij (“La bellezza salverà il mondo”) e la “cultura come centrotavola” di Bourdieu (un oggetto da ostentare per dichiarare il proprio posizionamento sociale).

Nel suo saggio introduttivo, Bertram Niessen elenca diverse altre opzioni. Per buona parte del Novecento, la cultura è stata uno strumento per forgiare le coscienze e strappare voti (più di recente la tensione politica degli artisti si è concentrata nell'esplorazione di temi sociali e ambientali, o questioni di genere, con declinazioni più o meno impegnate e attiviste). Con gli anni Ottanta, la fine delle ideologie ha portato a una visione della cultura come spigolatura, gadget, argomento di conversazione: “un flusso continuo di elementi simbolici levigati, privi di ambiguità e tridimensionalità, in grado di ostentare tutto il peso – e il costo – degli investimenti necessari per ottenerlo”. A partire dagli anni Novanta, cultura e creatività sono state messe al centro di “politiche di conversione di economie che stavano perdendo le industrie e avevano bisogno di nuovi paradigmi di produzione del valore”. In questo filone vanno anche inseriti i progetti di rigenerazione territoriale a base culturale (che spesso funzionano, mentre in altri casi servono da alibi in mancanza di interventi strutturali che risolvano i problemi reali). Senza dimenticare la cultura come “petrolio d'Italia”, lanciata nel 1996 dal ministro Gianni De Michelis e usata dunque come carburante per il turismo (e il turismo dell'esperienza), oltre che come attrattore per i city users (salvo poi accorgersi dei danni dell'overtourism). Chiudono la galleria di Niessen due poli apparentemente opposti ma complementari. Da un lato la “cultura da cameretta” (dove “gli oggetti culturali si riducono esclusivamente alla loro funzione sociale e psicologica dell'affermazione identitaria, senza preoccuparsi di quel che succede attorno”). Dall'altro la “cultura come content”, ovvero la produzione ininterrotta di prodotti d'intrattenimento per le piattaforme digitali, “da convertire in dati per il marketing”.

Niessen conclude che “abbiamo bisogno di radicalità culturale” e su questo si interrogano i contributi alla rivista.

Negli ultimi anni si è sempre più affermata la consapevolezza che la cultura è un potente elemento di trasformazione individuale e collettiva (vedi Arjun Appadurai, Le aspirazioni nutrono la democrazia, et al., 2011). Dubini non ha dubbi: è vero che “la fruizione della cultura non genera percezione di beneficio immediato, ma dal punto di vista della collettività (genera) utilità collettiva” (p. 11).

Anche perché i benefici a livello individuale possono assumere valenza collettiva. Si stanno moltiplicando le ricerche sul welfare culturale (ovvero sulla cultura come generatrice di benessere, vedi la riflessione del Cultural Welfare Center qui) e sul nesso tra partecipazione culturale e democrazia (vedi Culture and democracy, the evidence. How citizens’ participation in cultural activities enhances civic engagement, democracy and social cohesion : lessons from international research, 2023, qui).

La cultura è “bene comune”, proprio per la sua stessa natura condivisa e relazionale. Diventano dunque strategici il coinvolgimento, la partecipazione e la coprogettazione, come “antidoto a una cultura pensata per tutti ma di fatto di pochi” (Dubini, p. 117). È una sperimentazione che non a caso si sviluppa soprattutto ai margini, dove l'ibridazione diventa necessità. Anche qui non mancano trappole e ambiguità: basta leggere la riflessione sull'arte partecipata di Claire Bishop (Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell'arte partecipativa, nuova ediz., Luca Sossella Editore, 2024). E tuttavia le esperienze e le visioni che nutrono questa nuova radicalità culturale si stanno moltiplicando, anche se il mondo sembra andare in direzione contraria.

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TAGGED: Paola Dubini

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